MALETTA, Manfredi
Di nobile famiglia siciliana, nacque in Sicilia o, secondo Giovanni Villani, in Puglia intorno al 1232, essendo coetaneo e zio materno di Manfredi di Svevia.
Del padre, di cui ignoriamo il nome, è certa l'origine di Paternò, poiché nel 1299 il M., ormai avanti negli anni, soggiornava in quel castello "tamquam in dilectis sui genitoris cunabulis longa ducens otia" (Speciale). La madre si chiamava forse Isabella, come la figlia maggiore e la nipote del Maletto. era consanguineo di Matteo Bonello, che nel 1160 aveva assassinato l'ammiraglio Maione di Bari durante l'insurrezione baronale contro Guglielmo I re di Sicilia. Esponenti della famiglia Maletta erano in Sicilia e in Puglia nella prima età normanna, ma non sono note fonti in merito a una supposta parentela del M. con Guglielmo Maletta, signore di Massafra. Il cognome si ricollega a Maletto, nella Sicilia orientale, dove la famiglia possedeva beni immobili, ma probabilmente i Maletta diedero nome al paese e non viceversa. Secondo Pirro, la terra di Maletto fu fondata proprio dal M. nel 1263.
Il M. fu educato alla corte di Federico II di Svevia, favorito da Manfredi, trattato con reverenza filiale dalla figlia di costui, Costanza, andata sposa a Pietro III d'Aragona nel 1262, e dai loro figli, Giacomo II d'Aragona e Federico III di Sicilia, che di lui furono "quasi alumni" (Speciale).
Villani lo chiama Manfredi Bonetta e lo definisce "uomo di gran diletto, sonatore e cantatore". Salimbene de Adam afferma che il M. divenne ricchissimo e potentissimo grazie a Manfredi, che lo amava e lo ammirava, anche perché era straordinariamente abile nel comporre canzoni e cantilene, non aveva pari nel suonare strumenti musicali e sapeva individuare i luoghi in cui erano nascosti i tesori. Probabilmente il M. era uno dei due musici siciliani con i quali Manfredi soleva uscire di notte per le vie di Barletta, cantando strambotti e canzoni. La qualità della sua produzione poetica e musicale non è, tuttavia, valutabile, poiché non è sopravvissuto alcuno dei suoi componimenti.
Il M. attraversò un periodo difficile quando Corrado IV, divenuto re di Sicilia nel 1250 alla morte del padre Federico II, emanò un bando contro i consanguinei del fratellastro Manfredi. Dopo la scomparsa di Corrado IV (maggio 1254), il M. partecipò al colloquio generale convocato a Napoli da papa Alessandro IV, che ingiunse ai fautori di Manfredi di abbandonarlo, pena la scomunica e la confisca dei feudi e dei beni. Ma l'appello rimase inascoltato e il 25 marzo 1255 il papa diede ai sostenitori di Manfredi tre settimane per arrendersi.
Il M. si affacciò sulla scena politica tra la Curia generale di Barletta del 1256 e l'incoronazione di Manfredi, avvenuta a Palermo nell'agosto 1258, quando si diffuse la falsa notizia della morte di Corradino, figlio di Corrado IV. Poco dopo, Manfredi scatenò un'offensiva contro i suoi nemici, distribuendo contee, baronie e feudi degli esuli e dei caduti in battaglia ai suoi seguaci lombardi e favorendo "quosdam de Sicilia de domo illorum de Maletta" (Malaspina). Tra il 1257 e il 1266 il M. visse in Puglia e fu gran camerario, carica che comportava la cura del re e della sua famiglia, e l'amministrazione dell'Erario pubblico e del Tesoro regio.
Con tale titolo il M. è ricordato indistintamente dai cronisti guelfi, ghibellini e aragonesi, che lo chiamavano "comes camerarius" o "conte camarlingo". Quando, per il prevalere degli Angioini, perse la carica di camerario, assegnata nel 1269 a Pietro de Beaumont, il M. continuò a utilizzare quel titolo. Papa Clemente IV osservò che "se comitem camerarium nominabat", mentre Carlo I d'Angiò ricordò che era detto "comitem camerarium" (Palumbo, p. 159). Tornato in auge dopo la rivolta del Vespro del 1282 e il passaggio della Sicilia agli Aragonesi, il M. riottenne la carica di gran camerario, menzionata anche nella legenda di un suo sigillo pendente in ceralacca con figura araldica, apposto in un documento del 20 genn. 1295.
Il M. possedeva feudi e terre in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. In Basilicata ebbe il casale di Montemilone, nell'alto Bradano, alcune terre sul Bradano e il casale Avenella, avuto in affitto, col favore di re Manfredi, dal monastero di S. Michele di Montescaglioso, al quale lo restituì il 5 apr. 1262. Ma la maggior parte delle terre lucane del M. erano concentrate nel Vulture, dove ottenne a vita, a titolo di locazione, la chiesa di S. Maria di Perno, con tutti i possedimenti posti a San Fele, Muro Lucano, Melfi e Rapolla, in cambio di un terzo dei prodotti agricoli, da versare al monastero femminile di S. Salvatore del Goleto, da cui S. Maria di Perno dipendeva.
Si trattava di fertili terre vulcaniche, che producevano frumento, orzo e uva, e dove si allevavano buoi, cavalli, pecore, maiali e api. Tra il 1262 e il 1266 il M. vi impiantò fiorenti masserie, costruì un forno, un mulino e una gualchiera. Dopo la morte di Manfredi fu effettuata un'inchiesta sui diritti di S. Salvatore del Goleto, dalla quale emerse che il M. l'aveva spogliato dei suoi beni, e Carlo I gli ingiunse di restituirli. Nel 1301, su istanza del M., Carlo II ordinò ad alcuni laici di ridare a S. Maria di Perno le case e le terre occupate.
La Calabria era la regione del Mezzogiorno dove gli interessi del M. erano più scarsi, limitandosi al possesso di masserie e greggi di ovini in Val di Crati e Terra Giordana.
In Campania aveva proprietà nel Principato. Manfredi gli concesse le baronie di Gesualdo e Frigento confiscate a Elia de Gesualdo, che le riebbe da Carlo I d'Angiò. Il M. possedeva, inoltre, Flumeri e i casali Greci, Savignano, Ferraria e Montaperto. Nel Beneventano aveva i casali di Venticano e "Pentola" (forse Pratola), appartenenti al monastero di S. Sofia di Benevento, ed era signore del vicino abitato di Taurasi.
In Puglia il M. aveva masserie in Capitanata, nel territorio di Lucera, terre nel Gargano e il casale di Laterza. Tra maggio 1259 e novembre 1263 fu signore dell'honor di Monte Sant'Angelo, che Federico II aveva lasciato in eredità al figlio Manfredi. Ricavò rendite cospicue dalla pesca sui pantani Varano, Lesina e Sant'Egidio. Inoltre controllava Manfredonia, città fondata nel 1263 da Manfredi dove sorgeva Siponto; al M. fu affidato l'incarico di completarne l'edificazione, mantenerla e difenderla. Quando nel 1299 si recò da papa Bonifacio VIII, il M. se ne attribuì la fondazione, affermando che un tempo Innocenzo IV gli aveva donato un terreno nella diocesi di Siponto e, molti anni dopo, egli vi aveva fatto edificare Manfredonia, chiamandola così in ricordo del proprio nome e non in onore di Manfredi di Svevia. Il M. raccontò, inoltre, a Bonifacio VIII che Carlo I d'Angiò gli aveva confiscato Manfredonia ed egli si era rivolto a papa Clemente IV che gliela aveva fatta restituire, ma il re gliela aveva tolta nuovamente.
Nella Sicilia orientale il M. ebbe le contee di Mineo e Paternò nella fertile piana di Catania. Originariamente Mineo e Paternò facevano parte della dote di Bianca Lancia, madre di Manfredi, al quale andarono alla morte di Bianca. Il M. si fregiò del titolo di conte di Mineo a partire dal 1259 e lo tenne fino 1266, quando giunsero in Sicilia gli Angioini. Le vicende concernenti Paternò appaiono ben più complesse e controverse, di certo rimase alla famiglia Lancia fino alla confisca operata da Carlo I d'Angiò. Solo dopo il Vespro il M. fu, probabilmente, signore di Paternò, nel cui territorio possedeva terre, mulini e giardini. Manfredi gli concesse il casale di Scordia Inferiore confiscato al guelfo catanese Nicolò de Sanducia, al quale Carlo I d'Angiò lo restituì il 24 sett. 1266. Durante il regno di Manfredi, il M. possedeva nella Sicilia nordorientale la terra di Sperlinga e il casale di Pettineo, che gli Angioini concessero a Roberto de Sparto dal 1266 al 1268 e a Pietro de Alamannone nel 1271. Dopo il Vespro, il M. rientrò temporaneamente in possesso di Pettineo, ma l'11 febbr. 1300 Federico III di Sicilia lo donò in perpetuo al cavaliere Alafranco di San Basilio e ai suoi eredi, poiché il M. si era arreso agli Angioini. Durante il regno di Giacomo II, nella Sicilia centroccidentale, il M. aveva il casale di Prizzi, il tenimento di Santa Maria de Harsa (con le mandrie Bucca de Crapa, Sparagia, Montoni, Nixio e Casalotto), nei pressi di Cammarata, i casali Turbuli e Sibene, tra Bivona e Cammarata.
Secondo Amico (s.v. Cammarata), al tempo di Giacomo II d'Aragona il M. ottenne la terra di Cammarata, già del fratello Federico, ma la perse definitivamente nel 1299, quando si arrese agli Angioini, e nel 1302 Federico III la cedette a Vinciguerra Palizzi.
Il M. condusse un elevato tenore di vita, abitando nelle eleganti case costruite a Manfredonia, Barletta e Orta Nova, soggiornando nei suoi castelli di Monte Sant'Angelo e Paternò e nel palazzo regio di San Gervasio. Possedeva una nave chiamata "S. Antonio", o "camberlingua" di tali dimensioni che gli Angioini, dopo averla requisita, ebbero enormi difficoltà a riattarla perché non trovarono in Sicilia alberi abbastanza grandi, cosicché nel 1271 decisero di ricorrere ai boschi della Calabria finendo, nel 1280, col farla demolire per riutilizzare il legname, dato che era ormai troppo vecchia.
Il M. sposò Filippa, figlia di Federico d'Antiochia, fratellastro di Manfredi di Svevia, dalla quale ebbe cinque figli: Federico, Giovanni, Isabella, Ilaria e Francesca. Non è noto, invece, il nome della madre del figlio naturale Maciotta (Matteo).
La battaglia di Benevento (26 febbr. 1266), nella quale Manfredi cadde, sconfitto da Carlo d'Angiò, determinò nella vita del M. un brusco cambiamento. Durante lo scontro egli rimase nelle retroguardie e fu tacciato di codardia dai cronisti angioini. Secondo Malispini, il M. e una parte dei baroni pugliesi tradirono Manfredi o lo abbandonarono per viltà, fuggendo verso Benevento o verso l'Abruzzo. In una lettera inviata il 25 marzo 1266 al cardinale Ottobono Fieschi (il futuro papa Adriano V), papa Clemente IV affermò che il M., dopo essere fuggito, era tornato indietro e si era arreso a Carlo I, offrendogli il tesoro regio, che includeva anche quattro corone d'oro, una delle quali sarebbe appartenuta a Federico II.
Poco dopo, un esponente della Curia papale (forse Fieschi) pregò il sovrano angioino di restituire al M. i castelli in precedenza consegnati. Il paladino del M. disse che, secondo l'opinione diffusa, il M. aveva seguito Manfredi solo per frenarne gli eccessi, nutrendo e vestendo i poveri, dotando le fanciulle indigenti e facendo liberare alcuni prigionieri ingiustamente detenuti. In un primo momento, il tentativo di mediazione del papa fallì e Carlo I ordinò al giustiziere di Basilicata di sequestrare i beni del M. e al giustiziere della Terra di Bari di prendere possesso di castelli, terre, masserie, beni mobili e immobili della moglie del Maletta.
Accusato di avere compiuto indebite usurpazioni di beni approfittando del suo potere, il M. dovette affrontare lunghe e onerose dispute patrimoniali e restituire numerose terre ai presunti proprietari. Il 12 maggio 1266 Carlo I ordinò di consegnare al convento di S. Maria di Gualdo la peschiera del pantano Varano, occupata illecitamente. Inoltre, Clemente IV vietò alla sorella del M. di diventare badessa e le impose l'esilio. Alcuni beni del M. furono occupati illecitamente, prima di essere confiscati, e l'8 genn. 1267 Carlo I invitò tutti gli ufficiali ad assistere Bernardo "de Albemallia", che doveva accordarsi con i detentori dei beni del M.; ma una lettera del 24 febbr. 1267, in cui il M. firma come gran camerario, mostra che Carlo I lo aveva perdonato.
Probabilmente il M. si spostò nella Marca anconetana con Giovanni da Procida. Durante il breve e fallimentare tentativo di far tornare al potere gli Svevi, compiuto dal giovane Corradino, il M. s'impegnò a fornire un consistente contributo economico e seguì Corradino a Verona, dove il 7 nov. 1267 firmò col titolo di conte camerario un atto emanato da Corradino. Clemente IV ingiunse ai fautori di Corradino di non entrare in armi in Italia, pena la scomunica e, dato che il M. continuava a sostenere Corradino e lo seguì a Verona (e forse anche a Pavia), il papa lo scomunicò per ben quattro volte: il 18 e il 26 nov. 1267, il 5 aprile e il 17 maggio 1268. Ma i rapporti con Corradino s'incrinarono, dato che il M. non onorò l'impegno di versare 16.000 onze per lo stipendio dei soldati tedeschi del principe e di fornire 1000 uomini a sue spese, come aveva inizialmente promesso.
Così, Corradino concesse a Pietro "de Precio", vicecancelliere e protonotaro, i castelli di Vico del Gargano e Ischitella, che si trovavano nell'honor di Monte Sant'Angelo, togliendoli al M., riservandosi la possibilità di rivedere il provvedimento "si forte dictus M. in nostra gratia fuerit reformatus" (Del Giudice, II, p. 205). Frattanto, Corradino affidò le funzioni di camerario a Tommaso d'Aquino.
Dopo la battaglia di Tagliacozzo e la decapitazione di Corradino, avvenuta a Napoli nell'ottobre del 1268, il M. fece perdere le sue tracce. Il 22 sett. 1268 si trovava nei pressi di Roma, dato che Carlo I d'Angiò ordinò a Odone "de Luco" di consegnare immediatamente il M. e Giovanni da Procida a Rinaldo "Conchis", servitore regio, e a Romanio "de Scachiis" e Rinaldo di Mastro Giacomo, ambasciatori e cittadini romani.
Nel gennaio 1270 il re ordinò ai giustizieri della terra di Bari, d'Otranto e di Capitanata di ricercare e annotare i beni mobili e immobili del Maletta. Il 21 marzo 1271 fu avviata un'indagine su due casali rivendicati dal monastero di S. Sofia di Benevento. Nel giugno 1271 Carlo I concesse al primogenito Carlo, principe di Salerno, la contea di Lesina, che comprendeva l'honor di Monte Sant'Angelo, Varano e Manfredonia. Il sovrano angioino ordinò, inoltre, al secretus di Sicilia di dare al cavaliere Bertrand Lentand il casale "Susuria" (secondo Catalioto, Nissoria nel territorio di Enna), tenuto dal Maletta. Il 1( apr. 1288 Carlo I donò a Jean de Montfort la casa del M. a Manfredonia, presso il palazzo della Zecca.
Non si hanno notizie su un supposto soggiorno del M. in Germania, mentre fu certamente in Veneto, anche se appare improbabile l'affermazione di Salimbene de Adam, secondo il quale sarebbe rimasto a Venezia fino al 1282. Forse aveva avuto qualche contatto con Venezia anche in passato, dato che nel settembre 1257 aveva sottoscritto come testimone il privilegio concesso da Manfredi al doge di Venezia. Bartolomeo di Neocastro afferma che fu al fianco di Ottokar II Pòemysl re di Boemia (imparentato con gli Hohenstaufen per parte di madre), morto il 26 ag. 1278 nella battaglia di Dürnkrut, in Bassa Austria, combattuta contro Rodolfo d'Asburgo. Si può, quindi, ipotizzare che dal Veneto sia passato in Austria, anche perché il M. era noto al cronista Ottokar von Steiermark, che lo chiama "der grâve kemerlink". E la fama del M. nella poesia austriaca appare in stretta connessione con gli interessi di Ottokar II, che introdusse a Praga l'ars dictandi italiana. I rapporti con ambienti tedeschi e austriaci sono, del resto, avvalorati dal già citato documento emanato a Verona nel 1267, dove, accanto alla firma del M., appaiono quelle di Ludovico, duca di Baviera, e Federico, duca d'Austria e Stiria.
Durante l'esilio del M., la moglie Filippa d'Antiochia rimase in ostaggio in Capitanata, con i figli e i servitori, e nel 1269 percepiva una sovvenzione di 3 onze al mese, con la clausola di non intrattenere rapporti col ribelle fratello Corrado. Il 20 ott. 1272, mentre giungevano da più parti pressanti appelli per la liberazione della nobildonna, Carlo I ordinò a Luchisio "de Florencia", capitano dell'Aquila, di consegnare Filippa a Fortebraccio "de Romania", con l'impegno di non allentare la sorveglianza, per impedire che costei spedisse al M. lettere, messaggeri e denaro, o ne ricevesse. Filippa morì prima del 27 ott. 1273, mentre era rinchiusa nel castello di Monte Sant'Angelo. Il 25 febbr. 1286 i figli e le figlie del M. erano ancora prigionieri in Puglia; nel dicembre 1291 furono trasferiti nel Castel Capuano di Napoli, dove rimasero fino al 7 luglio 1292, quando furono liberati e consegnati a Filippo Minutolo, arcivescovo di Napoli, dopo che il M. pagò a Carlo Martello, vicario generale del Regno, un riscatto di 500 onze. Dopo la morte di Filippa, il M. sposò Giacoma, qualificata nei documenti angioini come abitante di Manfredonia, che gli sopravvisse e nel 1312 ebbe confermati i diritti sul pantano Sant'Egidio. Pirro afferma che Giacoma era una nobildonna della famiglia Bonifacio, signora di Paternò.
Non si hanno tracce della presenza del M. in Aragona, ma certamente collaborò con gli Aragonesi, trasferendosi in Sicilia dopo il Vespro e conservando la qualifica di conte camerario nei documenti della Cancelleria aragonese. Sebbene Giacomo II d'Aragona ricordi la sua parentela con il M., definendolo consanguineo, tra il maggio 1285 e il marzo 1294 le sue relazioni col M. erano instabili. Il 2 maggio 1285 Giacomo II ingiunse al M. di restituire al vescovo di Cefalù il tenimento di Santa Maria de Harsa. Il 12 febbr. 1286 il M. sottoscrisse a Palermo un atto stipulato tra Giacomo di Sicilia e il fratello Alfonso III d'Aragona. Bartolomeo di Neocastro riferisce che nel maggio 1287 re Giacomo incontrò ad Aci il M. e insieme videro le galee angioine dirette a Catania.
Il M. però non volle seguire il re a Catania, affermando che era meglio recarsi a Messina, poiché a Catania c'erano pochi alleati e, se gli Angioini si fossero impadroniti della città, sarebbero stati tutti in pericolo. Quando il re invitò i suoi fidi a seguirlo, anche a costo della vita, il M. asserì di non essere abile in battaglia e che, addirittura, portava sfortuna a chi combatteva, ricordando la tragica morte di Manfredi di Svevia nel 1266 e di Ottokar II di Boemia nel 1278. Aggiunse, poi, che avrebbe raggiunto la regina e la comitiva delle altre signore per non lasciarle sole e svolgere altri delicati incarichi. Nel 1291 il M. firmò a Messina l'atto con cui Giacomo II, prima di lasciare la Sicilia per essere incoronato re d'Aragona, disponeva la successione nei Regni di Aragona e di Sicilia. Nello stesso anno, il re ordinò agli ufficiali regi d'impedire al M. di proseguire le cause mosse contro alcuni cittadini palermitani, in merito a beni immobili a Palermo che possedevano dall'epoca di Manfredi. Inoltre, il 20 marzo 1292 Giacomo II gli ordinò di non contendere al camerario Raimondo di Villanova il possesso del casale di Prizzi, dato che gliel'aveva ormai concesso. Il 3 genn. 1294 Giacomo II raccomandò al fratello Federico, luogotenente di Sicilia, di costringere il M. a restituire a Guglielmo Boneti il casale Sibene, ma di procedere equamente nelle altre cause in corso, per le quali il M. aveva affrontato grandi spese.
Fra il 1292 e il 1299 il M. visse tra Catania, nel cui territorio possedeva vigne e oliveti, e Paternò, destreggiandosi tra Aragonesi e Angioini. Dopo l'incoronazione di Federico III di Sicilia, nel 1296, la sua ambigua politica divenne difficilmente praticabile.
Espugnato il castello di Castiglione, Federico III concesse un salvacondotto per recarsi a Napoli a Giovanni di Lauria (nipote dell'ammiraglio Ruggero), che aveva promosso la ribellione del castello, alla moglie di questo, Ilaria, e al M., padre di Ilaria. Nel luglio 1299, dopo due giorni di trattative, il M. venne a patti con gli Angioini che assediavano Paternò, secondo Speciale, per viltà o per vecchiaia, ottenendo il perdono regio e papale. Dando in ostaggio a Roberto, conte di Artois e duca di Calabria, i figli, i nipoti e gli affini, come temporanea garanzia della resa, il M. s'impegnò a giurare fedeltà al papa e a Carlo II d'Angiò, se entro otto giorni non fossero giunti soccorsi da parte di Federico III, e ottenne un salvacondotto per recarsi dal papa e dal re, via mare o via terra. Il M., i suoi figli e parenti avrebbero ottenuto il perdono e mantenuto tutti i feudi, i beni mobili e immobili posti in Sicilia, comprese le terre donate da Carlo II all'ammiraglio Ruggero di Lauria. Paternò sarebbe stata sciolta dall'interdetto e i cittadini fatti prigionieri dal duca Roberto sarebbero stati liberati. Se il M. fosse stato costretto a lasciare la Sicilia, avrebbe ottenuto come compenso feudi in Puglia. I patti furono firmati dal M. e dal duca Roberto il 28 luglio 1299 e ratificati a Napoli da Carlo II il 15 novembre.
Giunto da Bonifacio VIII, il M. gli raccontò che durante l'esilio non aveva potuto far cancellare le confische subite, ma aveva continuato a fare opere di carità e si era sempre adoperato per la pace; inoltre aveva aiutato la Chiesa con i suoi consigli e messo i suoi castelli siciliani a disposizione del duca Roberto. Accogliendo le richieste del M., il 30 dic. 1299 il papa gli confermò le baronie di Gesualdo e Flumeri, i casali Greci, Savignano, Ferraria, Montaperto e Montemilone, la terra di Manfredonia, San Giovanni Rotondo a Monte Sant'Angelo e alcune case a Barletta. L'11 genn. 1300 il papa chiese a Carlo II di restituire al M. Manfredonia, tutti i casali, le case e i beni, ma in realtà il M. non riuscì mai a rientrare in possesso del suo vasto patrimonio feudale.
Lasciata la Sicilia, il M. visse prevalentemente in Puglia, ma soggiornò anche a Napoli. Il 26 apr. 1300 Carlo II d'Angiò lo nominò castellano di Manfredonia, dove possedeva case e vigne, con la clausola che i prigionieri e le armi fossero trasportati nel castello di Monte Sant'Angelo e i viveri consegnati a un cittadino di Manfredonia. Il 1( sett. 1300 gli fu affidata la custodia del palazzo regio e della foresta di San Gervasio. Il controllo del monte Vulture e della valle di Vitalba, attribuitogli il 30 luglio 1300, fu invece assegnato tre giorni dopo a Jean de Montfort.
Dato che ormai non sarebbe più tornato in Sicilia, il 24 ag. 1301 il M. donò al figlio Federico beni a Palermo, Agrigento, San Filippo d'Argirò (oggi Agira) e Catania. Nel 1303 il M. si trovava ad Ancona, dove restituì al monastero di Casamari (che li aveva ottenuti nel XII secolo da Matteo Bonello) la chiesa di S. Angelo, il castello e il tenimento di Prizzi: quando il M. era rientrato in Sicilia suo figlio Giovanni aveva cacciato i monaci e occupato Prizzi. Il 23 ag. 1307 Clemente V concesse al cardinale Guglielmo Longo beni e proventi delle città di Bitonto e Brindisi e del loro distretto spettanti all'arcivescovo di Monreale, largiti in passato al M. da Geraldo, cardinale vescovo di Sabina e legato apostolico in Sicilia. L'affermazione di Speciale, secondo cui il M. "dies suos in extrema paupertate finivit" (p. 410) è supportata dal fatto che la pensione di 240 onze annue, assegnatagli sui proventi regi di Manfredonia, era pagata con grande ritardo.
Il M. morì a Napoli, assistito dalla figlia Ilaria, il 17 luglio 1310, a casa del cavaliere Giovanni Caritoso, in piazza S. Gennaro, e fu sepolto onorevolmente nella chiesa francescana di S. Lorenzo.
Tornati in libertà, i figli e le figlie del M. si trasferirono in Sicilia. Federico divenne cavaliere e sposò la catanese Damigella de Berrenzano, vedova del cavaliere Tommaso Fidanza, che possedeva beni immobili a Catania e terre a Paternò. Il 26 nov. 1292 il M. cedette a Damigella i diritti su alcune terre di Paternò per 60 onze, 50 salme di frumento, un cavallo del valore di 20 onze e il passaggio gratuito sul fiume Simeto. Federico viveva a Catania in un palazzo in contrada S. Domenica de Civita e morì prima dell'11 dic. 1317. Dal matrimonio tra Federico e Damigella nacquero Pagana, Isabella e Francesca. Damigella e la figlia Francesca furono sepolte nella cattedrale di Catania, nell'altare del primo marito di Damigella. Giovanni scoprì un complotto ordito a Palermo nel 1301 per consegnare la città al duca Roberto e a Ruggero di Lauria. Nel 1310 Giovanni era cavaliere e vendette la casa, la vigna, il giardino e l'oliveto che possedeva nel territorio di Catania per vivere stabilmente a Palermo, dove morì tra il 1321 e il 1332, ed ebbe due figli: il cavaliere Manfredi e Aloisia. Il figlio naturale del M., Matteo, fu legittimato da Carlo II d'Angiò il 18 ag. 1300, visse a Paternò, sposò Filippa de Fandono e morì tra 1313 e 1339. Isabella sposò Jean de Montfort. Dopo la decapitazione del primo marito, Giovanni di Lauria, avvenuta a Messina tra fine 1298 e inizio 1299, Ilaria lasciò la Sicilia con il padre e sposò il cavaliere Pietro de Vico, prefetto di Roma. Il M. le promise in dote la baronia di Gesualdo, nel Principato, e la baronia di Mistretta, in Sicilia, ma, non avendole potute riavere, diede temporaneamente in pegno al genero la terra e la torre di Paternò. Secondo Pirro, Ilaria ereditò dal padre il feudo di Mineo. Francesca sposò il nobiluomo catanese Guglielmo Branciforti, visse a Catania in una grande casa di contrada S. Agata e morì prima del 29 dic. 1345.
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