SCALI, Manetto
– Nacque presumibilmente a Firenze nella seconda metà degli anni Cinquanta del XIII secolo, figlio di messer Spina e di madre sconosciuta.
Compare per la prima volta in un documento del novembre 1274, quando in qualità di testimone presenziò a un atto di procura che ebbe per protagonisti alcuni esponenti della casata fiorentina dei Buondelmonti. In questo atto è registrato come Manettuccio del fu Spina degli Scali e il diminutivo del nome, insieme al fatto che in quell’occasione non esibì il titolo di dominus come avrebbe fatto in seguito, fanno supporre che avesse superato da poco i quindici anni, età al raggiungimento della quale si era ritenuti maggiorenni. A quella data il padre era già deceduto, lasciando al figlio la quota di partecipazione alla compagnia di famiglia di cui erano soci anche due zii, Cante e Tegghia.
Più che al padre, tuttavia, le fortune della famiglia erano legate ai successi del nonno, Iacopo di Cavalcante de Scala, dal quale la casata avrebbe poi tratto il proprio cognome. Egli aveva raggiunto un’ottima posizione sociale, economica e politica già nella prima metà del Duecento, sia all’interno della principale arte cittadina, quella di Calimala, sia all’interno delle istituzioni comunali. La compagnia, di cui fino agli anni Sessanta erano soci anche esponenti delle famiglie Mozzi e Spini, vantava ottimi rapporti con la Curia pontificia e fu tra le società fiorentine che nel 1263, nel pieno della lotta tra il Papato e gli ultimi eredi della casata sveva, giurarono fedeltà al pontefice. Tra coloro che prestarono giuramento ci furono proprio Iacopo e i suoi tre figli, Cante, Tegghia e Spina; un quarto figlio, Raniero, aveva abbracciato la carriera ecclesiastica divenendo canonico della chiesa metropolitana fiorentina almeno fin dal 1250. A quegli anni risale anche l’avvicinamento della compagnia Scali a Carlo d’Angiò, il campione del papa grazie al quale gli Scali conquistarono una posizione di preminenza nei mercati dell’Italia meridionale. Nei primi anni Ottanta si consumò invece il distacco di Mozzi e Spini dalla compagnia degli Scali, della quale rimasero socie le casate Amieri e Balsami.
Dagli anni Novanta Manetto divenne il principale titolare della compagnia. Gli Scali, oltre che intraprendenti mercanti e banchieri, furono grandi proprietari terrieri sia in città sia nel contado e occuparono un posto di primo piano nella vita cittadina di quei decenni, collocandosi a pieno titolo nel gruppo della militia. Anche Manetto – come in precedenza Iacopo e i tre figli, Spina, Tegghia e Cante – fu addobbato cavaliere; già in occasione della pace del cardinal Latino Malebranca del 1280 sfoggiò il titolo di dominus, segno tangibile dell’avvenuta cerimonia di investitura a cavaliere aureato.
Dalla famiglia Manetto aveva dunque ereditato la tradizione e i costumi militari, un’accentuata intraprendenza mercantile e un’invidiabile posizione politica e sociale, caratteristiche che lo portarono a divenire uno dei protagonisti della storia fiorentina degli ultimi decenni del Duecento e dei primi anni del secolo seguente, quelli del conflitto tra magnati e popolani e dello scontro tra bianchi e neri.
Manetto esercitò realmente anche l’arte militare e nel 1289 fu tra le fila dei cavalieri fiorentini che sconfissero gli aretini a Campaldino. Con una provvisione di alcuni mesi più tardi i consigli cittadini gli riconobbero un rimborso di ben duecento fiorini d’oro per i danni subiti nelle cavalcature in occasione di tale scontro.
Mentre la sua compagnia continuava a intrattenere proficui rapporti con la casata angioina, Manetto raggiunse importanti traguardi anche nella vita politica cittadina. Nel 1285 fu consigliere nell’assemblea dei Novanta per il sesto di Borgo, quello nel quale risiedeva e si concentravano le proprietà immobiliari della casata in città. Nel settembre del 1289 fu inviato come ambasciatore presso la Curia pontificia a Roma; nel medesimo mese del 1290 intervenne in un consiglio di savi, mentre in ottobre fu inviato insieme ad altri due fiorentini presso Aimeric di Narbona, il condottiero che l’anno precedente aveva guidato l’esercito fiorentino alla vittoria di Campaldino.
Oltre a ricoprire importanti incarichi in Firenze, Manetto ebbe anche una carriera tra i professionisti della politica itinerante: fu podestà di Città di Castello nel secondo semestre del 1291, podestà e capitano del Popolo a Pistoia nel 1294 e nel 1295, podestà di Brescia nel 1298.
Ricchezza, potenza, valore militare furono tutte caratteristiche che Manetto e gli Scali condivisero con quel gruppo di casate che a partire dagli anni Ottanta furono dichiarate magnatizie e che furono colpite dagli Ordinamenti di giustizia. Lo dimostra anche un episodio del quale lo stesso Manetto fu protagonista. Al tempo della sua podesteria in Pistoia (1298) si trovò in contrasto con un giudice della città, o fu da questi offeso per qualche motivo a noi ignoto. Quel che è sicuro, invece, è che Manetto non dimenticò l’episodio e quattro anni più tardi, avendo saputo che il giurista si trovava in una località del Senese, ne commissionò l’omicidio a un nipote e a tre sicari, uscendone impunito.
Scoppiata nel frattempo la lotta tra bianchi e neri gli Scali si schierarono con i primi, secondo la cronachistica, perché parenti dei Cerchi. Di fatto, tuttavia, la compagnia di famiglia ebbe anche rapporti tesi con Bonifacio VIII, che la escluse dall’attività della camera apostolica, affidando il servizio di tesoreria ad altre società. Nel 1301 fu a Manetto Scali e a Neri Giandonati, all’epoca capitani di Parte guelfa, che si rivolsero i priori in carica nel tentativo di pacificare le due parti. A detta del cronista Dino Compagni, al quale si deve il racconto degli eventi, Manetto si adoperò con impegno per riavvicinare Cerchi e Spini, essendo parente di entrambi, ma il suo tentativo si scontrò inevitabilmente con la mancanza assoluta di volontà da parte dei neri di giungere a una conciliazione con la fazione avversa. Pochi mesi dopo anche Manetto cadde vittima degli intrighi tramati da Corso Donati e dai suoi seguaci.
Nell’aprile del 1302 i neri mostrarono a Carlo di Valois, inviato da Bonifacio VIII con il pretesto di pacificare le parti in Firenze, un falso atto che attestava una cospirazione contro di lui da parte dei bianchi ed egli decise di convocare i presunti colpevoli con una scusa. Avvertito, Manetto Scali abbandonò il suo palazzo di Calenzano nel quale si trovava e fuggì a Mangona in Mugello, così che i nemici, cercandolo nelle stanze appena abbandonate, passarono addirittura a fil di spada la paglia dei letti. Carlo di Valois ordinò allora la confisca di tutti i beni dei fuggiaschi, ne fece bruciare le case e devastare le terre. Manetto, temendo per gli interessi della compagnia in Francia, fece riscattare i beni dai suoi soci per 5000 fiorini d’oro, mentre veniva bandito da Firenze insieme a Dante e agli altri bianchi.
Nel dicembre del 1304 era di nuovo nel palazzo di Calenzano; nel 1307 re Edoardo I d’Inghilterra emanava un ordine d’arresto nei suoi confronti per colpe non specificate; nel giugno del 1311 era già deceduto.
Ebbe almeno due figli, Rosso, iscritto all’arte del Cambio nel 1300, e Cante, che proprio nel giugno di quell’anno sposava Vasia di Bernardo Manfredi, ricevendo una dote di 2870 lire.
Contrariamente a quanto tramandato dalla storiografia sulla scorta di Isidoro Del Lungo e di una genealogia di Luigi Passerini (Del Lungo, 1879-1887, I, pp. III-VII, 978 s.), Manetto Scali non poté essere il nonno del cronista Dino Compagni, la cui nascita è collocata nel decennio antecedente a quello del presunto avo. Se così fosse stato, Manetto avrebbe dovuto nascere agli inizi del Duecento per morire più che centenario un secolo più tardi. Nella famiglia Scali non risulta peraltro alcun omonimo vissuto in anni compatibili con quelli in cui avrebbe dovuto vivere l’avo di Dino Compagni, mentre di diversi anni più anziano di Manetto di Spina degli Scali fu messer Manetto di Spina della casata Spini: la perfetta corrispondenza del nome e del patronimico, il possesso da parte di entrambi della dignità cavalleresca esplicitata nell’esibizione del titolo di messere, il fatto che entrambi vivessero nel sesto di Borgo, che per un paio di decenni coesistessero sulla scena politica fiorentina e che Scali e Spini, oltre che parenti fossero anche soci d’affari fino agli anni Ottanta del secolo, hanno sicuramente facilitato la confusione tra questi due individui, anche se non è possibile neppure stabilire una parentela certa tra Dino Compagni e Manetto Spini.
Manetto Scali fu dedicatario del volgarizzamento del trattato De re militari di Vegezio a opera del fiorentino Bono Giamboni e, secondo Gianfranco Contini, non è da escludere che fosse il destinatario del sonetto Guata Manetto, quella scrignutuzza di Guido Cavalcanti (in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, 1960, II, 2, p. 566).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Notarile Antecosimiano, 5471, c. 5r; 6695, cc. 77v, 137v; 11250, c. 69v; 13364, c. 73r; 17563, c. 2r; Diplomatico, S. Maria sul Prato, 1304 dicembre 20; Arte dei Mercatanti o di Calimala, 1300 giugno; Riformagioni, 1300 giugno 14; Provvisioni, registri, 2, cc. 53v, 59r, 71v, 114; 4, c. 75v; 5, cc. 64, 132v; Capitoli, 40, cc. 25r-31v; A. Gherardi, Consulte della Repubblica Fiorentina dall’anno 1280 al 1298, I-II, Firenze 1896-1898, ad ind.; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1960, II, 2, p. 566; D. Compagni, Cronica, con introduzione e commento di D. Cappi, Roma 2013, ad indicem.
I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, I-III, Firenze 1879-1887, I, pp. III-VII (doc.I), 978 s.; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I-VIII, Firenze 1956-1968, ad ind.; S. Borsari, Una compagnia di Calimala: gli Scali (secc. XIII-XIV), Macerata 1994; S. Diacciati, Popolani e magnati: società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto 2011, pp. 72-74; L. Tanzini, Albertano e dintorni. Note su volgarizzamenti e cultura politica nella Toscana tardo-medievale, in La parola utile. Saggi sul discorso morale nel Medioevo, Roma 2012, pp. 184 s.; J.M. Najemy, A history of Florence 1200-1575, Oxford 2006 (trad. it. Torino 2014, ad ind.); S. Diacciati - E. Faini, Ricerche sulla formazione dei laici a Firenze nel tardo Duecento, in Archivio storico italiano, CLXXV (2017), pp. 205-237.