MANCIPAZIONE (mancipatio)
Nell'epoca storica del diritto romano la mancipatio era un modo formale iuris civilis per l'alienazione delle res mancipi: applicata alle res nec mancipi era un atto senza valore giuridico. Discussa è l'etimologia di questa parola, giacché, mentre i più la vorrebbero far derivare da manu capere e applicare in origine l'istituto alle sole cose mobili, P. Bonfante invece sostiene la sua derivazione da mancipium.
Era una vendita simbolica fra l'alienante e l'acquirente con l'intervento di cinque testimonî e di un libripens, che reggeva una bilancia e presentava la cosa se si trattava di cosa mobile. L'acquirente (mancipio accipiens), tenendo in mano un pezzo di bronzo non coniato (aes rude), dichiarava che la cosa era sua ex iure Quiritium e che l'aveva comperata con quel bronzo e con quella bilancia. Al che l'alienante rispondeva: raudusculo libram ferito; l'acquirente obbediva all'invito e batteva sulla bilancia col bronzo che consegnava poi all'alienante quasi pretii loco. Si discute se i testimonî dovessero essere soltanto puberi cittadini romani o potessero essere anche latini o peregrini forniti di commercium: la seconda opinione sembra la più probabile. Alcuni documenti ricordano l'intervento alla cerimonia anche di un antestatus. È dubbio se questi fosse compreso fra i testimonî o fosse da identificarsi con il libripens: lo Schupfer affacciò l'ipotesi che si trattasse di persona che dirigeva la confezione dell'atto. F. Kniep pensa a una doppia forma di mancipazione, scritta e orale. Dubbio è anche se la formula contenesse l'indicazione del prezzo, oppure l'indicazione che la mancipatio era fatta nummo uno: ciò è sostenuto da V. Scialoja e F. Eisele, ma è negato dall'opinione dominante. Per ogni cosa alienata sembra fosse necessaria una mancipatio particolare. La mancipatio non ammetteva né termini né condizioni; anzi, se queste erano aggiunte, l'atto era nullo. Si potevano però aggiungere dei patti accessorî, i quali, se fatti alla presenza delle persone presenti all'atto e se aventi stretta relazione con esso, avevano valore giuridico, riconosciuto fino dall'epoca delle XII Tavole: così, ad esempio, la dichiarazione che il fondo era libero da servitù o che aveva una data misura. L'alienante doveva garantire la proprietà della cosa, cioè rendersi auctor. Se l'acquirente era citato in giudizio da un terzo per la rivendica della cosa, poteva chiamare in causa l'alienante e, se la cosa veniva evitta, l'acquirente con l'actio auctoritatis otteneva dall'alienante il doppio del prezzo di acquisto. Tale azione poteva essere esperita entro un anno dall'acquisto di una cosa mobile, entro due anni dall'acquisto di un immobile.
Se tale si presenta l'istituto nel periodo storico, è facile congetturare quale doveva essere la sua funzione originaria. La bilancia, il bronzo non coniato ci riportano a epoca antichissima, quando ancora non esisteva la moneta coniata e bisognava pesare il metallo. La mancipatio era in principio una vendita reale, cioè smmbio immediato della cosa contro il prezzo: in altre parole, la causa di trasmissione del dominio era la compravendita. Quando, in seguito, la vendita si distinse come accordo sullo scambio dallo scambio stesso, la mancipatio si trasformò in un atto formale simbolico (imaginaria venditio, come la chiama Gaio), che trasmette il dominio, e ha come causa la forma stessa. Se però le parti intendevano vendere per un prezzo determinato, allora non poteva aversi la trasmissione del dominio se il prezzo non era pagato fuori della mancipatio, oppure (il che però è controverso) se non veniva data una garanzia per il pagamento di questo.
La mancipatio serviva anche a scopi testamentarî. Mediante la mancipatio familiae si trasmetteva il proprio patrimonio a un amico, pregandolo di disporre nel modo che gli si esponeva e affidandosi alla sua fede. La giurisprudenza, fondandosi sul disposto delle XII Tavole che abbiamo sopra riportato, pare abbia dato sanzione giuridica alla lex mancipii o nuncupatio aggiunta, riducendo la mancipatio familiae a una mera forma. Da questo istituto si sviluppò, in seguito, il testamentum per aes et libram (v. testamento).
La mancipatio, finalmente, trovava applicazione nella famiglia romana e veniva anche adoperata per escludere da essa un filiusfamilias. Il vincolo familiare si rompeva con l'adozione in altra famiglia (v. adozione) e con l'emancipazione. Questa è un atto col quale il paterfamilias rinuncia alla sua potestà sopra un filiusfamilias e questi diventa esso stesso sui iuris e paterfamilias. Essa è estranea al diritto romano primitivo. L'istituto fu creato sulla base di una norma della legge delle XII Tavole, che aveva per scopo di punire nel paterfamilias un abuso dei suoi diritti: se per tre volte egli avesse venduto il suo filiusfamilias, cioè fosse tornato a venderlo per la seconda e la terza volta dopo che il compratore l'aveva manomesso e, per questa manomissione, il filius fosse ricaduto sotto la potestà del pater, il filiusfamilias doveva essere libero dalla patria potestà. Adattando a diverso scopo questa nomia, il pater vendeva il filiusfamilias a persona di sua fiducia nella forma della mancipatio per tre volte: a ciascuna vendita seguiva la manomissione fatta dal compratore; l'ultima manomissione rendeva il filiusfamilias libero dalla patria potestas. A evitare, peraltro, che il compratore acquistasse i diritti di patronato sul manomesso e anche la tutela, nel caso che questi fosse stato impubere, il paterfamilias la terza volta faceva remancipare a sé stesso il filiusfamilias per manometterlo. Questa forma complicata si applicava soltanto ai figli maschi: per le figlie e per i nipoti, intendendosi alla lettera la parola filius delle XII Tavole, si ammise che bastasse una sola mancipazione. Praticata largamente fino a tutto il sec. V dell'impero, soggiacque al destino che ebbero nell'epoca romano-ellenica gl'istituti caratteristicamente romani. Una costituzione dell'imperatore Anastasio (Cod., VIII, 48 [49], de emancip., 5) dell'anno 502 ammise, per i casi in cui l'assenza del figlio impedisse l'uso dell'antica forma un'emancipazione per rescriptum principis: successivamente Giustiniano (Cod., ibid., 6) abolì l'emancipazione classica e, mentre rese applicabile a ogni ipotesi l'anastasiana, consentì anche di emancipare i figli mediante semplice dichiarazione al magistrato.
La liberazione dei figli dalla patria potestà presupponeva nell'età repubblicana, e ancora per qualche tempo entro l'impero classico, la volontaria rinunzia del paterfamilias. Ma esempî di emancipazione coattivamente imposta dalla potestà pubblica già si notano nel secolo II d. C.: nell'Impero tardo, poi, la dignità di patrizio, di console, di prefetto del pretorio, di praefectus urbis, di magister militum e di vescovo importa esenzione dalla patria potestà.
Può parere singolare che i Romani considerassero questo scioglimento dalla potestà familiare come una capitis deminutio, dato che la capacità giuridica dell'emancipato, anziché diminuire, si faceva più piena. Ciò si spiega risalendo alle origini, quando l'organizzazione politica suprema era debole e l'individuo non avrebbe potuto agevolmente fare a meno della protezione di un forte gruppo familiare: il progressivo sviluppo dello stato e l'affermarsi, nella famiglia, della società domestica fecero sì che l'emancipazione diventasse un vantaggio effettivo, tanto che già nel sec. III (Paolo, Sent., II, 25,5) si richiede il consenso del filius.
Con l'emancipazione il peculium profecticium, se all'atto di essa non sia espressamente ademptum, passa in proprietà del filius. Al padre emancipante fu riconosciuto il diritto di ritenersi la proprietà di un terzo dei bona adventicia (cioè il praemium emancipationis), convertito poi da Giustiniano nel diritto di ritenere una metà in usufrutto.
Diversa dall'emancipazione romana era l'esclusione dalla famiglia del figlio indegno di appartenervi, la cosiddetta ἀποκήρυξις (latinamente abdicatio), che esiste con carattere punitivo nell'antichissimo diritto babilonese, come poi nei vari diritti ellenici fin dall'età più arcaica, e nel diritto cretese anteriore a Cristo di quattro secoli, continua nelle regioni dominate dal libro siro-romano dopo il sec. V, nell'Egitto anche dopo Giustiniano, e sopravvive nelle costumanze popolari di alcune provincie greche persino nell'età moderna. A questo istituto, che ebbe vita assai diffusa e tenace nelle costumanze dei popoli mediterranei, il diritto romano si oppose nettamente, come manifesta una costituzione di Diocleziano e Massimiano (Cod., VIII, 46 [47], de patria pot., 6).
Bibl.: Sulla mancipatio di res mancipi, cfr.: Ph. E. Huschke, Über das Recht des nexum, ecc., Lipsia 1846; B. W. Leist, Mancipation u. Eingentumstradition, Lipsia 1865; R. Stintzing, Ueber die Mancipatio, Lipsia 1904; S. Schlossmann, In iure cessio u. mancipatio, Kiel 1904; E. Rabel, Nachgeformte Rechtsgeschäfte, in Zeitschr. d. Sav. St. für Rechtsg., rom. Abt., XXVII (1906), p. 90 segg.; V. Scialoja, in Bull. ist. dir. rom., XIX, p. 192; L. Mitteis, in Zeitschr. d. Sav. St. für Rechtsg., rom. Abt., XXXVII (1916), p. 371; P. F. Girard, Histoire de la garantie d'éviction, in Mélanges, Parigi 1923, II, p. 3 segg.; id., L'auctoritas et l'actio auctoritatis, ibid., p. 155; S. Perozzi, Istituzioni di dir. rom., 2ª ed., I, Roma 1928, p. 641 segg. Sulla mancipatio familiae e sulla sua corrispondenza con la germanica Treuhand, cfr.: Ch. Appleton, Le testament romain, ecc., in Revue générale du droit, Parigi 1903; A. Schultze, Die langobardische Treuhand und ihre Umbildung zur Testamentsvollstrechung, Breslavia 1895; altra bibliografia in E. Costa, Storia del dir. rom. priv., 2ª ed., Torino 1925, p. 482. Sulla emancipatio del filius familias, cfr.: P. Bonfante, Ist. di dir. rom., 9ª ed., Milano 1932, pp. 150-152; S. Perozzi, Ist. di dir. rom., I, 2ª ed., Roma 1928, pp. 454-59; E. Costa, Storia cit., pp. 97-102; E. Cuq, Manuel des istitutions jurid. des Romains, 2ª ed., Parigi 1928; L. Mitteis, Lateinische Emancipationsurk. aus dem dritten Jahrhundert, Lipsia 1912; P. De Francisci, Il P. Lips. n. 136 e un'opinione del Mitteis, in Filangieri, 1913; S. Solazzi, Condicio emancipationis, in Arch. giur., 1921; A. Albertoni, L'apocheryxis, Bologna 1923, ecc.