Neurodegenerative, malattie
Uno dei maggiori progressi in biomedicina degli ultimi decenni è la comprensione dei meccanismi molecolari che sono alla base della maggior parte delle malattie. Sono state chiarite e individuate le cause di numerose malattie infettive e di gran parte di quelle degenerative o neoplastiche. Sono stati identificati i geni relativi a oltre duemila affezioni (anche molto rare) su base genetica, i geni (oncogeni) causa di tumori e i complessi proteici che nella cellula mediano la trasformazione neoplastica. Gli sviluppi in farmacologia sono stati la diretta conseguenza di queste scoperte. Il progresso nel campo delle cause infettive e molecolari per le più importanti malattie, però, non è stato seguito da un percorso parallelo di scoperte per la terapia. Contro le malattie infettive, salvo poche eccezioni, sono state messe a punto strategie farmacologiche efficaci, di solito risolutive; invece, per quelle degenerative non si sono avuti percorsi terapeutici egualmente sostanziali. Così, la diagnostica medica ha compiuto progressi significativi, la terapia, al contrario, non ha fatto altrettanto. Un'analisi di questa discrepanza non verrà affrontata se non per affermare che tale dicotomia operativa è ancora più evidente per le malattie nervose e mentali. Nel caso delle m. n. (Morbo di Alzheimer o MdA, Morbo di Parkinson, Sclerosi laterale amiotrofica o SLA) si può affermare che di queste patologie si conoscono abbastanza in dettaglio i meccanismi molecolari responsabili. Nel MdA, per es., sappiamo che la degenerazione e la morte di intere popolazioni neuronali sono conseguenza del malfunzionamento di due proteine: la proteina tau e quella precursore dell'amiloide. Le terapie per ovviare a questo malfunzionamento sono ancora parzialmente sintomatiche e mai risolutive.
Morbo di Alzheimer
È la più frequente di tutte le demenze (35-50%). Colpisce più donne che uomini (1,5:1) e si manifesta molto più spesso in forma sporadica (90%) che in forma familiare. L'incidenza aumenta con l'età (0,5% a 65 anni, almeno 8% venti anni dopo), e a 90 anni un individuo su due è malato. In Italia, con il progressivo invecchiamento della popolazione che si è verificato dal 1950, si stima vi siano mezzo milione di malati.
Eziopatogenesi
La malattia viene imputata ad azione neurotossica della β-proteina (Aβ). Questa proteina si accumula nel cervello nel corso degli anni e, negli individui che sono vulnerabili, fa degenerare le popolazioni di cellule nervose da cui dipendono tutte le funzioni della vita di relazione e della mente.
β-proteina. La Aβ è un peptide che deriva dal metabolismo di un precursore, una glicoproteina di membrana (APP, Amyloid Precursor Protein) codificata da un gene del cromosoma 21. Nel tessuto coesistono due forme di Aβ, una di 40 aminoacidi (Aβ40), l'altra di 42 (Aβ42), nella proporzione di 10 a 1. APP si trova nelle membrane delle sinapsi e sarebbe coinvolto nell'organizzazione e nel mantenimento dei circuiti. Il metabolismo di APP segue due vie: quella di un enzima (α-secretasi) che lo taglia a metà della sequenza di aminoacidi corrispondente a Aβ, oppure quella in cui due enzimi (β e γ-secretasi) agiscono in successione liberando Aβ. L'attività di β-secretasi è svolta dall'enzima BACE-1 (Beta-secretase APP Cleaving Enzyme), mentre quella di γ-secretasi è modulata da altre proteine di membrana (preseniline 1 e 2, nicastrina, APH-1, PEN-2), dalle quali dipende se l'enzima taglia all'altezza dell'aminoacido 40 o del 42. Una volta prodotta, Aβ viene degradata da altri enzimi (per es., neprilisina, insulinasi, enzimi di conversione dell'endotelina e plasmina) a loro volta controllati dalle preseniline e dalla somatostatina. La quota di Aβ che sfugge alla digestione si deposita nel tessuto aggregandosi sotto forma di amiloide. L'equilibrio fra le due vie di degradazione del precursore dipende da quello fra colesterolo delle membrane cellulari ed esteri del colesterolo del citoplasma, nel senso che la riduzione del primo incrementa la formazione di Aβ.
Secondo la teoria patogenetica più accreditata, l'accumulo di Aβ provoca la degenerazione cellulare che si verifica nel corso della malattia e ne induce i sintomi. Le ipotesi su come ciò avvenga si articolano sul concetto di neurotossicità di Aβ, legato a una struttura secondaria che consente a questo peptide di aggregarsi. L'aggregazione avverrebbe dopo che Aβ, liberata dalla γ-secretasi, è passata attraverso la cellula. L'apolipoproteina E (ApoE) è coinvolta in questo passaggio. ApoE è il trasportatore del colesterolo nel cervello. Aβ, ancora monomerica e solubile, entra nella cellula e poi nei lisosomi legata ad ApoE e colesterolo. La degradazione lisosomiale libera ApoE e colesterolo da riciclare, ma anche una quota di Aβ sfuggita alla digestione. La quantità di Aβ che riesce a uscire dalle cellule per aggregarsi e depositarsi nello spazio extracellulare dipende dall'entità della forza che lega Aβ ad ApoE e colesterolo. L'azione neurotossica è riferibile alla presenza di oligomeri solubili e di protofibrille di Aβ che agiscono elevando la concentrazione del calcio nel citoplasma, abbassando il rendimento della catena respiratoria, accentuando lo stress ossidativo, che a sua volta stimola la produzione di Aβ, e provocando la fosforilazione patologica della proteina tau dello scheletro delle cellule nervose. Aβ si deposita nel cervello anche nel corso dell'invecchiamento normale. Si fanno molte ipotesi per spiegare cosa accade quando la deposizione di Aβ provoca degenerazione neuronale in quantità incompatibile con la normalità. La differenza fra normalità e patologia dipenderebbe dalla quantità di Aβ presente nel tessuto nervoso (30% in più nelle forme familiari di malattia), oppure dalla quantità di Aβ42, più tossica di Aβ40, o anche da quella dei metaboliti solubili di Aβ42. È documentata la relazione fra quantità di Aβ e declino cognitivo. Infatti, chi ha tre copie del gene di APP (trisomia 21, sindrome di Down) sviluppa le lesioni della malattia in giovanissima età e può diventare demente molto presto. Le mutazioni dei geni di APP e delle preseniline 1 e 2 (cromosomi 14 e 1), tutte associate a forme familiari di malattia, aumentano la produzione di Aβ42. Nella forma sporadica risulta esaltata l'attività della β-secretasi. Infine, la quantità di metaboliti solubili di Aβ42 è maggiore nei pazienti con una delle forme familiari della malattia, che sono molto più precoci e più gravi, rispetto a quelli con la forma sporadica, e anche in questi rispetto ai coetanei normali. Legata agli stessi concetti è l'interpretazione del rischio di ammalare associato al tipo di ApoE di cui si dispone. Esistono tre forme di ApoE codificate da un gene del cromosoma 19. Avere nel genoma l'allele ε4 che codifica la sintesi di ApoE (ε4) aumenta il rischio per la forma sporadica tardiva della malattia. Rispetto agli omozigoti ε3, il rischio è quattro volte maggiore negli eterozigoti ε4 e otto volte negli omozigoti (2% della popolazione). Ciò dipenderebbe dal fatto che, rispetto alle ApoE (ε2) e (ε3), ApoE (ε4) introduce con il colesterolo maggior Aβ nelle cellule, mettendole nelle condizioni di liberarne di più nello spazio extracellulare.
Proteina tau. - La degenerazione delle cellule nervose associata all'accumulo di Aβ è dovuta alla fosforilazione abnorme della proteina tau. In condizioni normali questa proteina, codificata da un gene del cromosoma 17, assembla la tubulina in microtubuli che poi salda fra loro e stabilizza. Così facendo, tau assicura ai neuroni la struttura dello scheletro cellulare indispensabile al flusso assonale e dendritico e per tutte le funzioni che questo svolge, in primo luogo il trasporto di metaboliti per il mantenimento e il rinnovamento delle sinapsi che garantiscono la plasticità dei circuiti.
La patologia della tau comporta non solo iperfosforilazione, ma anche tagli, cambiamenti di conformazione, insolubilità e aggregazione della proteina. Tau patologica compromette in sequenza flusso assonale, connettività sinaptica e, infine, circuiti, e si deposita nel corpo e nei prolungamenti delle cellule sotto forma di strutture filamentose e inerti, ciò che costituisce le degenerazioni neurofibrillari. Vi sono molti dati a favore dell'ipotesi che Aβ sia responsabile della patologia di tau. In primo luogo le placche senili, vero sigillo morfologico della malattia, formate da prolungamenti neuronali, sia degenerati sia in rigenerazione, addensati insieme a cellule attivate di microglia e ad astrociti ipertrofici intorno a una massa di fibrille di Aβ; poi anche indizi sperimentali. In vitro, tau e Aβ si legano fra loro e Aβ promuove la fosforilazione anormale di tau riducendone la capacità di stabilizzare i microtubuli. Aβ42, iniettata nel cervello di topi transgenici che producono tau umana mutata, provoca la degenerazione neurofibrillare dei neuroni con i quali viene a contatto.
La stessa degenerazione si verifica spontaneamente nei topi transgenici che fabbricano sia tau sia APP umani, e può essere prevenuta dall'iniezione intracerebrale di anticorpi anti-Aβ. L'azione di Aβ su tau è mediata dalle chinasi Cdk-5 e Gsk-3.
La risposta di tau all'azione di Aβ è un fenomeno discontinuo, nel senso che non tutti i neuroni degenerano nonostante la presenza di Aβ in quasi tutte le strutture grigie. Anzi, alcuni neuroni, come le cellule di Purkinje del cervelletto e i grandi neuroni del tronco cerebrale, sono sempre resistenti. Ciò fa ritenere che il rischio di degenerare sia modulato dalla vulnerabilità del citoscheletro all'azione di Aβ. Questa vulnerabilità sarebbe diversa non solo da una popolazione di cellule nervose all'altra, ma anche fra individui. A giudicare dai sintomi d'esordio della malattia, che dipendono dalla struttura che viene interessata per prima, nella metà dei pazienti la degenerazione neuronale prende le mosse dalle aree cerebrali coinvolte nei meccanismi della memoria (ippocampo e corteccia entorinale), giungendo alla neocorteccia molto più tardi. Negli altri, essa muove invece da aree della neocorteccia specifiche per il linguaggio o per le funzioni del riconoscimento e dell'orientamento, e in qualche caso persino dalle aree motorie. Lo stesso vale per l'età d'esordio dei sintomi della malattia nel caso in cui, fra i membri di una famiglia con la stessa mutazione, alcuni si ammalano da giovani, altri da vecchi.
I sistemi neuronali vulnerabili sono molti e, se vengono classificati in base alla sostanza che utilizzano come neurotrasmettitore, anche eterogenei. Degenerano, infatti, i neuroni peptidergici e colinergici della neocorteccia, quelli colinergici del setto pellucido, quelli del nucleo basale di Meynert, e i neuroni monoaminergici del locus coeruleus e dei nuclei del rafe del tronco cerebrale.
Prospettive di terapia e di profilassi
Lo studio delle cause e dei meccanismi patogenetici ha suggerito un ventaglio di proposte per la cura e la prevenzione della malattia. Alcune sono già praticate in clinica.
Anticolinesterasici. - La ricerca farmacologica ha messo a punto molecole per compensare la perdita di neuroni ripristinandone i neurotrasmettitori. Come la cura del Morbo di Parkinson si basa sulla somministrazione della dopamina che la sostanza nera non produce più abbastanza, così la terapia disponibile per la malattia di Alzheimer mira a riportare l'acetilcolina (ACh) della corteccia cerebrale a livelli adeguati. Si cerca di ottenere questo risultato con gli anticolinesterasici. La funzione che si vuole migliorare è la memoria, perché la perdita delle capacità di apprendere e di ricordare contribuisce in modo determinante alla demenza. La memoria dipende in gran parte dall'attività di neuroni colinergici dell'ippocampo e della corteccia entorinale nonché dall'innervazione colinergica della neocorteccia frontotemporale. Nella malattia, l'entità della perdita di memoria è proporzionale alla diminuzione della quantità di ACh e dell'enzima acetil-colinesterasi che la degrada, nella corteccia frontotemporale. Si può quindi ipotizzare che una memoria debole migliori aumentando l'ACh a disposizione dei bersagli dei neuroni colinergici degenerati. Gli anticolinesterasici sono gli inibitori dell'acetil-colinesterasi cerebrale, e quindi diminuiscono la degradazione dell'ACh del tessuto nervoso. In questo modo, essi permettono alla scarsa ACh presente nel tessuto di agire più a lungo. Di tutti gli anticolinesterasici prodotti, sono entrati nell'uso donepezil, rivastigmina e galantamina, che funzionano in modo diverso uno dall: donepezil impedisce la formazione del complesso ACh-enzima indispensabile per l'azione dell'acetil-colinesterasi; rivastigmina modifica la struttura dell'acetil-colinesterasi e della butirril-colinesterasi; la galantamina inibisce l'acetil-colinesterasi e stimola il recettore nicotinico postsinaptico.
I pazienti che possono trarre benefici dagli anticolinesterasici sono quelli in cui i sintomi della malattia hanno esordito da poco, per cui si presume sia ancora integra la massa di neuroni sensibili al messaggio colinergico. Si è fatto strada a questo riguardo il bisogno di quantificare il deterioramento cognitivo onde giustificare l'indicazione della cura e giudicarne l'efficacia. Si usano a questo fine vari tipi di scale di valutazione. Con il MMSE (Mini Mental State Examination), il più usato perché facile da somministrare e anche dotato di buona specificità per la malattia, la soglia della demenza è fissata a 26-25 punti di una scala che va da 30 (assenza di deterioramento) a zero. Il punteggio della demenza di media gravità è compreso fra 24 e 10. Con gli anticolinesterasici dati ai pazienti il cui punteggio ricade in questo intervallo, il deterioramento cognitivo può migliorare di qualche punto. La somministrazione dei farmaci viene allora continuata alla dose più alta compatibile con la mancanza di effetti collaterali, fino a quando, dopo qualche mese, sarà ragionevole interromperla perché il progredire della malattia l'avrà resa inutile. Invece, nei pazienti con meno di 10 punti (demenza grave) e in quelli con più di 26 (danno cognitivo lieve) l'uso degli anticolinesterasici è discrezionale.
I risultati della terapia con gli anticolinesterasici sono stati inferiori alle aspettative e ha senso prevedere che questi farmaci saranno sostituiti da altri, studiati per contrastare l'accumulo di Aβ nel tessuto o per rendere i neuroni più resistenti all'azione tossica di Aβ. Si lavora dunque su molecole che siano adatte a rallentare efficacemente un danno cognitivo non ancora invalidante e a prevenire l'esordio dei sintomi della malattia negli individui a rischio.
Inibitori delle secretasi. - Il modo più ovvio per limitare l'accumulo di Aβ nel tessuto è quello di diminuirne la produzione. In teoria questo risultato può essere ottenuto riducendo l'attività delle secretasi β e γ. In pratica, lo sviluppo di sostanze anti-BACE è resa problematica dalla possibilità che gli inibitori agiscano contemporaneamente su molti substrati. È il caso di eparansolfato ed eparina, inibitori in vitro di BACE-1, ma usati da tempo come anticoagulanti e perciò poco maneggevoli per una cura di lunga durata. Un modo elegante per superare l'ostacolo è quello di 'oscurare' il sito d'azione dell'enzima utilizzando una molecola (per es., un anticorpo specifico) in grado di riconoscerlo. Il problema è ancora più serio per gli inibitori della γ-secretasi, che agiscono non solo sulle preseniline, ma anche su recettori di fattori di crescita che fanno parte dell'enzima e che sono necessari per la differenziazione e lo sviluppo delle cellule. Per questa ragione, la mancanza di γ-secretasi, che si può ottenere in animali transgenici, è incompatibile con la vita. Altri dubbi sull'utilità di questi inibitori nascono dall'elevata tossicità del frammento di precursore che resta quando manca l'azione della γ-secretasi. In condizioni sperimentali, la produzione di Aβ42 viene limitata anche da alcuni antinfiammatori non steroidei, quali ibuprofene, indometacina e sulindac. Questi farmaci favoriscono la trasformazione di Aβ42 in un peptide più corto e non neurotossico. Ciò avverrebbe grazie all'azione di queste sostanze sulla γ-secretasi e indipendentemente dal loro effetto antinfiammatorio. L'interesse per queste molecole è nato dall'osservazione che il rischio di progredire verso la demenza sembrava minore in chi ne consumava abitualmente. Si era allora ipotizzato che la neurotossicità fosse dovuta soprattutto alle citochine elaborate dalle cellule microgliali che accompagnano l'amiloide, e che gli antinfiammatori potessero inibire la microglia riducendone così anche l'attività neurotossica. Tuttavia, l'uso controllato degli antinfiammatori non è risultato idoneo a contenere il deterioramento cognitivo.
Per impedire che Aβ sia prodotta in eccesso e si accumuli, si studia il modo di aumentare l'attività della neprilisina e degli altri enzimi proteolitici. La ricerca in questo senso viene condotta non soltanto sul piano dell'attivazione farmacologica, ma anche su quello della terapia genica per aumentare la quantità disponibile degli enzimi.
Disaggreganti. - La quantità di Aβ e di amiloide nel tessuto può essere ridotta stimolandone lo smaltimento. Lo scopo è stato raggiunto usando Aβ per vaccinare topi transgenici in grado di produrre grandi quantità di Aβ. Rispetto ai controlli, gli animali vaccinati erano capaci di eseguire esercizi più difficili, facendo ipotizzare che, avendo meno amiloide nel cervello, anche la degenerazione neuronale fosse minore. Tanto è bastato per selezionare e vaccinare 375 pazienti con demenza di media gravità. Tuttavia, la prova ha dovuto essere interrotta prima di poterne giudicare l'efficacia per la comparsa di reazioni avverse nel 5% dei casi. Un'encefalite autoimmune è stata documentata in alcuni dei pazienti morti per cause indipendenti dal vaccino. L'efficacia sperimentale di questo vaccino e il suo potenziale terapeutico sono dovuti agli anticorpi contro Aβ che si legano alle fibrille di amiloide disaggregandole e permettendone la digestione. Oltre agli anticorpi specifici, anche alcune tetracicline che attraversano la barriera ematoencefalica si sono dimostrate capaci di disaggregare l'amiloide. In una sperimentazione contro placebo condotta in una vasta popolazione di malati, la rifampicina e la doxiciclina sarebbero state in grado di rallentare l'avanzamento del declino cognitivo per tutta la durata della cura. Altri possibili bersagli di una terapia diretta contro l'amiloide sono la proteina S del siero e gli ioni zinco e rame del tessuto, che favoriscono l'aggregazione di Aβ. A questo scopo, è stata realizzata una molecola che aggrega la proteina S inattivandola, ed è stato proposto l'uso dei chelanti dei metalli per diminuire le concentrazioni di zinco e di rame. Si è prospettato anche l'impiego di peptidi sintetici omologhi di Aβ e capaci di prenderne il posto nell'amiloide. L'azione terapeutica di questi peptidi è affidata al loro elevato contenuto di prolina, un aminoacido che si oppone alla formazione e all'aggregazione delle fibrille. Ci si attende dalla disaggregazione dell'amiloide, comunque ottenuta, una cascata di eventi favorevoli. Infatti, diminuendo la quantità di amiloide nel tessuto, si ridurrebbe lo stimolo che l'amiloide esercita sull'attività di BACE e quindi sulla formazione di Aβ. Per lo stesso motivo, verrebbe in parte a mancare il meccanismo di stress ossidativo con cui l'amiloide favorisce l'attività della β-secretasi e la produzione di Aβ.
Memantina, statine e antiossidanti. - Un altro scenario di ricerca farmacologica è offerto dall'azione di Aβ sulle membrane. È verosimile che Aβ, una volta rilasciata nello spazio extracellulare, interagisca con la membrana cellulare e modifichi alcune delle sue funzioni. Dietro questa ipotesi non vi sono soltanto considerazioni sulla struttura polare di Aβ che la rende atta a sistemarsi nella membrana cellulare, ma anche i risultati delle ricerche condotte con il peptide sintetico Aβ25-35. Questo peptide riproduce la sequenza di undici aminoacidi che si trova nel centro di Aβ e si aggrega spontaneamente in fibrille come fa Aβ intera. In vitro, Aβ25-35 provoca la morte dei neuroni per apoptosi, l'ipertrofia degli astrociti e l'attivazione della microglia. Questi fenomeni, causati del resto da tutti i peptidi capaci di aggregarsi, sono innescati dall'aumento della concentrazione di calcio nel citoplasma. Ciò avviene perché Aβ25-35 modifica la struttura dei canali e dei recettori di membrana che il calcio deve attraversare per entrare nella cellula. Uno dei recettori compromessi dall'azione di Aβ è il recettore NMDA per il glutammato che modula l'ingresso del calcio nelle cellule. Una sostanza che riesce a ripristinare il funzionamento normale di questo recettore è la memantina. Sotto la protezione della memantina, i neuroni, nonostante Aβ, non correrebbero più il rischio di morire intossicati dal calcio. Grazie a queste caratteristiche e alla sua tollerabilità, la memantina si propone come un efficace neuroprotettore delle cellule dotate di recettori NMDA.
La probabilità che Aβ interagisca con la membrana cellulare rafforza anche il razionale per l'uso delle statine nella profilassi della malattia, specie negli individui ipercolesterolemici. Le statine diminuiscono la sintesi del colesterolo e vengono utilizzate per la cura delle ipercolesterolemie. Ammesso che riescano ad abbassare la quota variabile di colesterolo nella membrana cellulare, le statine farebbero indirettamente aumentare quella delle proteine e ridurrebbero perciò lo spazio a disposizione di Aβ all'interno della membrana cellulare. L'azione delle statine non si limiterebbe soltanto a questo: infatti, la produzione di Aβ diminuisce quando si riduce la disponibilità di colesterolo. L'effetto delle statine sulla produzione di Aβ è uguale a quello degli inibitori dell'enzima che converte il colesterolo libero in esteri, mentre è opposto a quello della dieta ricca di colesterolo. Su questa base, si sostiene che il rischio di ammalare sia maggiore negli individui ipercolesterolemici, e diminuisca in quelli curati con le statine.
In condizioni sperimentali che simulano la malattia, anche i mitocondri soffrono per l'eccesso di Aβ o di APP. Nelle cellule transfettate e nei topi transgenici che producono più APP, questo resta intrappolato nella membrana dei mitocondri riducendo sia l'attività citocromo-ossidasica sia la quantità totale di ATP. Aβ, invece, si lega all'alcol-deidrogenasi, modificando il sito di legame del NAD (Nicotinamide-Adenin Dinucleotide). L'azione di Aβ e di APP sui mitocondri spiegherebbe la quantità anormale di radicali liberi e lo stress ossidativo, la compromissione dell'attività degli enzimi del metabolismo intermedio e la disfunzione mitocondriale osservati sia nella malattia sia nelle cellule intossicate con Aβ. Si sa inoltre che lo stress ossidativo favorisce la produzione di Aβ stimolando l'attività di BACE. Tutti questi dati costituiscono un elemento a favore dell'uso di antiossidanti (vitamina E, idebenone, acetilcarnitina, estratti di Ginkgo biloba) sostenuto da molti per la profilassi e la cura della malattia. Mancano, tuttavia, prove certe della loro efficacia clinica, anche se per uno di tali ossidanti, il deidroepiandrosterone, è dimostrata l'azione anti-BACE in vitro.
Sali di litio. - Le chinasi Cdk5 e Gsk3 (Cyclin-dependent kinase e Glycogen-synthase kinase) controllano la fosforilazione della proteina tau, ma perdono questa loro capacità sotto l'effetto di Aβ. Cdk5 è coinvolta insieme alla tau nella crescita dei neuriti e nella migrazione dei neuroni. L'attività di Cdk5 dipende dalla sua subunità p35. Se questa è troncata (p25), Cdk5 aumenta la fosforilazione della proteina tau e dei neurofilamenti, facendo ammalare lo scheletro proteico dei neuroni. Nei topi transgenici che esprimono la p25 umana, la tau è iperfosforilata e si accumula nei neuroni causandone la degenerazione; che è più grave se i topi esprimono anche tau umana mutata, più vulnerabile alla patologia. Inoltre, la quantità di tau iperfosforilata aumenta quando le cellule transfettate che producono più p25 sono esposte all'azione tossica di Aβ. Cdk5 e p25 hanno probabilmente un ruolo importante nella patogenesi della malattia, come è anche suggerito dal fatto di essere contenuti in maggiore quantità nel cervello dei malati, localizzati soprattutto nei neuroni con la degenerazione neurofibrillare. In base a questi dati, appare logico che p25 sia diventato un bersaglio della ricerca farmacologica, poiché disporre di un farmaco in grado di inibirne l'attività significherebbe proteggere le cellule nervose dalle conseguenze patologiche dell'azione di Aβ sulle proteine del citoscheletro. In condizioni sperimentali, i sali di litio sono in grado di evitare ai neuroni le conseguenze del cattivo funzionamento di Gsk3. Come Cdk5, anche questa chinasi promuove la fosforilazione della proteina tau e, nel cervello dei malati, si concentra nelle cellule degenerate. L'attività fosforilasica che Gsk3 esercita nei confronti della proteina tau aumenta sotto l'effetto di Aβ42 e di ApoE (ε4). Ciò fa di questo enzima l'anello che collega i tre elementi più caratteristici della malattia. In questo contesto, i sali di litio hanno una notevole peculiarità, perché non si limitano a inibire l'attività di Gsk3, ma agiscono nello stesso senso anche sulla γ-secretasi, contrastando così la produzione e l'accumulo di Aβ. L'interesse dei sali di litio è giustificato dunque dalla loro doppia azione: sulla causa della malattia, riducendo la disponibilità di Aβ, e sul meccanismo principale di degenerazione neuronale, bloccando la fosforilazione della proteina tau. Quindi, somministrati alle dosi oramai ben collaudate dall'uso per la cura della psicosi bipolare, i sali di litio potrebbero rivelarsi il mezzo più maneggevole ed efficace per la profilassi della malattia e per la cura del declino cognitivo di lieve entità. Ma essi hanno fallito nella prevenzione del deterioramento cognitivo in un gruppo di psicotici cui erano stati a lungo somministrati. Resta tuttavia da stabilire se il deterioramento di questi ammalati fosse dovuto alla malattia di Alzheimer. Anche il valproato, in uso per la cura dell'epilessia e come stabilizzatore del tono dell'umore nei bipolari, agisce su Gsk3 come i sali di litio.
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