BAGLIONI, Malatesta
Quarto di questo nome, nacque a Perugia nel 1491 da Giampaolo e da Ippolita Conti. Aveva poco più di sette anni quando il padre, che militava al servizio dei Fiorentini, lo condusse con sé alla guerra contro Pisa. Scampato il 14 luglio 1500 alla strage dei suoi congiunti organizzata da Carlo e Grifonetto Baglioni e da Girolamo della Penna, Giampaolo, che era entrato al servizio del duca Valentino, lo inviò poco dopo in ostaggio ai Fiorentini, come pegno di fedeltà verso la Repubblica. Nel 1506 il B., prescelto dai Perugini tra i capitani del contado, ricevette in consegna la rocca di Castel della Pieve. Nel medesimo anno seguì il padre nella spedizione voluta da Giulio II contro Bologna, sotto il comando del capitano fiorentino Bino Signorelli; in seguito venne consegnato, insieme al fratello Orazio, in ostaggio al pontefice, quale garanzia della lealtà di Giampaolo.
Nel 1510 il B. sposò Monaldesca Monaldeschi: con questo matrimonio i Baglioni mirarono al dominio di alcuni castelli nel territorio di Orvieto tanto è vero che l'anno successivo il B., vantando un diritto della famiglia della moglie su Colle Lungo, lo tolse agli Orvietani riuscendo successivamente ad ottenere da Leone X la conferma del vicariato su alcune terre concesse ai Monaldeschi da Bonifacio VIII. Nel 1511 entrò al servizio della Repubblica di Venezia, e con il grado di alfiere di cavalleria partecipò alla campagna di Romagna e alla battaglia di Ravenna, dove fu gravemente ferito. Fu poi luogotenente del padre nel Veneto e nel marzo del 1513, quando Giampaolo, alla morte di Giulio II, ritornò momentaneamente a Perugia per prendere possesso della città, ebbe il comando dell'esercito che era acquartierato a Padova.
Sotto il comando del padre e poi di Bartolomeo d'Alviano il B. acquistò notevole fama come condottiero di cavalleria leggera. Tra il 1513 e il 1515 prese parte a importanti fatti d'arme nel Friuli, nel Veneto ed in Lombardia: partecipò alla conquista di Pordenone, il 29 marzo 1514; intervenne agli scontri di Muzzano, Comisano, Bevilacqua, all'occupazione di Rovigo, il 21 0t1. 1514, e alla battaglia di Marignano contro gli Svizzeri e il duca di Milano, il 13 e il 14 sett. 1515. Nel 1516 ricevette da Leone X, insieme a Giampaolo ed Orazio, l'investitura del feudo di Bettona. L'anno successivo tornò a Perugia dove collaborò con il padre alla preparazione delle difese contro Francesco Maria Della Rovere, e, come il padre, non andò esente dal sospetto di una segreta intesa con il Della Rovere ai danni dei Perugini e del pontefice.
Quando Giampaolo, l'11 giugno 1520, fu fatto decapitare a Roma da Leone X, il B., con Orazio, si rifugiò in territorio veneziano ove prese contatto con altri fuorusciti dello Stato della Chiesa, Camillo Orsini, Fabio Petrucci e Sigismondo Varano, che sotto la direzione dello spodestato duca d'Urbino Francesco Maria Della Rovere andavano preparando una spedizione nello Stato pontificio per recuperare le proprie signorie e arginare le iniziative espansionistiche dei Medici. Alla morte di Leone X i fuorusciti ripresero possesso di Urbino, Camerino e Pesaro, e nel gennaio 1522 entrarono in Perugia, scacciandone Gentile Baglioni, al quale Leone X, dopo la morte di Giampaolo, aveva affidato il governo della città. Ma ritornato poco dopo Gentile con l'appoggio di milizie pontificie, senesi e fiorentine, al comando di Giovanni de' Medici, i Baglioni, nell'ottobre 1522, furono costretti a un accordo con cui si obbligarono a uscire dalla lega antimedicea. Poiché Orazio entrò al servizio dei Fiorentini e il B., invitato a fare altrettanto, non oppose un esplicito rifiuto, i signori perugini sembravano totalmente attratti nell'orbita del cardinale Giulio de' Medici.
Tuttavia le dimostrazioni di omaggio del B. verso Firenze e verso i Medici non erano sincere: egli cercò contemporaneamente di appoggiarsi al partito antimediceo del cardinale Soderini e contribuì all'impresa progettata dal Soderini contro Siena inviando a Renzo da Ceri cento cavalli, duemila fanti e quattro falconetti. Il B. avvertiva nell'eventuale elezione a pontefice del cardinale de' Medici il pericolo di una nuova lotta contro le signorie dell'Italia centrale sulla linea della tradizionale politica papale. In più, Perugia si sarebbe trovata stretta tra la Toscana, controllata dal Medici, e lo Stato della Chiesa. Di qui la sua politica ambigua e il tentativo di spezzare il blocco che si stava stringendo intorno al suo stato.
Nel 1525 il B. ritornò al servizio della Repubblica di Venezia, al comando di quattromila fanti; nella primavera dell'anno successivo, nell'intento di impadronirsi di una base adatta a soccorrere Milano assediata dagli Spagnoli, attaccò Lodi difesa da Fabrizio Maramaldo e la espugnò il 24 giugno. Dopo questa impresa il Senato veneziano lo elesse capitano generale delle fanterie. Il B. si rivolse allora contro Cremona tentando di occuparla di sorpresa; fu invece costretto ad un lungo assedio, risolto soltanto dall'intervento del grosso dell'esercito al comando del duca d'Urbino, Francesco, Maria Della Rovere. Tentò invano di opporsi di lì a poco ai lanzichenecchi che il Frundsberg aveva portato nel territorio di Mantova. Autorizzato dal Senato veneziano, tornò a Perugia, richiamatovi dalle spietate vendette cui si stava abbandonando il fratello Orazio contro Gentile e i suoi partigiani.
A Perugia, dove giunse il 2 sett. 1527, il B. si sforzò di moderare gli eccessi di Orazio, che avrebbero potuto costituire un pretesto per l'intervento del pontefice o dei Fiorentini contro Perugia. La Repubblica di Firenze, invece, sin dalla fine dei 1527, preoccupata dell'accordo tra il papa e gli Imperiali, allacciò trattative con il B. per affidargli il comando delle proprie truppe.
Vari motivi spingevano i Fiorentini a rivolgersi al B.: le antiche relazioni della famiglia di lui con la Repubblica, la sua ben nota ostilità verso i Medíci, che avevano costantemente protetto i fuorusciti perugini e continuavano a minacciare la sua signoria, la buona fama di condottiero, infine l'opportunità per la Repubblica di avere in Perugia un forte avamposto nello Stato della Chiesa. Da parte sua il B. riteneva che il ritorno dei Medici a Firenze avrebbe ancora una volta ridotto Perugia fra due fuochi. Tuttavia egli esitava a prendere un impegno che avrebbe potuto troppo scopertamente opporlo a Clemente VII e, mentre prendeva tempo nelle trattative con i Fiorentini, si recava ad Orvieto a rendere omaggio al pontefice. Questi da una parte lo incaricò di ridurre alla ragione i ribelli Guidone ed Ottavio de' Nepis, dall'altra, perfettamente al corrente delle trattative del B. con Firenze, cercò di arginare la situazione finanziando e stimolando contro di lui i fuorusciti Sforza e Braccio Baglioni, che andavano compiendo scorrerie nei feudi del B. ed erano arrivati ad impossessarsi di Norcia.
Resosi conto del gioco politico-militare a suo danno, il B. ruppe gli indugi: il 16 apr. 1529, ignorando le ripetute diffide del papa, accettò dal legato di Firenze Bernardo da Verrazzano la carica di "governatore generale di tutte le forze fiorentine a cavallo e a piedi". Secondo le richieste del B., la condotta fu firmata anche dal Velly, oratore francese a Firenze, a nome di Francesco I. Formalmente l'incarico del B. era subordinato a quello di Ercole d'Este, capitano generale, ma la carica del giovane duca ferrarese era di puro prestigio, sicché la responsabilità delle truppe spettò sin dal principio al Baglíoni. Questi, sin dal maggio, propose alla Repubblica di prendere audacemente l'iniziativa, attaccando contemporaneamente le forze imperiali da Firenze e da Perugia prima che l'Orange riuscisse a riunirle tutte. Ma la Repubblica, ancora fiduciosa nella possibilità di un accordo, respinse la proposta. Il B. dovette perciò limitarsi a fortificare Perugia, alla quale del resto i Fiorentini inviarono aiuti abbastanza consistenti, sia in denaro sia in uomini. Quando però l'Orange si presentò innanzi alla città, dopo una rapida campagna nel corso della quale aveva occupato Montefalco, Bevagna, Assisi e Spello, il B. rinunciò ad ogni tentativo di difesa e venne a patti con il generale imperiale.
Alla luce del successivo comportamento del B. gli storici repubblicani fiorentini del tempo videro in questa inopinata decisione del condottiero perugino un primo indizio di tradimento, tanto più evidente in quanto le condizioni furono singolarmente favorevoli al B., che ottenne di lasciare Perugia indisturbato con tutto l'esercito e le provvigioni, nonché, da parte del papa, l'autorizzazione a rimanere al servizio dei Fiorentini e la promessa che i fuorusciti non sarebbero stati riammessi in Perugia. In realtà, mentre queste condizioni si spiegano con la necessità degli Imperiali di impadronirsi ad ogni costo di Perugia per non esaurire le proprie forze in un lungo assedio, la decisione del B. si configura alla luce dei nuovi criteri strategici dei fiorentini Dieci della guerra, i quali poco fiduciosi nella fedeltà delle altre città dello Stato si andavano orientando verso una difesa concentrata intomo a Firenze richiamando quasi tutte le guarnigioni periferiche. In effetti né il governo fiorentino né Francesco Ferrucci, che lo rappresentava in Perugia in questo periodo, ebbero nulla da obbiettare di fronte al comportamento del governatore generale.
Uscito pertanto da Perugia l'11 settembre, il B. si portò a Firenze, dove, contrariamente alle versioni che lo vogliono sin dal principio incline al tradimento, tentò con competenza ed onestà di trarre tutte le conseguenze della strategia prescelta dal governo fiorentino: oltre a condurre i lavori di rafforzamento delle mura, cercò di rifornire la città di munizioni e di viveri. Per varie ragioni non tutte le sue direttive furono eseguite dai Fiorentini, ma è indubbio che esse erano perfettamente adeguate alle prospettive della guerra. Anche sul piano militare, sino al giugno del 1530 - allorché comincia effettivamente a delinearsi nel B. l'idea del tradimento - egli diede ripetute prove di competenza e di lealtà: la sua replica alla sorpresa notturna tentata tra il 10 e l'11 sett. 1529 dall'Orange fu un modello di tempestività e di capacità organizzativa, così come furono in gran parte merito del B. i successi delle numerose sortite tentate dagli assediati. Tuttavia proprio mentre stava riportando i suoi migliori successi, i Fiorentini cominciarono a dubitare della lealtà del B. che mostrava di non sfruttare a fondo le occasioni favorevoli.
In realtà l'entusiasmo e il patriottismo dei giovani repubblicani fiorentini doveva irrimediabilmente urtare con la prudenza del soldato di professione, non disposto ai gesti temerari e poco fiducioso nelle qualità militari delle milizie cittadine. Del resto, tutto il sistema difensivo del B. era guidato dall'idea che Firenze non sarebbe stata in grado di resistere vittoriosamente da sola all'agguerritissimo esercito imperiale se non fossero giunti i soccorsi tante volte promessi da Francesco I. Conveniva dunque - secondo il B. - prolungare il più a fungo possibile la resistenza, non insistendo in iniziative che potevano essere estremamente pericolose.
Il tradimento del B. divenne invece effettivo quando la situazione della città assediata gli apparve irrimediabilmente compromessa dagli accordi separati conclusi da Venezia, Ferrara, Urbino e infine dalla Francia. Allora il B. cercò di scindere le proprie fortune da quelle dei Fiorentini: alla fine del giugno 1530 prese i primi contatti con gli Imperiali attraverso il capitano Vincenzo Piccioni, detto Cencio Guercio, contatti continuati poi da Bino Signorelli. Nel giro di un mese l'accordo fu realizzato: il B. si impegnava a consegnare la città in modo da risparmiarle - come voleva Clemente VII - il saccheggio; l'Orange, da parte sua, gli prometteva, a nome del papa, la conferma dei patti stipulati nel settembre dell'anno precedente allorché egli aveva abbandonato agli Imperiali Perugia, e inoltre l'investitura del dominio di Bevagna, Limigiano e Castel Nuovo e una parte delle entrate ecclesiastiche delle terre del Chiugi. Su questa base, il tradimento fu rapidamente consumato: il 3 agosto, mentre l'Orange marciava su Gavinana contro il Ferrucci, il B. si rifiutò di attaccare il campo imperiale; nove giorni dopo, il 12 ag. 1530, puntava i suoi cannoni contro la città e faceva aprire agli Imperiali la porta di San Pietro Gattolino. Il 30 settembre il B. rientrava in Perugia. Alla fine di ottobre si ritirò nel suo feudo di Bettona, dove dettò al fedele Cencio Guercio alcune lettere a varie personalità politiche, nelle quali cercò di giustificare il proprio tradimento. Morì, poco dopo, il 24 dic. 1531.
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