MALACHIA
. Titolo dell'ultimo libro dei Profeti minori quindi presumibilmente del suo autore. Poiché in ebraico Mal'ākhī significa "il mio messo [angelo]" (ma, se qui è nome proprio, può anche essere un'apocope di Mal'ākhi[yyah] "messo [angelo] di Jahvè") già nell'antichità il sostantivo fu interpretato come nome comune, quasi fosse l'appellativo designante l'ufficio dello scrittore. Di questa opinione si trova già una prova nei Settanta, che traducono il primo versetto, che serve da titolo del Libro, con... ἀγγέλου αὐτοῦ... (da Mal'ākhō?); essa è poi anche più esplicitamente attestata dalla tradizione giudaica, la quale ritenne che sotto questo nome si nasconda Esdra (cfr. Targūm Jonathan, in Malachia, I, 1; S. Girolamo, Prolog. in Mal., ecc.), e di essa troviamo tracce anche in parecchi scrittori cristiani (Tertulliano, Adv. Iud., 5; Giovanni Crisostomo, Hom. 14 in Hebr.; Agostino, De civ. Dei, XX, 25; ecc.). Molti critici moderni si avvicinano a questa interpretazione, in quanto ritengono che il titolo del libro (Mal., I, 1) sia aggiunto da un tardivo redattore, il quale, allo scritto che circolava anonimo, avrebbe apposto il sostantivo che è impiegato come nome comune in III, 1 "ecco, io mando il mio messo" ove è Jahvè che parla.
Certo è che di un personaggio di tal nome, non solo non si sa nulla (quanto ne racconta lo pseudo-Epifanio nel De vitis prophetarum, 22, è certamente favoloso), ma non se ne trova neppure menzione né in Esdra (V, 1) che nomina i postesilici Aggeo e Zaccaria, né in Flavio Giuseppe. Tuttavia il Siracida nell'Elogio dei Padri (Ecclesiastico, XLIX, 10 [Volg., 12]) già conosce i "dodici" Profeti minori. Per definire l'epoca del libro e del suo autore, non rimangono dunque che i criteri interni allo scritto stesso.
Contenuto ed epoca del libro. - (È da tenere presente la differenza di numerazione fra il testo ebraico e quello della Volgata; il primo divide il libro in 3 capitoli, la seconda in 4: in maniera che l'ebraico III, 19-24 corrisponde a Volgata IV. Qui sarà seguita la numerazione ebraica). Lo scritto, che in qualche punto ha una forma quasi di dialogo, comincia con un'invettiva contro gli abusi invalsi nel servizio liturgico del Tempio di Gerusalemme, sia da parte di chi offre vittime difettose, sia specialmente da parte dei sacerdoti che trascurano il loro ufficio di sacrificatori e quello di dottori della Legge (I, 2-II, 9); in mezzo a questa invettiva, si preannunzia, quasi in contrapposto al presente periodo di negligenza nei sacrifici, un'epoca nuova in cui si offrirà fra le nazioni pagane un'oblazione pura a Jahvè in ogni luogo della terra (I, 10-11). Volgendosi quindi l'autore alla comunità giudaica in genere, le rimprovera l'abuso dei matrimonî misti fra Giudei e donne straniere, e quello dei divorzî (II, 10-16). Il resto del libro ne forma la seconda parte, di carattere diverso dalla precedente. Essa è di fondo messianico: annunzia imminente l'arrivo del messo di Jahvè, "messo dell'Alleanza" che verrà al Tempio (III, 1), e vi farà una cernita dei Leviti e di tutta la nazione (II, 17-III, 5); questa cernita provoca un rimprovero contro presenti abusi riguardo alle decime (III, 6-12). Si fa quindi rilevare, contro coloro che si lamentavano delle tribolazioni che gravavano sui pii fedeli, che l'era messianica sarà, per i pii, epoca di giustizia e di trionfo (III, 13-21). Gli ultimi versetti (III, 22-24) raccomandano l'osservanza della Legge di Mosè e annunziano la venuta di Elia prima del "giorno di Jahvè"
Indubbiamente le circostanze storiche, a cui il libro si riferisce e che ne indicano l'epoca, sono quelle dei tempi che seguirono il ritorno dall'esilio in Babilonia, e più esattamente di tempi alquanto avanzati. L'esilio, infatti, è presupposto ormai così lontano che non è neppur ricordato; è anche trascorso il primo periodo di permanenza in patria, allorché tutte le cure erano prese dalla ricostruzione materiale della città e del Tempio di Gerusalemme, che rappresentava la base della ricostruzione morale della rimpatriata nazione: sono cioè trascorsi i tempi di Aggeo (v.) e le loro esigenze, giacché in Malachia si suppone già ricostruito il tempio e tenuto dentro esso un regolare servizio. Gli abusi stessi liturgici, contro cui inveisce lo scritto, sono una prova che doveva esser già trascorso un tempo notevole dal compimento della ricostruzione del tempio e della stabile organizzazione del suo culto, giacché senza dubbio i primissimi tempi dopo tal fatto furono tempi di fervore che ancora ignorava rilasciatezze ed abusi. D'altra parte è certo che non si può scendere a dopo il periodo persiano, poiché da I, 8 - ove si fa un paragone tra le offerte fatte a Dio e quelle fatte al peṇāh "governatore" - si conclude che i rimpatriati erano ancora sotto il dominio dei re di Persia, che si facevano rappresentare in Palestina appunto da questi "governatori" (cfr. Aggeo, I, 1, II, 2; Neemia, V, 14; XII, 26). Confrontando poi gli abusi denunziati dal libro e i rimedî ch'esso esige, con gli abusi e rimedî di cui trattano i libri di Esdra-Neemia, vediamo fra le due parti una corrispondenza assai accentuata, la quale quindi suppone un'epoca più o meno uguale, da fissarsi genericamente al principio della seconda metà del sec. V a. C.
Volendo più esattamente delimitare quest'epoca, gli studiosi hanno proposto date differenti, a seconda delle relazioni ch'essi suppongono essere intercorse fra Malachia e i due riformatori Esdra e Neemia, e soprattutto a seconda dell'opinione seguita circa la cronologia di questi due. Se si accetta l'opinione tradizionale, che mette l'arrivo di Esdra a Gerusalemme al 458 a. C. e le due visite di Neemia rispettivamente al 445 e al 433, viene assegnata a Malachia quest'ultima data circa, qualora si veda in esso un rafforzatore dell'opera riformatrice iniziata dai due; gli viene invece assegnato un periodo di poco anteriore al 458, qualora si veda in esso l'iniziatore della riforma, che fu poi proseguita da Esdra e Neemia. Al contrario il van Hoonacker, fautore principale dell'opinione recente per cui le due visite di Neemia vanno poste rispettivamente al 445 e al 428 e il ritorno di Esdra al 398, ritiene che Malachia abbia preceduto anche Neemia, e lo stima doversi assegnare al 450-445 a. C.
Anche più complessa è la questione delle relazioni di Malachia con la "Legge", e la sua risoluzione dipende in parte dalle precedenti questioni cronologiche, ma specialmente dall'interpretazione che si dà al celebre racconto di Neemia, VIII, e dalla teoria che si accetta circa la composizione del Pentateuco (v.). Ci limiteremo a ricordare che dai critici che accettano la teoria delle quattro fonti del Pentateuco, si fa rilevare che passi quali Mal., II, 4 segg., III, testimonierebbero un periodo in cui i sacerdoti erano semplicemente i figli di Levi, in cui perciò le norme dell'istituzione sacerdotale, erano ancora quelle del Deuteronomio, non quelle che ispirarono più tardi il Codice sacerdotale, il quale subordina i figli di Levi ai figli di Aronne: da ciò i suddetti critici concludono che ai tempi di Malachia il Codice sacerdotale non era stato ancora promulgato.
A Malachia il Nuovo Testamento allude in Matteo, XI, 10 segg.; XVII, 12, e paralleli; Romani, IX, 13.
Bibl.: Oltre ai commentarî a tutti i profeti minori, cfr. L. Reinke, Der Prophet Malachi, Giessen 1856; A. Kohler, Die Weissagungen Maleachi's, Erlangen 1865; O. Isopescul, Der Prophet Malachias, Czernovitz 1908; J.-J. Halévy, Le prophète Malachie, in Revue sémitique, XVII (1909), pp. 1-44; D. Mc Fayden, The messenger of God. A study on the prophet Malachi, Londra 1910; I. H. Hennessy, Joel, Obadiah, Jonah and Malachi, Cambridge 1919; A. Bulmerincq, Der Prophet Maleachi, Tartu 1926; C. J. Sondergren, The prophecy of M., Rock Island 1927.