BISACCIONI, Maiolino
Nacque a Ferrara nel 1582, da Girolamo Maiolino, poeta e professore di retorica e poesia nell'ateneo ferrarese, oriundo di Iesi. Compì i suoi studi in legge a Bologna, ma a sedici anni s'arruolava come alfiere al servizio della Repubblica di Venezia e durante lo scontro con il governatore di Milano, conte di Fuentes, alla fortezza di Orzinuovi, sfidava arditamente a duello il capitano Giovanni Domenico Cresti. Due zii paterni, Desiderio e Bisaccione, erano già ufficiali, il primo al servizio del granduca di Toscana, il secondo colonnello delle galere pontificie; e il B. decise di tentare la fortuna nella carriera militare aggregandosi con costoro, nel 1601, fra i mercenari imperiali combattenti in Ungheria. Nel 1603, di ritorno in Italia, provocava a duello a Bologna il suo stesso comandante, Alessandro Gonzaga: bandito dagli Stati della Chiesa, si ridusse nel ducato di Modena ad esercitare l'avvocatura. Presto, tuttavia, trovò la maniera di riemergere, facendosi assegnare dai signori di Scandiano nel 1610 la podesteria di Baiso nel Reggiano; ma, accusato ingiustamente di "aver morto un uomo con una archibugiata", venne per qualche tempo imprigionato. Liberato, ebbe dal duca Cesare nel 1613 la podesteria di Carpineti.
Di questi anni è la famosa disputa del B. con il Tassoni. Si presume che la polemica mossa da lui e dal conte ferrarese Paolo Brusantini avesse la mira di screditare il poeta modenese, allora di stanza a Roma presso la corte di Paolo V e più volte propostosi al papa per un impiego come segretario pontificio, o, più probabilmente, di appoggiare l'Aromatari nella sua annosa contesa con il Tassoni. Sta di fatto che all'origine della violenta querelle, che si trascinò tra il 1614 e il 1615, stavano due libelli diffamatori divulgati in quel di Modena nella primavera del 1614, su iniziativa del filosofo averroista Cremonini, amico padovano dell'Aromatari, ma compilati dal B. e dal Brusantini. Nella scrittura attribuita al B., che si firmava con l'anagramma Gabriel Manilio Boccasini, si affermava che il Tassoni s'ingegnava di farsi passare come "discendente dai signori Tassoni di Ferrara", ma che in realtà era di "progenie d'avi e bisavi bastardi e disonorati". Alle due ingiuriose scritture il poeta modenese replicava duramente e non senza accortezza, rivolgendosi da una parte a Fulvio Testi per aver conferma dei maneggi fra l'Aromatari e il Cremonini, e dall'altra al suo "principe naturale", il duca Cesare, per reclamare giustizia contro il Brusantini e il Bisaccioni. Accompagnava la lettera del Tassoni al duca (da Roma il 25 giugno 1614) un estratto di alcuni brani dei due libelli in cui venivano chiamati in causa anche i gesuiti e certi episodi delle vecchie contese fra papato ed Estensi per il dominio di Ferrara. Tuttavia soltanto un nuovo intervento del Tassoni presso il principe Alfonso valse a rompere gli indugi delle autorità ducali. Non potendosi colpire il Brusantini, uomo caro al duca Cesare perché parente del segretario di stato Giambattista Laderchi, l'8 luglio il podestà di Reggio procedette sotto buona scorta all'arresto del B., che aveva invano tentato di proclamarsi del tutto estraneo all'intrigo.
L'anagramma, il prenome cabalistico di Gabriel e lo stesso giudizio sulla nascita e sulla ascendenza del Tassoni, che tradivano una qualche conoscenza di astrologia e di negromanzia, quali appunto si diceva professasse il B., erano prove troppo schiaccianti perché egli non si decidesse infine a confessarsi autore di una delle due scritture. Si rifiutò invece di rivelare il nome del complice, e questo probabilmente lo salvò, per l'intervento discreto del Brusantini presso il Laderchi, giacché - come annota il Tiraboschi - "corse voce ch'ei dovesse essere condannato alla morte". Inutili furono i successivi pressanti appelli del Tassoni per una condanna esemplare, ché il B. riuscì a cavarsela con un semplice ordine di sfratto dal ducato.
Rifugiatosi a Correggio, il B. ne divenne podestà e nel 1616, con l'elevazione di quella città a principato, assunse per qualche tempo il governatorato militare. Ma anche qui egli non ebbe vita facile: caduto in sospetto di infedeltà nel corso di trattative da lui condotte presso il governatore di Milano per un banale incidente occorso fra il principe di Correggio, spalleggiato dal duca di Mantova, e i marchesi di San Martino, sostenuti dal duca di Modena, fu costretto di nuovo ad esulare. Nei principati e nelle signorie dell'Italia centrale spirava ormai aria poco favorevole nei suoi confronti, ed egli ritenne bene pertanto di mutar decisamente clima. Nel 1617 riuscì a sistemarsi a Trento, governatore delegato di quel principe vescovo, per incarico del quale ebbe a raccogliere Statuti e privilegi della sacra religione costantiniana, stampati poi nel 1624. Ben scarsi guadagni e limitate prospettive poteva offrire tuttavia questo, come altri piccoli principati e podesterie della penisola, e il B., allo scoppio della guerra dei Trent'anni, sentì di nuovo irresistibile la vocazione delle armi. Onori militari, facile bottino e il grado di tenente generale gli prometteva il principe di Moldavia, ma all'arrivo a Vienna costui era caduto in battaglia, e al B. non rimase che partecipare volonterosamente alla difesa della città contro Ungheri e Boemi, segnalandosi con altri ufficiali alla vittoriosa fazione sul ponte del Danubio. Ritornò in Italia, dopo un lungo pellegrinaggio attraverso Germania, Paesi Bassi e Francia; tenutosi alla larga da Modena e Correggio, essendo ormai caduto il bando dagli Stati pontifici, finì per rientrarvi nel 1621, guadagnandosi di che vivere a Roma, come agente diplomatico per affari di secondaria importanza presso Gregorio XV. Qui lo raggiunse in quello stesso anno una chiamata alla corte del principe di Avellino, Marino Caracciolo, uno fra i più cospicui esponenti dell'alta aristocrazia napoletana.
Corte numerosa e fastosa quella a cui conveniva il B., ché - per riprendere un appunto del Croce - il Caracciolo andava seguendo "una certa inclinazione che sentiva per le scienze e le lettere", spendendo "largamente il suo ricco censo in feste, lussi, clientele e largizioni". Accanto a nobili privati e a grossi titolati napoletani, come Pompeo Marsili Colonna, il marchese di Montalbano, Angelo Flavi Comneno, il Caracciolo raccoglieva anche "i primi dotti che ne' suoi tempi in ogni scienza fossero stati": il poeta G. Basile, il De Petris, A. Bruni, F. Caracciolo.
A tale schiera di "persone meritevoli" venne ad aggiungersi il B., senz'altri titoli che quelli conferitigli da una certa fama di buon cortigiano, di uomo di spirito e di gusto, esperto in pompe e spettacoli. Gli fu concesso di che sistemarsi con la famiglia ed ebbe in sorte per un anno - come già il Basile - l'ufficio di governatore baronale della città e il primo seggio nel consiglio del principe. Ammesso fra i membri dell'Accademia napoletana degli Oziosi, quindi fra i Dogliosi di Avellino il B. non abbandonò comunque la vecchia pratica di spadaccino e si affrettò anche a far tesoro degli insegnamenti di quella grande autorità in rituali cavallereschi che era considerato il marchese Villa.
Il soggiorno ad Avellino ed a Napoli diede modo al B. di mettere da parte alcune osservazioni generali sulla vita e sulla società, sulla prassi politica e sulle istituzioni del viceregno, che più tardi raccoglierà o svilupperà con una certa libertà di giudizio nei suoi lavori storiografici e nella novella L'Albergo. Certo egli, pago di tante pompe e magnificenze, non scenderà ad indagare più efficacemente quale sostanziale inconsistenza si nascondesse dietro la facciata di parata del baronaggio locale né quali gravezze pesassero sulla vita economica, né quanto estesa fosse la miseria delle plebi della città e del contado. Tuttavia non gli sfuggì il processo politico di graduale sottomissione del riottoso ceto baronale alla corona, all'assolutismo dei viceré, e non mancò di individuare le ragioni essenziali per cui la successiva rivolta dei Masaniello, dei Genoino, degli Annese sarebbe fallita di fronte alla resistenza baronale, ormai passata al servizio del potere centrale.
Nel 1627 il B. lasciò infine Napoli per trasferirsi in Sicilia. A Palermo fu per qualche tempo al seguito del duca di Alburquerque, poi per sei anni dimorò alla corte del principe di Butera, entrando in dimestichezza con alcuni ambienti letterari dell'isola e contribuendo a ricostruire la vecchia Accademia palermitana dei Riaccesi. Anche in Sicilia non mancò di raccogliere annotazioni intelligenti sulle condizioni di vita e sull'organizzazione politica dei paese, che più tardi utilizzerà nella narrazione della rivolta palermitana del 1647. A Torino anzi, dove egli passò dopo successive peregrinazioni nel 1635 (chiamatovi dal genero, il bolognese Giambattista Montalbano, aiutante del maresciallo di campo del duca), la conoscenza minuta dei costumi, degli umori e della situazione economico-sociale del Napoletano lo accreditò alla corte di Vittorio Amedeo I per particolari incarichi di natura diplomatica.
Il B. prese così parte fra l'estate e l'autunno del 1635 ai preparativi di quella cospirazione fra il duca Rodolfo, Massimiliano di Sassonia e il duca Enrico di Candal, generale dell'esercito veneziano, che, assicuratasi in via preliminare l'adesione del principe sabaudo, si riprometteva la conquista di Napoli e la cacciata degli Spagnoli. Il piano d'azione proposto dal B. (d'intesa con un notabile napoletano rimasto sconosciuto, autore di una dettagliata memoria al duca di Savoia nell'agosto 1635 per esortarlo all'impresa) prevedeva la dislocazione di dodicimila uomini al confini del Napoletano - dove il connestabile Colonna "nimicissimo de' Spagnuoli" avrebbe potuto in meno di una settimana raccogliere altri seimila mercenari -, un accordo con il cardinale Antonio e con Taddeo Barberini per ulteriori rinforzi dagli Stati pontifici, ed il comando in capo della spedizione al francese maresciallo di Toiras, già liberatore di Casale nel 1629-30 e caduto poi in disgrazia del Richelieu. Se l'impresa fosse riuscita, il duca di Savoia sarebbe stato investito del Regno di Napoli, a suo fratello il cardinal Maurizio sarebbe rimasto il Piemonte, al duca di Mantova sarebbe andato il ducato di Milano, al duca di Parma una porzione del Milanese, ai Barberini uno stato nel Napoletano, alla Francia Savoia, Nizza e Villafranca. Un progetto quindi che avrebbe rivoluzionato l'intera carta politica della penisola, in pratica troppo vasto e ambizioso, e subito accantonato.
Fu questa l'ultima tappa di una certa importanza della multiforme attività del B. come agente politico, né la carriera militare gli offriva ormai una concreta alternativa: cinquantenne, aveva voluto affrontare a Torino ancora un paio di duelli, ma ammetteva: "adesso non più vaglio alla spada" e si lamentava della sua "vita morta fra le persecuzioni della fortuna e degli uomini ingiusti o ingrati" (prefazione a L'Isola overo successi favolosi del conte Maiolino Bisaccioni, Venezia 1648). Fin dal 1633 aveva dato alle stampe i primi capitoli del suo Commentario delle guerre successe in Alemagna dal tempo che il re Gustavo di Svetia si levò di Norimberga (Venezia 1633-42), ed egli pensò bene di mettere a frutto quel vasto repertorio di relazioni, notizie, appunti che gli avevano procurato tanti anni di diretta esperienza politica, di milizia, di maneggi con principi, ecclesiastici e corti nobiliari. Ritiratosi a Venezia, città di librai e stampatori ma anche di mecenati come Guido Aviano, Giorgio e Nicola Contarini, Lodovico Cocco, Francesco Loredan (ai quali il B. dedicò parte cospicua delle sue scritture), egli ritornò alle vicende della guerra dei Trent'anni, facendole precedere da una Vita dell'imperatore Ferdinando II (Venezia 1637) e riprendendo più tardi il racconto delle gesta del "re d'oro" nelle Memorie storiche delle mosse d'armi di Gustavo Adolfo re di Svetia in Germania dal 1630 (Bologna 1653). Era un genere storiografico, questo, di particolare momento e fortuna editoriale, ed il B., pur indulgendo talora al romanzo, alla deformazione avventurosa, al gusto popolare, rivelò una consumata abilità di narratore e una conoscenza (pur nell'esteriorità del quadro d'insieme) larga, attenta, puntuale e, talora, anche di prima mano su avvenimenti e su personaggi della sua epoca. Poté così proseguire quella ponderosa opera di Alessandro Zilioli, una specie di storia universale nota sotto il titolo di Storie dei suoi tempi, pubblicata a Venezia tra il 1652 e il 1653. Della Istoria delle guerre civili di questi ultimi tempi (Venezia 1653-55: se ne ebbe una ristampa postuma nel 1664), particolarmente interessante è il racconto della rivoluzione napoletana del 1647: le cause fondamentali della rivolta sono intese dal B. con un certo acume e vengono individuate anche con giusto discernimento i ruoli effettivamente svolti dai vari protagonisti. In questa ed in altre opere (dai Sensi civili del 1642 all'Istoria universale dell'origine,guerre e imperio de' Turchi, Venezia 1654) il B. si proponeva, d'altra parte, non "il solo narrare li successi, ma il dar lume a chi regge popoli di esaminare tutte le cagioni che possono alterare lo stato delle cose".
In questo senso la sua produzione storiografica confluisce nel filone più generale (cui convennero anche altri scrittori e trattatisti minori di cose politiche e militari di quel tempo, dall'Assarino al Birago, al Brusoni, al Capriata, al Gualdo Priorato, al Leti, al Nani) che, dalla professione più o meno deliberata e palese di intendimenti precettistici, suol definirsi del tacitismo. Più che storico critico-erudito, o ricercatore di nuove o più solide fonti documentarie, o interprete lucido della realtà politica, anche il B. fu infatti allievo del Mascardi nell'arte di apprendere e insegnare i dettami della prudenza, del buon senso. E anche da lui la storia venne riguardata come un repertorio, come "la vera maestra dei governi di stato, mostrando negli altrui incidenti quello che seguire, quello che apertamente fuggire e ciò che destramente schivare si debba". E ne accentuava a questo fine (in maniera forse più consapevole di altri) il compito principale, che non era tanto quello di occuparsi "delle guerre, le quali i principi per lo più fanno condurre dai loro capitani e generali", quanto piuttosto delle occorrenze che riguardavano "il governo dei popoli": anche se poi all'atto pratico, più che tratteggiare con analisi serrata alcune linee direttrici dell'organizzazione politica e della ragion di stato, egli finiva - come numerosi confratelli altrettanto privi di vigore speculativo e dibattuti fra morale e utile, fra etica e politica - per smarrirsi dietro il particolare, il caso episodico, il quadretto psicologico di maniera, il meccanicismo pedantesco, il culto untuoso di concettini retorici e convenzionali.
Questa stessa predisposizione mentale della storia ammaestratrice si può ritrovare anche nella sua copiosa produzione novellistica e teatrale, ma qui il motivo dominante è piuttosto l'elemento avventuroso, l'intreccio sentimentale, la ricerca della preziosità e dell'"effetto". Così che in quest'ultimo filone dell'attività letteraria del B. ci sembra di dover far rientrare più propriamente anche un lavoro come il Demetrio Moscovita (Venezia 1643 e 1649), concepito come contributo storiografico, ma realizzato in pratica con ritmi e su canovacci di andamento schiettamente romanzesco, del tipo comune ai vari Lupis, Leti, Mioni e altri "storici tragici" del tempo. Quanto alle sue "favole tratte dal vero", ai suoi racconti, ai suoi melodrammi, una certa argutezza o vivacità o anche schiettezza di vena popolare non manca certo di ritrovarsi in alcuni passi, pregevoli anche per scorrevole limpidità o facilità di composizione. L'impressione più generale è tuttavia quella di un vasto ammasso di trovate eccessivamente fantasiose, di forzate affettazioni, frammischiate ad elementi buffoneschi e licenziosi non sempre di felice scelta e ad un lusso sfarzoso di inventiva e di orpelli retorici, in conformità d'altra parte al gusto corrente dell'epoca. L'Accademia veneziana degli Incogniti, fondata nel 1630 dal Loredan, lo volle fra i suoi membri, e in tale consesso il B. (che vi svolse anche funzioni di segretario) presentò, con i vari G. Belli, G. Beneamati, G. B. Bestani, P. Pono, A. Campeggi, B. Fusconi, M. Pietro e altri, sei novelle poi inserite nella definitiva antologia, da lui stesso raccolta, delle Cento Novelle amorose dei Signori Accademici Incogniti, pubblicata a Venezia nel 1651. Queste sei novelle ed altre sessantadue, già stese o successivamente composte (raccolte poi in un unico racconto in quattro parti: La Nave, 1637-38; L'Albergo, 1643; L'Isola, 1648; Il Porto, 1664, edite a Venezia), rappresentano il fulcro della produzione letteraria del Bisaccioni.
Zeppe di episodi amorosi galanti o scollacciati, di tumultuose vicende e strabilianti avventure di viaggio, di truci fatti di sangue, esse si informano tutte comunque (pur se non mancano puntuali tirate di retorica moraleggiante) ad un genere di letteratura fra il picaresco e il libertino, con forse maggior propensione per quest'ultima tendenza. Ché il B. fu buon conoscitore della letteratura francese secentesca e in strette relazioni con gli ambienti culturali d'oltralpe, traducendo non senza eleganza vari romanzi della de Scudéry e di altri précieux come il Desmarets, il La Calprenède, il d'Audiguier. Particolarmente felice la versione del racconto di quest'ultimo sugli Amori di Lisandro e Calista (Venezia 1663), pur con modeste alterazioni stilistiche del testo necessarie a "tarpar le ali alla metafora troppo ardita" o con qualche soppressione arbitraria o discreta attenuazione di certi passi giudicati troppo forti per la timorata pruderie del pubblico italiano. Traduzioni comunque, quelle del B., sempre vivaci, mai sbiadite, ché nella versione divulgativa di un mondo a lui congeniale, come quello degli ultimi sussulti aristocratici dell'epoca di Enrico IV, egli trasfuse quel tono e quel colorito idealistico, di devozione feudale, con cui aveva cercato di vivere e di interpretare nel suo ambiente la ripresa sociale della classe nobiliare e il riemergere dei vecchi valori del sangue e della spada.
A Venezia, in data imprecisata, gli era giunta da parte di Luigi XIV la nomina di gentiluomo di camera, unitamente al titolo marchionale e al cordone di S. Michele. Né gli onori cavallereschi né i successi editoriali dei suoi lavori gli impedirono tuttavia di concludere la sua lunga giornata in estrema miseria, l'8 giugno 1663, a Venezia.
Il B. lasciò anche alcuni melodrammi di maniera di spiccato gusto veneziano: La Semiramide in India (Venezia 1648) e la Veramonda Amazzone d'Aragona (rappresentata a Venezia nel 1651 e l'anno dopo a Napoli, con musica di Francesco Cavalli), unitamente ad una traduzione con aggiunte della Descriptio orbis del polacco Luca da Linda sotto il titolo Le descriptioni universali e particolari del mondo e delle repubbliche (Venezia 1660).
Nella vita irrequieta e avventurosa, e nella fervida, strabocchevole attività letteraria del B. è dato cogliere anche qualcosa di diverso dalla semplice vicenda, dagli alti e bassi di un personaggio di volta in volta avventuriero della penna o onesto gentiluomo, e al di là di tanta sregolata ecletticità, più di un'osservazione acuta, più di una testimonianza valida e illuminante sul costume e sulla società dell'Italia secentesca, sulle sue oligarchie, sulle sue plebi, sulle sue dimensioni politiche e culturali. Nelle piccole corti italiane, nella società della penisola uscita disfatta dalla crisi economica e in preda allo sfacelo sociale, il B. in effetti non solo seppe bravamente trar partito dai vari incentivi consentitigli dalle variegate pieghe di burocrazie cortigiane fra le più oziose e dilapidatrici o dai privilegi della più vasta schiera di legulei o di accademici sussiegosi e pitocchi, ma del processo di rifeudalizzazione, della rivincita aristocratica, della riesumazione dei tradizionali valori del sangue, dell'onore, della spada fu tra i più consapevoli e fortunati divulgatori. Uomo dell'empirico e sonnacchioso assolutismo dei principotti italiani, delle risorgenti boriose oligarchie della nobiltà di cappa, del controriformismo lassista e festaiuolo, egli ne vantò a modo suo le concezioni di vita e gli ideali in tutta una serie di annotazioni, sia pur sommarie, che rimangono tuttavia proprio per la loro convenzionalità tra le più significative del clima dell'Italia del Seicento e della fisionomia più generale di tutto un settore della vita europea tagliato fuori dalle nuove linee di espansione economico-sociale e riguadagnato ai principi del privilegio nobiliare ed ecclesiastico, del pregiudizio autoritario e dogmatico.
In tale contesto politico e ideologico va pertanto collocata l'opera pubblicistica del B., e acquista così un significato, una sua intima validità e coerenza, la lunga trafila di maneggi e di peripezie che accompagnarono la sua attività da un capo all'altro della penisola e anche fuori. Uomo d'armi, egli vagheggiò e si provò a realizzare gli esemplari, le suggestioni, le ambizioni di quella piccola nobiltà di toga e di spada squattrinata e puntigliosa da cui proveniva e in cui era cresciuto, metà bravaccio metà gentiluomo; uomo politico, s'adoprò per quella "libertà d'Italia" da lui intesa come "benignità dei principi, riverenza della plebe e gente inferiore al nobile", governi che passano "per eredità" e non "per sorte, merito e allo spesso per danaro"; uomo di lettere, visse e consumò la sua "libertà" intellettuale nella misura e nelle forme consentitegli dal sistema dei cui ideali si era fatto banditore, di volta in volta cortigiano, "chierico vagante", precettista, accademico di circostanza. Ideologicamente legato all'ambiente in cui si mosse, non gli riuscì invece di operare una salda integrazione sociale: la sua condizione permanente fu quella del déraciné, e ciò vale a spiegare le fasi così slegate, frammentarie della sua travagliata esistenza.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Torino, Sezione I,Materie militari, 1635, mazzo 1, fasc. 28; G. Gualdo Priorato,Scena d'huomini illustri d'Italia, Venezia 1659,passim; G. B. Caruso,Museo dei letterati siciliani, Palermo 1728, f. 13; G. M. Mazzuchelli,Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1264 ss.; G. Tiraboschi,Biblioteca modenese, V, Modena 1784, pp. 186 ss.; Diz. di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, I, Milano 1848, p. 391; II, ibid. 1852, p. 52; Nouvelle Biographie Universelle, VI, Paris 1853,ad vocem; I. La Lumia,G. D'Alessi o la rivoluzione di Palermo del 1647, Palermo 1863, p. 15; G. Passano,I novellieri italiani in prosa, Torino 1878, parte I, pp. 51-53; A. Albertazzi,Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento, Bologna 1891, pp. 355 ss.; G. B. Marchesi,Per la storia della novella ital. nel sec. XVII, Roma 1897, pp. 59 ss.; G. Rossi,Una scrittura e alcune lettere e documenti tassoniani inediti, in Giorn. stor. della lett. ital., XXXIX (1902), pp. 336 s.; G. Procacci,Un romanzo francese del Seicento e una traduz. ital., in Annales de la Faculté de Lettres de Bordeaux et des Universités du Midi. Bulletin italien, VI (1906), pp. 220 ss.; V. Di Tocco,Ideali di indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnola, Messina 1926, p. 232; B. Croce,Vita della nobiltà napoletana del Seicento. Note in margine ad alcuni libri di M. B., in Uomini e cose della vecchia Italia, serie 1, Bari 1927, pp. 143 ss.; V. De Caprariis,L'Italia nell'età della Controriforma, in Storia d'Italia, II, Torino 1965, pp. 713, 717 e 726.