Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’astrologia si sviluppa sulla base dell’eredità babilonese e della filosofia greca (in particolare lo stoicismo) e raggiunge il suo culmine con il Tetrabiblos di Claudio Tolomeo. A Roma l’astrologia viene introdotta intorno al II secolo a.C. ed è adottata da Augusto e dai primi imperatori. Successivamente sono imposte severe restrizioni all’attività degli astrologi, cui viene impedito di fare previsioni su affari pubblici. La magia è condannata a Roma già in età arcaica, ma pratiche magiche, come le tavolette di maledizione (defixiones), proliferano fino alla fine dell’Impero. La divinazione, di origine etrusca, ha un ruolo istituzionale fino alla fine della repubblica. Sotto Augusto e i suoi successori viene strettamente controllata dall’imperatore, mentre pratiche divinatorie private o non autorizzate vengono represse con severità. A partire dal IV secolo, indovini e maghi sono perseguitati e puniti con la morte.
Gli inizi dello studio degli astri e dell’astrologia si collocano in Mesopotamia alla fine del III millennio a.C. L’importanza delle previsioni astrologiche nella vita degli Assiri e dei Babilonesi (nel mondo classico chiamati Caldei) era tale che non è possibile comprendere la loro civiltà prescindendo dalla documentazione astrologica. Gli scrittori greci e latini si riferiscono ai Caldei per indicare gli astrologi; nella Bibbia (Daniele, 5, 10) gli astrologi di Babilonia sono chiamati Caldei. Nell’Epinomide (attribuito a Platone, ma di Filippo di Opunte) lo studio degli astri è considerato un’attività antichissima, di origine babilonese. Questa concezione si afferma in età ellenistica ed è accettata dai Romani. È il caldeo Berosso che nel III secolo a.C. fa conoscere ai Greci l’astrologia babilonese. Per i Babilonesi (già nel II millennio) la Terra, i suoi abitanti e gli eventi che su di essa hanno luogo sono considerati come un riflesso degli astri, che, saggiamente guidati dalle divinità, vigilano sugli uomini. La vita dell’uomo, della città, l’economia, gli affari di stato e le guerre sono condizionati da quanto avviene in cielo. In età neobabilonese e achemenide sono note le maggiori costellazioni e sono inserite nello zodiaco. Attorno al 600 a.C. lo zodiaco è diviso in 12 parti, ciascuna di 30°, i cui nomi sono di origine sumerica. Tra i corpi celesti e le divinità sussiste una stretta relazione: la Luna, il Sole e i cinque pianeti noti ai Babilonesi (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) sono associati a divinità. In realtà, i pianeti non sono identificati con le divinità, ma le rappresentano.
Una delle principali fonti dell’astrologia babilonese sono le 70 tavolette che compongono l’Enuma Anu Enlil, opera astrologica pervenutaci in sumero e accadico. Le tavole contengono migliaia di presagi annotati che danno informazioni sugli avvenimenti terrestri che si possono verificare in corrispondenza di determinati fenomeni celesti. Nella Mesopotamia del I millennio a.C. gli astrologi o scribi appartengono alla più alta classe intellettuale e religiosa e svolgono un ruolo importantissimo a corte, dove alcuni sono consiglieri del sovrano. La disciplina astrologica è solitamente tramandata di padre in figlio, ma sappiamo che già dal XVI secolo a.C. esistono scuole di astrologia babilonesi (per esempio a Uruk, Ur, Babilonia e Nippur) e in territorio assiro (per esempio a Assur e Ninive). Gli astrologi babilonesi, che sono in possesso di competenze astronomiche, compongono manuali di vario genere, come il già citato Enuma Anu Enlil, nonché prontuari di facile utilizzazione. Oltre all’osservazione degli astri, l’astrologo deve interpretare i segni osservati nel cielo attraverso la consultazione delle copie presenti negli archivi della grande serie di presagi contenuti nell’Enuma Anu Enlil, da cui si deduce cosa fare. Poiché i fenomeni celesti rappresentano la volontà degli dèi, in molti casi è possibile influire sui presagi negativi con preghiere e rituali appropriati. Oltre all’astrologia pubblica, i Caldei praticano anche quella privata, formulando presagi tratti dalle nascite.
Gli Egizi elaborano un calendario di 12 mesi di 30 giorni ciascuno, più cinque giorni supplementari (epagomeni), considerati particolarmente infausti. Non sembra però che gli antichi calendari egizi fossero connessi a pratiche astrologiche. Con l’eccezione di iscrizioni provenienti dalla cella interna del tempio di Saf-el-Henna (IV secolo a.C., periodo di Nectanebo I, XXX dinastia), non disponiamo di testi astrologici dell’Egitto dei faraoni. L’astrologia babilonese comincia a diffondersi in Egitto nel III secolo a.C. Lo zodiaco viene introdotto in Egitto in età tolemaica, ma di origine egizia è la suddivisione di ciascun segno dello zodiaco in tre parti, ciascuna di 10°, chiamata decano in età ellenistica. I 36 decani corrispondono ad altrettante divinità sideree, che controllano varie parti del corpo, aree geografiche, fenomeni meteorologici e i climi.
Nell’astrologia ellenistica, la cui influenza dura fino al Rinascimento, confluiscono l’astrologia babilonese, la dottrina egizia dei decani e l’astronomia greca, in particolare la mappa stellare del cielo. Con il poema didascalico Phainomena di Arato di Soli si avvia tra i Greci il processo di mitologizzazione dei cieli, ovvero l’associazione di animali, storie umane e figure mitologiche alle costellazioni. Il poema di Arato è commentato da Eratostene di Cirene celebre bibliotecario di Alessandria, nell’opera dal titolo Catasterismi. Il catasterismo, ovvero la trasformazione in stella, è parte della mitologia greca antica e viene ora introdotto nella letteratura astrologica. Nel II secolo a.C. compaiono i primi trattati astrologici ellenistici, che si richiamano alle divinità e ai faraoni dell’antico Egitto, con lo scopo di nobilitare una disciplina importata dalla Mesopotamia e filtrata attraverso la scienza greca. Uno dei più noti, la cui composizione è stata collocata nel II secolo (ma secondo alcuni risale alla prima parte del I secolo a.C.), contiene elementi di astrologia babilonese, la dottrina egizia dei Decani e l’ordinamento dei pianeti elaborato dai Greci. L’opera (uno pseudoepigrafo) è scritta in greco ed è attribuita al faraone Nechepso e al sacerdote Petosiride. L’attribuzione di opere a personaggi veri o leggendari dell’antico Egitto è una pratica diffusa nell’astrologia e nelle scienze occulte in età ellenistica. Nell’astrologia del II e I secolo a.C. sono ben definiti i metodi per stabilire gli oroscopi. L’astrologo deve determinare l’astro che si trova ad est nel momento della nascita: quella è la “stella” di un uomo. Ad ogni pianeta è assegnata una particolare casa in una delle 12 figure zodiacali: il Sole e la Luna appartengono rispettivamente al Leone e al Cancro, mentre ciascuno dei pianeti veri e propri ne possiede due, una diurna e una notturna. Un pianeta raggiunge il massimo di potenza quando è entrato nella casa di sua proprietà, ed è particolarmente attivo durante le ore del giorno nella propria residenza diurna, nella notte, in quella notturna. Gli astrologi assegnano a ciascun pianeta punti di “esaltazione” e di “depressione”: quando un pianeta si trova in un certo segno dello zodiaco, esso esercita l’influsso più forte, il più debole quando è all’opposto. Il Sole ha il grado più alto di forza quando è in Ariete, il punto massimo di depressione quando è nella Bilancia.
In età ellenistica cominciano a distinguersi tre tipi di astrologia: genetliaca, catarchica e mondiale, o generale. La prima formula oroscopi e prevede eventi relativi alla vita di singoli individui sulla base della posizione degli astri al momento della nascita; la seconda indica il momento opportuno per dare inizio ad una certa impresa, fondandosi sullo studio della posizione degli astri nei momenti presi in considerazione e dell’oroscopo di chi deve agire; la terza prevede fenomeni naturali, siccità, carestie, nonché il destino di popoli e stati. Quest’ultima forma di astrologia, che potremmo definire a contenuto geopolitico e che ha precedenza sulla genetlialogia individuale, pone regioni della Terra e interi popoli sotto il dominio degli astri, dai quali sono fatti dipendere caratteri, civiltà, abitudini, sistemi politici e religioni. I pianeti sono detti reggenti del tempo (chronokrátores) e governano il corso della vita di ciascun uomo, cosicché i sette pianeti, nel loro ordine di successione, governano le età dell’uomo: la Luna la prima infanzia, quindi Mercurio, poi Venere, che governa la terza età, la giovinezza, e manifesta il suo potere nelle passioni; quindi il Sole, che conferisce padronanza e sicurezza all’agire. Dopo il Sole, Marte, che subentra nell’età del pieno vigore e introduce le amarezze e le sofferenze della vita. La tarda maturità è regolata da Giove, che porta alla rinuncia degli eccessi della fatica e immette il decoro e la lungimiranza. L’ultima età, l’età senile, è controllata da Saturno, che giunge quando le energie vitali sono raffreddate. Tra corpi celesti e parti del corpo umano si stabilisce una corrispondenza, che costituisce il fondamento dei trattati di iatromatematica, o medicina astrologica, alcuni dei quali attribuiti a Ermete Trismegisto e risalenti al II-I secolo a.C.
I corpi celesti esercitano le loro influenze anche su piante, pietre preziose, metalli. L’associazione dei pianeti ai metalli, che sarà parte della simbologia alchemica dei secoli successivi, stabilisce una corrispondenza tra Sole e oro; Luna e argento; Mercurio e argento vivo; Saturno e piombo; Giove e stagno; Venere e rame; Marte e ferro.
Sebbene in età classica i Greci non avessero praticato l’astrologia, idee filosofiche elaborate dai Greci forniscono i fondamenti concettuali per lo sviluppo delle dottrine astrologiche, come è attestato dal Tetrabiblos di Claudio Tolomeo, dove troviamo alcuni motivi della filosofia aristotelica, nonché di quella stoica. Criticata dagli scettici e dagli epicurei, l’astrologia è invece accettata e reinterpretata dagli stoici. Il filosofo accademico Carneade avversario dello stoicismo, muove numerose obiezioni contro l’astrologia, alcune delle quali sono riprese nei secoli successivi, come ad esempio il destino diverso di due gemelli venuti al mondo quasi nello stesso momento (e quindi con lo stesso oroscopo) e il fatto che più persone nate in tempi diversi muoiano nella stessa battaglia.
Con l’eccezione di Panezio, che attenua fortemente il determinismo della tradizione stoica e accetta le obiezioni di Carneade, gli stoici forniscono gran parte delle dottrine filosofiche che troviamo nella letteratura astrologica dotta. Lo stoicismo afferma che gli astri hanno una natura animata e divina e il cosmo è un tutto organico, vivente, in cui vi è corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, ovvero tra corpi celesti e terrestri. Nel cosmo è presente un’universale “simpatia”, un’interazione reciproca di cui il pneuma è l’agente; il pneuma è infatti definito come la forza che plasma e conserva il mondo. Gli eventi del mondo sono tutti il frutto di una catena di cause: il mondo è un’entità unitaria e continua nel quale ogni mutamento di una parte ha effetto su tutte le altre. Il caso non esiste, una legge razionale, secondo Crisippo, determina tutti gli eventi e gli eventi futuri sono fissati in modo necessario fin dall’inizio. Dalla necessità di tutti gli accadimenti deriva la possibilità di praticare la divinazione e l’astrologia. Mentre Panezio respinge l’astrologia, affermando che la natura particolare di un uomo dipende dalle condizioni in cui si trova a vivere, per Posidonio di Apamea, caratteri e climi e la vita degli individui sono determinati dal Sole e dall’azione concomitante degli astri.
La cosmologia stoica permea gli Astronomica, poema astrologico latino di Marco Manilio, vissuto tra il I secolo a.C e il I secolo d.C. “Tutte le cose esistono in virtù di una legge precisa”, scrive Manilio, invitando gli uomini ad un’amorosa dedizione all’ineluttabile destino. La conoscenza attraverso l’osservazione degli astri è per Manilio un dono divino: “Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo, e trovare dio, se non chi partecipa della divinità? E questa vastità della volta che si estende senza fine, e le danze degli astri e i fiammeggianti tetti del cielo, e l’eterno conflitto dei pianeti contrapposti alle stelle, chi potrebbe discernere e racchiudere nell’angusto petto, se la natura non avesse dato alla mente occhi così potenti e non avesse rivolto a sé un’intelligenza ad essa affine e non avesse ispirato un compito così alto, e non venisse dal cielo ciò che ci chiama al cielo, per partecipare ai sacri riti?” (Astronomica, II, 115-125)
Nei primi secoli dell’età cristiana l’Egitto (e in particolare Alessandria) è ancora la patria dell’astrologia. In Egitto sono attivi Claudio Tolomeo e Vettio Valente di Antiochia. Il primo è autore del Tetrabiblos (“Opera in quattro libri”), il più famoso trattato di astrologia dell’antichità; il secondo, astrologo di professione, scrive Anthologiarum libri novem, opera che esercita una considerevole influenza sull’astrologia bizantina, sasanide e araba.
Tolomeo divide la scienza degli astri in due parti: la prima (di cui ha trattato nell’Almagesto) studia le configurazioni e i moti dei corpi celesti; è una scienza esatta ed autonoma, essendo suo oggetto i corpi celesti, inalterabili e dotati di moti regolari. La seconda, ovvero l’astrologia, che dipende dall’astronomia, ha minore certezza e minor rigore poiché cerca di prevedere, a partire dalle configurazioni celesti, le influenze degli astri sui corpi terrestri. Tuttavia, Tolomeo sottolinea la superiorità dell’astrologia rispetto ad altre pratiche divinatorie e cerca di riorganizzare la disciplina in maniera coerente e sistematica. Il Tetrabiblos è un’opera con scopi didascalici nella quale le dottrine astrologiche, fino ad allora espresse in maniera frammentaria o poetica, sono esposte in modo sistematico, con chiare definizioni. Alla visione teocentrica dell’astrologia babilonese Tolomeo sostituisce una concezione naturalistica, che attribuisce ai pianeti proprietà derivate dalla fisica aristotelica. La dottrina dei quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) e la classificazione delle quattro qualità fondamentali (caldo, freddo, secco, umido) sono parte integrante dell’astrologia tolemaica. Nel proemio Tolomeo difende l’astrologia dai suoi detrattori sostenendo in termini fisici le influenze celesti sui climi, sui corpi terrestri e sugli uomini: nessuno può negare – osserva Tolomeo – che una certa forza si diffonde dai corpi celesti e si propaga sull’intera superficie terrestre, che è interamente soggetta a processi di generazione e corruzione. Gli astri, e soprattutto il Sole e la Luna, e le loro azioni combinate, determinano mutamenti negli elementi, nei corpi inanimati e in quelli animati. Per poter fare previsioni sulla vita degli uomini occorre considerare le influenze celesti al momento della nascita, ma anche altri fattori, quali i luoghi, gli ambienti e i cibi di cui si nutrono.
La prima diffusione dell’astrologia a Roma avviene nel II secolo a.C., a seguito dei contatti con i Greci. Catone il Censore è fiero avversario dell’astrologia; nel 139 a.C. il praetor Cornelio bandisce gli astrologi da Roma, ma non sembra che ciò abbia impedito il diffondersi delle pratiche astrologiche. Infatti, 80 anni dopo, Nigidio Figulo, senatore ai tempi di Cesare, è astrologo e autore di scritti sulla divinazione e l’astrologia; Giulio Cesare sceglie il Toro come insegna delle sue legioni poiché domicilio di Venere, l’antenata della sua gens che egli invoca a sua protettrice. La cometa apparsa in cielo dopo la sua morte è interpretata come Sidus Iulium, prova della assunzione di Cesare tra gli astri – una forma di catasterismo; la stessa stella è interpretata dal giovane Ottaviano come segno che annuncia la sua ascesa politica. Ottaviano Augusto fa poi coniare delle monete sulle quali appare il segno del Capricorno; sotto di lui e Tiberio vive e opera l’astrologo Marco Manilio, autore degli Astronomica. Nerone, Adriano e Settimio Severo sono tutti seguaci dell’astrologia. Da Diocleziano in poi gli astrologi (detti anche mathematici) sono perseguitati; Costantino condanna l’astrologia, ma fa coincidere le principali festività del cristianesimo con quelle della religione solare. Il giorno natale di Gesù Cristo è fissato al 25 dicembre, che per i pagani è il genetliaco del Sole; le statue del dio Sole sono spesso adornate con la croce. Sotto Costantino, un senatore siciliano, Firmico Materno, compone un trattato di astrologia (Mathesis) nel quale asserisce che l’astrologia pone gli uomini a contatto con la divinità. Convertitosi poi al cristianesimo, Firmico scrive un’opera contro le religioni misteriche. I Vangeli legano la vita di Cristo agli astri: l’apparizione di una cometa, i tre re magi che vengono dall’Oriente e l’eclissi solare alla morte di Cristo rimandano alla tradizione astrologica. I cristiani rifiutano il determinismo astrale, per la ragione che gli astri non possono costringere l’uomo a peccare contro la volontà divina; gli astri dunque non agiscono, preannunciano soltanto. Origene concede agli angeli e ai beati la capacità di leggere le scritture astrali; Tertulliano ritiene l’astrologia ammissibile solo fino all’apparizione dei Vangeli, dopo i quali è lecita solamente “la scienza che osserva le stelle di Cristo, non di Saturno e di Marte”.
Profezia e divinazione hanno un ruolo di primo piano nella cultura e nella società romana. Il De divinatione di Cicerone contiene una vastissima documentazione su queste pratiche e sulle concezioni filosofiche relative alla divinazione. I principali sostenitori della mantica o divinazione sono gli stoici, per i quali la prevedibilità degli eventi è data dal fatto che essi si producono in modo necessario secondo una catena di cause ed effetti che procede dall’origine del mondo secondo un ordine provvidenziale. È proprio quest’ordine provvidenziale che regge l’universo, la garanzia della possibilità di interpretare i segni per conoscere il futuro.
Avversari della divinazione sono gli epicurei, che negano la provvidenza divina, sostenendo che i fenomeni dell’universo sono il prodotto dei moti e del fortuito incontro di atomi. Gli scettici, come l’accademico Carneade, negano la provvidenza e la divinazione e così anche Cicerone, il quale però non respinge del tutto la divinazione, giustificandone la pratica nelle sue forme pubbliche per il ruolo politico che svolge.
In un primo periodo, fino alla fine della repubblica, le pratiche di divinazione sono quelle tradizionali di origine etrusca, ma, mentre per gli Etruschi l’esito era l’accettazione della volontà divina, per i Romani la divinatio comporta come conseguenza che l’azione umana possa essere modificata in base al messaggio divino. Il presagio e il prodigio non sono tanto segni che preannunciano l’avvenire, quanto piuttosto avvertimenti del dio. Per questo la divinazione diviene subito, e tale rimane a lungo, parte degli affari dello Stato, gestita da individui che hanno una qualifica pubblica e sacrale. I prodigi sono registrati negli annali della città e la divinatio precede tutte le decisioni pubbliche. Garanzia suprema sono i Libri Sibillini, una raccolta di responsi oracolari apparsi sotto i Tarquini e custodita da un collegio inizialmente formato da due membri, che poi sono portati a 15. Essi sono i soli autorizzati a consultarli e solo in circostanze particolarmente gravi.
I Romani, come i Greci, distinguono due tipi di divinazione, una detta naturale, che è frutto di un intervento diretto della divinità (che si attua soprattutto nei sogni, ma anche nello stato di veglia), l’altra, detta artificiale, che presuppone l’uso di una tecnica per interpretare segni che preannunciano qualcosa. Chi riceve il messaggio diretto del dio è un “invasato”, si trova in uno stato di trance o di sogno, infatti le sibille sono descritte come “furenti”. Chi interpreta deve invece osservare attentamente determinati fenomeni. La divisione tra divinazione naturale e artificiale non è però così netta, infatti l’interprete di segni a scopi divinatori è un ispirato, che unisce all’osservazione un aiuto divino. Datori privilegiati di segni sono – per i Greci, per gli Etruschi e per i Romani – gli uccelli, i serpenti, le viscere degli animali. Già usato dai Greci per la divinazione, il volo degli uccelli ha un’importanza particolare per gli Italici e i Romani.
La tecnica di divinazione basata sull’osservazione del volo degli uccelli è indicata, già in età arcaica, con due termini, spesso usati come equivalenti: auspicium e augurium, che indicano anche il risultato dell’osservazione, segno favorevole o sfavorevole. Successivamente, si ha una distinzione tra auspicium e augurium, che assumono significato differente soprattutto nel linguaggio politico-giuridico. L’auspicium è l’atto di osservare gli uccelli e auspex è colui che osserva; auspicium è anche il diritto, che spetta ai magistrati, di far compiere tali osservazioni in vista di eventi pubblici di una certa importanza. L’interpretazione dei segni è invece compito dell’àugure, che spiega l’auspicium accertandosi del consenso o dissenso degli dèi. Il termine augurium indica quindi l’attività di interpretare i segni, di stabilire se gli dèi siano o meno favorevoli a una certa attività.
L’esame dei segni divinatori tratti dagli animali include l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati, in particolare il fegato. Pratica divinatoria di origine babilonese, l’aruspicina è diffusa soprattutto tra gli Etruschi, è infatti chiamata Etrusca disciplina ed è fondata su regole contenute nei Libri haruspicini. A Roma è affidata agli aruspici, sacerdoti che in origine erano etruschi. Molto diffuse sono le forme “private” di divinazione, che seguono i metodi di quelle pubbliche e le integrano con tecniche di origine greca.
Nell’ambito della restaurazione religiosa augustea, le moribonde pratiche della divinatio tradizionale sono riaffermate e rigidamente controllate dall’imperatore. I Libri Sibillini sono trasferiti nel tempio di Apollo al Palatino, presso la residenza di Augusto; la divinazione privata è proibita e, se riferita all’imperatore, è considerata un crimen de maiestate e punita con la pena capitale; forme non ufficiali di divinazione sono represse e 2 mila opere dedicate alla divinazione fatte bruciare. La lotta contro le pratiche divinatorie non ufficiali prosegue sotto quasi tutti i successori di Augusto, che le considerano potenzialmente eversive dell’ordine politico-religioso. Pratiche magiche e divinatorie figurano tra le accuse che portano alle persecuzioni dei primi cristiani. Nel IV secolo Costantino perseguita con severità le pratiche divinatorie private, proclamando che gli haruspices non possono entrare in case private, sotto pena di venire bruciati vivi, mentre il padrone è passibile di proscrizione e deportazione.
La definizione della magia nella società romana, così come per altre società, non è impresa facile; non è infatti facile stabilire con precisione quali pratiche siano ritenute magiche e chi sia considerato mago o stregone. È però possibile stabilire una peculiarità della magia a Roma, ovvero una minor tolleranza delle autorità romane rispetto a quelle ateniesi nei confronti delle pratiche magiche. Non si può comunque far leva sulle accuse di magia per determinare le azioni che i Romani reputano magiche, infatti, come è testimoniato dal processo contro Apuleio di Madaura, il celebre autore dell’Asino d’oro, l’accusa di magia è spesso pretestuosa, finalizzata ad altri scopi. Nel caso di Apuleio la posta in gioco è una ricca eredità. Durante il processo gli accusatori di Apuleio considerano magia anche attività che non fanno ricorso a forze occulte o ad agenti soprannaturali, come ad esempio gli studi scientifici dell’imputato. Se si esamina la terminologia relativa alla magia, si riceve l’impressione di una indeterminatezza, che tradisce l’assenza di una chiara nozione di magia. I termini magia, dal greco magheía, e magus compaiono tardi (nel I secolo a.C.) e indicano inizialmente la sapienza dei Persiani e il sacerdote che ne era depositario. In epoca repubblicana, magia e magus non designano ciò che noi chiamiamo magia, ma qualcosa di estraneo alla tradizione romana. Secondo Plinio il Vecchio la magia è un’attività di origine orientale, e quindi estranea alla tradizione romana, un’attività che ha come oggetto pratiche finalizzate alla guarigione e alla divinazione. Sotto Augusto, un greco di nome Anassilao di Larissa, necromante dedito alla magia nera, è espulso con l’accusa di essere magus – è questa una delle prime attestazioni di magus con il significato di colui che opera con l’ausilio di potenze demoniache. Apuleio di Madaura, nel rispondere ai suoi accusatori, sostiene che la magia è un’arte accettata dagli dèi e implica una profonda conoscenza del loro culto.
Magia è qui definita una forma di religiosità più profonda, che mette a diretto contatto con la divinità. Veneficium è il termine più diffuso con cui si indica ciò che noi consideriamo “magia nera”. Riti vocali di carattere magico sono detti carmina mala, ma vi sono anche carmina benefici, che hanno l’effetto di guarire e sono a lungo tollerati.
Tra le numerose forme di magia praticate a Roma (come ad esempio filtri, amuleti, statuette, pietre con iscrizioni magiche), una delle più diffuse sono le defissioni, in latino defixiones, in greco katádesmoi, da katadéo: lego, immobilizzo. Le defixiones, che abbracciano un arco di tempo lunghissimo – le origini risalgono alla Sicilia del VI secolo a.C. – sono tavolette con iscrizioni, per lo più di piombo (ma ce ne sono pervenute anche alcune su fogli di papiro), volte a influenzare con mezzi soprannaturali le azioni, i beni o la vita di persone, a sottomettere un altro essere umano alla propria volontà, a danneggiare qualcuno o a provocarne la morte. In origine le defissioni costituiscono una forma di giustizia alternativa a quella ufficiale. Sono indirizzate contro rivali o nemici nei processi, e infatti inizialmente (in Sicilia, ma anche in Attica) si ispirano a documenti pubblici riprendendo formule di tipo giudiziario. Le più antiche defixionum tabellae contengono testi semplici: liste di nomi con brevi formulari; successivamente, i testi divengono più lunghi e articolati. L’efficacia delle defixiones può essere accresciuta utilizzando parole greche e latine alternate, formule e simboli magici. Si rivolgono a divinità del mondo infero, a demoni, a defunti e sono deposte in tombe, templi, fonti, grotte – luoghi in contatto con il mondo sotterraneo. Non mancano casi in cui le defixiones si accompagnano a figurine e statuette (che rappresentano la vittima), talvolta trafitte da aculei, legate o mutilate. A seconda del contesto e delle finalità, le defixiones possono essere classificate in maledizioni di contenuto giudiziario, commerciale, agonistico, erotico, contro calunniatori e ladri. In età imperiale (soprattutto dal II secolo) le defixiones si diffondono in tutto il Mediterraneo, in Gallia e in Britannia. Una delle più lunghe e dettagliate ad esserci pervenuta è una tavoletta contro un auriga del circo, stilata forse da un sostenitore di un rivale: “Esseri e numi santi, vi scongiuro di unirvi nell’aiutare questo incantesimo, legando e incantando, opponendovi, intralciando, unendovi per distruggere, uccidere, fracassare l’auriga Eucherio e tutti i suoi cavalli domani nel circo di Roma. Che possa fare una falsa partenza, che debba andare adagio nel percorso, che non riesca a superare nessuno né a girare bene, che non vinca premi. Se stia ostinatamente a ruota con qualcuno, che non riesca a vincerlo; se stia dietro a qualcun altro che non gli riesca di sorpassarlo, e che invece sia colpito da un incidente, venga trattenuto, possa sfracellarsi e, nelle corse del mattino e del pomeriggio, venga frenato dalla vostra potenza. Adesso! Adesso! Presto! Presto!”. Una legge delle XII Tavole punisce coloro che con incantesimi sottraggono il raccolto del vicino. Gli incantesimi non sono puniti in quanto tali, ma poiché violano il diritto di proprietà. Altri tipi di incantesimo sono invece ritenuti leciti, quali il carmen auxiliare, che per Catone il Censore e per Plinio il Vecchio è considerato pratica medica, non magia. Si tratta di una formula (che noi considereremmo magica) che viene cantata e accompagnata a un ben preciso rituale al fine di sanare una lussazione o una frattura. Nell’81 a.C. Silla fa votare la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, che sarebbe poi servita come fondamento di ogni azione legale contro la magia. Il bersaglio è il veneficium, ovvero l’azione occulta che danneggia una persona o provoca morte improvvisa e inesplicabile. Il termine venenum, che in origine indicava un filtro d’amore, indica poi ogni genere di filtri magici. Tra la fine della repubblica e il principato, attività di tipo magico cominciano ad essere perseguitate: al principio dell’impero si possono consultare i maghi, esperti nella mantica e nell’astrologia, ma limitatamente alla sfera privata. Questa pratica è invece vietata quando a mezzo della magia si vuole interferire o ottenere informazioni su affari di stato. Lo Stato infatti possiede il monopolio delle pratiche magico-divinatorie e nessun privato può intromettersi.
La persecuzione in maniera sistematica della magia è opera degli imperatori cristiani del IV secolo. Lo storico Ammiano Marcellino racconta che sotto Costanzo II, imperatore cristiano, “se qualcuno portava al collo un amuleto contro la quartana o altre malattie, o se era accusato dalla testimonianza dei malevoli di essere passato la sera vicino ad una tomba, era condannato alla pena capitale e giustiziato come stregone (veneficus)”. È punito con la pena capitale anche l’uso di amuleti contro la malaria, che Galeno, che era stato medico ufficiale dell’imperatore Commodo (161-192), ha invece raccomandato. Non sembra però che simili divieti e la ferocia delle punizioni abbiano arrestato la produzione e l’uso di amuleti. Al IV secolo risale la parte più antica della compilazione detta Kyranides, che contiene istruzioni su come fabbricare amuleti contro demoni, fantasmi, malefici. In età tardo antica il timore dei demoni è diffusissimo e accomuna pagani e cristiani. Il filosofo neoplatonico Porfirio ritiene che ogni casa e ogni corpo di animale siano pieni di demoni; l’apologeta cristiano Tertulliano afferma che Cristo opera da redentore in quanto libera dai demoni, non dal peccato. I cristiani sono infatti convinti che gli dèi pagani siano spiriti maligni realmente esistenti.
La lotta contro la magia è condotta in primo luogo dalla Chiesa. Per i Padri della Chiesa ogni magia è frutto di un patto con il diavolo, mentre i miracoli di Gesù e degli apostoli sono di origine divina. È impensabile che un uomo che non sia un santo faccia dei prodigi con le sue sole capacità (in tal caso i suoi sono miracoli compiuti da Dio). Ogni forma di magia è condannata poiché opera del demonio con cui il mago deve aver stretto un patto di alleanza. La virulenza dell’attacco della Chiesa contro la magia si spiega non solo per la necessità di stabilire il monopolio di pratiche magico-teurgiche, ma anche per la presenza di quello che potremmo definire un “fronte interno”. Lo stesso cristianesimo, che si è diffuso tra le classi poco colte, ha inglobato parte della demonologia tradizionale, nonché la credenza nelle potenze infere e celesti invocate dalle arti magiche. Si è in presenza di una specie di “magia cristianizzata”: gli stessi cristiani continuano a praticare la magia, spesso combinando antiche pratiche magiche con il culto dei martiri e la venerazione delle loro reliquie, che alcuni portano insieme ad amuleti. Il concilio di Laodicea (metà del IV secolo) deve quindi proibire agli ecclesiastici cristiani di svolgere attività di mago, incantatore, astrologo e anche di fabbricare amuleti. Deve anche proibire eccessi nel culto degli angeli, in quanto questo culto ha assunto forme del tutto analoghe alle pratiche della magia tradizionale.