mafia
Una cupola piena di sangue
Con il termine mafia si intende un sistema di potere esercitato attraverso l’uso della violenza e dell’intimidazione per il controllo del territorio, di commerci illegali e di attività economiche e imprenditoriali; è un potere che si presenta come alternativo a quello legittimo fondato sulle leggi e rappresentato dallo Stato.
Un sistema di contro-potere dunque (a volte chiamato anti-Stato proprio per questa sua caratteristica), con una gestione gerarchica e verticistica, basata su regole interne a loro volta fondate sull’uso della violenza e dell’intimidazione
La mafia – detta anche Onorata società, da cui la definizione di ‘uomini d’onore’ per i suoi membri – viene normalmente associata alla Sicilia, dove ha assunto il nome di Cosa nostra. Ciò avviene per motivi storici, poiché in tale regione c’è stata una presenza di questo contro-potere fin dal 19° secolo. Ma negli ultimi decenni la criminalità organizzata che si rifà a comportamenti e regole interne di tipo mafioso si è estesa ad altre realtà locali, con denominazioni diverse: Camorra in Campania, ’Ndrangheta in Calabria, Sacra corona unita in Puglia; oppure raccoglie gruppi di persone che agiscono in più contesti territoriali ma sempre con gli stessi canoni, contraddistinti dalla nazionalità di chi ne fa parte: di qui le definizioni di mafia russa, mafia cinese, mafia albanese e così via.
Dal 1982 l’associazione mafiosa rappresenta un reato specifico del Codice penale: viene cioè punito il sistema di regole che costituisce il contro-potere mafioso, indipendentemente dalle realtà locali in cui si manifesta, dalle persone che lo rappresentano e dai singoli reati commessi dal gruppo criminale (per esempio omicidi, traffico di droga, corruzione). Venti anni prima dell’introduzione di questo reato, nel 1962, la Camera e il Senato per occuparsi del fenomeno avevano istituito una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia che da allora è stata ricostituita a ogni legislatura.
Circa un secolo prima che tutto ciò avvenisse, tra il 1875 e il 1876, una commissione parlamentare e un’indagine privata dei deputati Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino svelarono l’esistenza dei due poteri contrapposti in Sicilia (quello statale e quello della ‘prepotenza privata’): misero in evidenza l’organizzazione della mafia in cosche e la sua incisiva presenza, attraverso protezioni ed estorsioni, nei luoghi di produzione della ricchezza, come agrumeti e solfatare.
In quel contesto venne ucciso nel 1893, a bordo di un treno che viaggiava da Termini Imerese a Palermo, l’ex direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo. Come mandante del delitto fu accusato un suo noto avversario, il deputato Raffaele Palizzolo, che venne processato, condannato ma infine assolto anche grazie alle protezioni di cui poté godere.
Nello stesso periodo il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi firmò rapporti di polizia nei quali descriveva la dislocazione delle cosche sul territorio, ne indicava i capi e i principali delitti. I rapporti, inviati al governo di Roma, non sortirono alcun effetto.
Durante il ventennio del regime fascista venne inviato in Sicilia il prefetto Cesare Mori, al quale fu concessa carta bianca per la repressione del fenomeno mafioso. La sua attività provocò molti arresti e invii di ‘uomini d’onore’ al confino, ma non riuscì a sradicare il sistema di potere delle cosche.
Nel dopoguerra Cosa nostra appoggiò il movimento separatista siciliano, il quale era a sua volta spalleggiato dai latifondisti in un’ottica anticomunista condivisa dalla stessa mafia, tessendo contatti con la nuova classe politica dell’isola.
Il potere d’intimidazione mafioso fu utilizzato nella repressione delle lotte contadine per la terra, e per consolidare l’autorità dei mafiosi nella regione e le loro collusioni con il nuovo potere politico.
All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso si accese la cosiddetta prima guerra di mafia, con l’eliminazione di alcuni capicosca dei diversi schieramenti, in un conflitto nato da sospetti di truffa su un traffico di droga con gli Stati Uniti, passato dalla strage di Ciaculli (30 giugno 1963) in cui morirono sette uomini delle forze dell’ordine e culminato nella strage di viale Lazio a Palermo (10 dicembre 1969) che provocò cinque vittime nello scontro tra due opposte fazioni di Cosa nostra.
Alla fine degli anni Settanta la seconda guerra di mafia contrappose il gruppo dei Corleonesi (guidato da Salvatore Riina e Bernardo Provenzano) a quello che aveva governato Cosa nostra fino a quel momento (Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti, Salvatore Inzerillo e altri). La lotta per il controllo della nuova fonte di enorme ricchezza costituita dal traffico della droga si aggiunse a quella per la gestione dei tradizionali metodi di arricchimento, come gli appalti e le estorsioni, e provocò centinaia di morti.
Nello stesso tempo Cosa nostra scatenò un vero e proprio attacco contro le istituzioni in Sicilia e in particolare a Palermo, colpendo le persone che ostacolavano il sistema di potere mafioso. Tra il 1979 e il 1982 vennero assassinati nel capoluogo siciliano i responsabili locali dei due principali partiti (Democrazia cristiana e Partito comunista italiano), il presidente della Regione, il poliziotto a capo della squadra mobile, un capitano dei carabinieri, il procuratore della Repubblica, il giudice istruttore responsabile delle principali indagini, il prefetto. Fu all’indomani di quest’ultimo delitto (uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, 3 settembre 1982) che venne inserito il reato di associazione mafiosa, oltre alla norma che consente il sequestro e la confisca dei beni dei condannati per quel reato.
Il Codice penale fa esplicito riferimento alla «forza di intimidazione» della mafia e alla «condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva» per spiegare l’atteggiamento di larga parte della società imposto dall’organizzazione mafiosa, che ha contribuito al suo rafforzamento per oltre un secolo. Solo negli ultimi anni, in Sicilia ma anche in altre regioni come la Calabria, di fronte a delitti eclatanti ci sono stati sintomi di ribellione da parte della cosiddetta società civile, in particolare dei giovani, che sembrano aver incrinato la generale assuefazione alla coesistenza con la mafia.
Nel 1983 l’attacco alla magistratura continuò con l’uccisione del consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici. Il suo successore, Antonino Caponnetto, decise di proseguire nell’opera avviata da Chinnici coordinando un pool di giudici (nel quale spiccavano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) che riuscì finalmente a incidere sull’organizzazione mafiosa grazie alla collaborazione del pentito Tommaso Buscetta, il quale tradì l’abituale omertà che vige tra mafiosi e svelò per la prima volta, dall’interno, il sistema di regole che governa Cosa nostra. Buscetta parlò dei riti d’iniziazione e descrisse l’organizzazione interna della mafia.
Alla base dell’organizzazione mafiosa c’è la famiglia, costituita dai singoli uomini d’onore associati per cooptazione e coordinati da un capodecina, che agisce su un determinato territorio. Se la famiglia è numerosa ci sono più capidecina che fanno riferimento a un unico ‘rappresentante’. Tre o più famiglie contigue per territorio costituiscono un mandamento, di cui è capo uno dei rappresentanti. I capimandamento a loro volta si riuniscono nella commissione provinciale (o cupola). Da ultimo la mafia prevedeva anche una commissione regionale, ma l’egemonia su Cosa nostra è stata sempre esercitata dai capimafia della provincia di Palermo.
Il maxiprocesso contro 475 imputati celebrato grazie alle indagini del pool, basate sulle dichiarazioni di Buscetta e di altri pentiti riscontrate da indagini mai svolte prima con tanta efficacia, giunse fino alle condanne definitive del 1992. Per la prima volta l’azione giudiziaria si dimostrava in grado di incidere sull’organizzazione mafiosa. Ma la reazione di Cosa nostra scatenò un’offensiva di vero e proprio terrorismo mafioso.
Tra il 1992 e il 1993 si verificò una serie di delitti e stragi, come gli attentati che provocarono la morte di Giovanni Falcone insieme alla moglie e a tre uomini della sua scorta (Capaci, 23 maggio 1992) e poi di Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta (Palermo, 19 luglio 1992). Altre bombe attribuite alla mafia scoppiarono tra la primavera e l’estate del 1993 a Firenze, Roma e Milano dopo la cattura del boss Salvatore Riina (Palermo, 15 gennaio 1993). Contemporaneamente venivano uccisi alcuni uomini vicini al potere politico considerati collusi con l’organizzazione criminale.
La risposta giudiziaria a questi ultimi avvenimenti ha prodotto nuove leggi che hanno introdotto fra l’altro organismi specializzati nel contrasto investigativo e giudiziario alla mafia e un regime di ‘carcere duro’ per gli uomini d’onore detenuti (il cosiddetto articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario), numerosi ‘pentimenti’ e arresti di altri capimafia. Per questo la strategia di Cosa nostra è cambiata dando vita al cosiddetto inabissamento, di cui sarebbe regista il boss Bernardo Provenzano, latitante dal 1963: la presenza sul territorio, cioè, resta costante, ma senza ricorrere a omicidi o fatti di sangue clamorosi.
Nel frattempo, a partire dagli anni Novanta, sono stati istruiti e celebrati processi a uomini politici e delle istituzioni di livello nazionale e locale per i loro presunti rapporti con le organizzazioni mafiose, che hanno portato ad alterne conclusioni (condanne, assoluzioni e prescrizioni). Da essi è comunque emersa la capacità delle associazioni mafiose di infiltrarsi all’interno del potere legittimo dello Stato per esercitare impunemente il proprio contro-potere.