MAFFIOLO da Cremona, detto della Rama
Nacque probabilmente nel terzo quarto del XIV secolo e fu originario di Cremona. Non si hanno tracce della famiglia nelle cronache della città.
La principale fonte di notizie su M. è la documentazione relativa ai lavori della Veneranda Fabbrica del duomo di Milano: la prima citazione di M. come vetraio risale al 1402 e lo connota come "magister" sin dalla fase di costruzione e decoro architettonico dell'edificio.
Si presume che la formazione artistica di M. sia avvenuta a Milano, nella temperie anteriore al gotico internazionale dominata dalle ricerche naturalistiche di Giovannino de' Grassi, responsabile del cantiere fino al 1398. La presenza di M. a Milano fu probabilmente motivata dall'appartenenza al seguito degli scultori campionesi, in particolare alla bottega di Bonino da Campione, che dalla metà del XIV secolo dominò la produzione plastica lombarda; firmò le sue opere d'esordio a Cremona e Verona, per affermarsi come scultore visconteo a Milano dagli anni Settanta, e per entrare a far parte del consiglio della Fabbrica del duomo dal 1388 (R. Bossaglia, Bonino da Campione, in Diz. biografico degli Italiani, XII, Roma 1970, p. 225). Qui Bonino lavorò fino al 1397, contemporaneamente a Iacopo da Campione, autore della lunetta della porta della sacrestia settentrionale e ingegnere della Fabbrica accanto a Giovannino de' Grassi in anni in cui gli artisti lombardi difendevano la tradizione locale contro gli influssi delle maestranze tedesche, rappresentate dallo scultore Hans Fernach e dall'architetto Heinrich Parler di Ulma. Conclusasi questa fase con la morte dei suoi protagonisti, il panorama degli scultori presenti a Milano fu dominato da personalità come Jacopino da Tradate, Matteo Raverti e Niccolò da Venezia, che operarono secondo i modelli loro forniti da Paolino da Montorfano e Isacco da Imbonate.
M. compare in atti del 30 maggio 1402 come membro della commissione chiamata a giudicare il disegno per il finestrone centrale dell'abside del duomo, progettato da Filippino da Modena: è indicato come il disegnatore e il supervisore del tondo con la "collumbeta", l'aquila che orna lo straforo terminale della finestra (Pirina, p. 37).
Monneret de Villard (p. 48) segnala anche la partecipazione di M. alle commissioni per il giudizio sulla statua di S. Barnaba, sempre nel 1402, e quella sul pavimento della nuova sacrestia nel 1404, senza però fornire riscontri documentari. La "collumbeta" è l'unica scultura sicuramente attribuibile alla progettazione di M., il cui stile appare qui caratterizzato dalla fusione di solidità costruttiva e sensibilità calligrafica: il corpo dell'aquila è saldo e ben tornito, senza assottigliamenti formali, e il piumaggio delle ali e della coda aperta a ventaglio è definito con un trattamento della superficie lapidea sensibile alle variazioni luministiche e al fluire delle linee arabescate del rosone centrale (Pirina, p. 18).
Somiglianze formali evidenti con l'aquila del finestrone centrale dell'abside si riscontrano in due sculture in marmo serpentino di ugual soggetto e di ignota provenienza conservate al Museo del Duomo di Milano (Gilli Pirina, p. 37 n. 19; Bucchi, p. 23), che potrebbero essere così ricondotte per progettazione ed esecuzione all'ambito di Maffiolo. Si è ipotizzato l'intervento di M. anche per un capitello pensile dello zoccolo esterno del duomo raffigurante una Testa di vecchio con grappolo d'uva, già attribuito a maestranze nordiche attive nel cantiere alla fine del XIV secolo (Bucchi, p. 29): in questo caso è determinante, oltre al confronto con le linee nette e flessuose della "collumbeta", la similitudine fisionomica con il volto del Padre Eterno, effigiato nelle vetrate che M. realizzò a partire dal 1417 (Gilli Pirina, p. 35; Bossaglia, p. 152 n. 18).
Il maggiore impegno di M. nella Fabbrica del duomo si ebbe nell'ambito della realizzazione delle vetrate del coro, di cui restano solo pochi antelli sopravvissuti alla distruzione e agli spostamenti ottocenteschi. La messa in opera di vetrate istoriate nel duomo milanese era cominciata agli inizi del XV secolo con la commissione delle finestre della sacrestia, per eseguire le quali arrivarono Antonio da Cortona e Niccolò da Venezia (Monneret de Villard, p. 39). Con il procedere dell'elevazione dell'edificio, seppur relativamente tardi, nel 1414 il consiglio della Fabbrica cercò maestri vetrai per la realizzazione delle finestre absidali. Vennero designati Zanino Angui de Normandia e Stefano da Pandino per il finestrone centrale; nel febbraio 1417 Franceschino Zavattari ricevette la commissione per i finestroni laterali. L'inadempienza di Franceschino determinò la sua sostituzione con M. il 31 ott. 1417. Egli portò a termine venticinque antelli, costituenti il primo quarto della vetrata, entro il 10 marzo 1420, data in cui furono esaminati dalla commissione della Fabbrica. Per un ritardo nell'esecuzione dei pannelli, nel 1420 M. e il consiglio della Fabbrica ebbero una controversia, a dirimere la quale fu posto Michelino da Besozzo, "pictorem superno et magistrum a vitratis in totum" (in Pirina, p. 59); nei dieci mesi successivi M. realizzò e consegnò un altro quarto del finestrone. Nel 1424 è registrato il pagamento del lavoro e l'anno successivo gli fu fatto credito per la concessione di altro vetro insieme con Paolino da Montorfano.
I pannelli realizzati da M. sono stati individuati da Gilli Pirina tra i materiali conservati nel Museo della Fabbrica del duomo, rimossi in occasione dei lavori d'integrazione e restauro di Giovanni Battista Bertini tra il 1834 e il 1839 e precedentemente attribuiti a Niccolò da Varallo. Si tratta di quattro riquadri con Storie della Genesi (La creazione dell'Universo, La creazione degli animali, La creazione di Adamo e il frammento di una probabile Creazione delle piante). I primi tre soggetti sono dominati dalla figura del Padre Eterno, monumentale e statica, circondata dagli elementi naturalistici dello sfondo, dettagliati ma privi di vivacità. La luce divina è raffigurata non con la tradizionale aureola, ma come fasci di luce che partono dalla testa del Creatore, a evidenziare una lettura marcatamente tridimensionale della composizione da parte dell'artista. L'ampio torace nudo di Adamo, raffigurato di tre quarti, permette un ulteriore rimando a un'opera scultorea ornamentale del duomo, il cosiddetto Gigante 53, attribuito a un ignoto maestro lombardo del 1405 (C. Baroni, Scultura gotica lombarda, Milano 1944, tav. 180, fig. 320). La tecnica vetraria di M. si distingue per il ricorso a lastre di colore acceso rosso e blu, l'utilizzazione limitata di giallo d'argento, cioè della colorazione ottenuta con l'applicazione di sali d'argento sul vetro prima della cottura, e la stesura di grisaille nera su vetro incolore per la definizione dei volti e dei nudi, in linea con lo stile del contemporaneo Stefano da Pandino. Si può attribuire a M. la diretta esecuzione della parte pittorica delle vetrate, secondo la tecnica descritta nel capitolo CLXXI del Libro dell'arte di Cennino Cennini (a cura di F. Brunello, Vicenza 1982, pp. 181 s.) e nella contemporanea Memoria del magisterio de fare fenestre de vetro di Antonio da Pisa (G. Zanotti, Antonio da Pisa e il suo trattatello sulle vetrate. Appunti, contributi e osservazioni ad una recente edizione, in Boll. della Deputazione di storia patria per l'Umbria, LXXIII [1976], 2, pp. 233-249). Questo uso è confermato dai pannelli eseguiti in quegli anni da Michelino da Besozzo per la vetrata di S. Giulitta: M. adotta una grafia pittorica incisiva che smorza la luminosità e il cromatismo freddo dei vetri, perseguendo l'obiettivo di monumentalità propria della statuaria campionese, mentre Michelino predilige una grisaille dai toni soffusi e morbidi, che accorda con sfondi arancio e viola, confermandosi "più pittore da tavola che vetraio" (Pirina, p. 109).
L'ultima opera documentata di M. è del 1427: si tratta della commissione di due insegne di Filippo Maria Visconti da porre sopra uno stendardo in campo d'oro, per le quali gli furono computate le spese per l'oro, l'argento e la seta (Brivio, p. 328 n. 19). Già nel 1419 M. è indicato nei documenti come "magistrum rechamatorem", a testimonianza della particolare eccellenza in quest'arte, della quale però nulla è rimasto (Monneret de Villard, pp. 48, 178; Pirina, p. 54). Gli ambiti dell'attività figurativa di M. detengono l'ampiezza propria dell'epoca medievale, a testimonianza del ruolo di capobottega da lui assunto e continuato presumibilmente dal figlio Giovanni.
Non sono noti il luogo e la data di morte di Maffiolo.
Fonti e Bibl.: A. Caimi, Delle arti del disegno e degli artisti nelle province di Lombardia dal 1777 al 1862, Milano 1862, p. 131; U. Monneret de Villard, Le vetrate del duomo di Milano, Milano 1918, pp. 46, 48 s., 177-181, 221, 226; G. Marchini, Le vetrate italiane, Milano 1955, p. 230 n. 73; U. Bucchi, Venerabile Fabbrica del duomo di Milano. Il Museo del Duomo, Milano 1956, pp. 23, 29; F. Wittgens, La pittura lombarda nella seconda metà del Quattrocento, in Storia di Milano, VII, Milano 1956, p. 835; C. Gilli Pirina, Franceschino Zavattari, Stefano da Pandino, M. da C., "magisteri a vitriatis" e la vetrata della "raza" nel duomo milanese, in Arte antica e moderna, XXXIII (1966), pp. 25-44; E. Brivio, Vetrate, in Il duomo di Milano, Milano 1973, I, pp. 237-241, 327 n. 14, 328 n. 19; R. Bossaglia, Scultura, ibid., II, pp. 81 s., 149 n. 9, 152 n. 18; C. Pirina, Le vetrate del duomo di Milano dai Visconti agli Sforza, Milano 1986, pp. 13, 18, 37, 45, 52-54, 56, 59-61, 65, 75-77, 80 n. 3, 295.