GIRARDI (Gerardi, Gherardi), Maffeo
Nacque a Venezia probabilmente nel 1406, secondo dei figli maschi di Giovanni di Francesco e Franceschina di Maffeo Barbarigo.
Il nonno paterno aveva ottenuto nel 1381 l'ascrizione al patriziato per i meriti acquisiti durante la guerra di Chioggia, servendo con due famigli e 40 balestrieri sulle navi impegnate a respingere l'assedio genovese. Nobiltà recente, dunque, quella dei Girardi, fondata soprattutto sul solido patrimonio accumulato da Francesco attraverso attività commerciali e finanziarie che rimasero per tutto il '400, ma anche per gran parte del secolo successivo, il settore di interesse principale dei suoi discendenti. Benché nessun membro della famiglia giungesse mai ad assumere un ruolo di rilievo nella vita politica e nel governo repubblicano, i Girardi allacciarono però rapporti assai stretti con diverse famiglie del patriziato ricche e influenti, quali per esempio i Foscari, i Donà e i Mocenigo, attraverso legami matrimoniali, soprattutto per via femminile. La progressiva estinzione dei rami di queste famiglie tra '500 e '600 permise ai Girardi, che poterono invece contare su una successione maschile, di affiancare alle ricchezze mobiliari accumulate attraverso i commerci, un ingente patrimonio immobiliare localizzato a Venezia, nelle province dello Stato da terra e specialmente nel Padovano, nel Trevigiano e nel Bellunese, e dello Stato da mar (soprattutto a Corfù). Quando nel 1685, alla morte di Alvise, anche i Girardi si estinsero, la famiglia aveva dunque accumulato fortune solidissime.
Il G., pur presentato dal padre nel 1424 alla balla d'oro per tentare di entrare in Maggior Consiglio prima dei 25 anni di legge, non intraprese la carriera politica e seguì invece la vocazione religiosa. Addottoratosi a Padova in filosofia e teologia, fece probabilmente parte della famiglia di Pietro Donà, vescovo di Padova. Nel 1438, trentaduenne, il G. entrò in qualità di professo nel monastero camaldolese di S. Michele di Murano.
Sotto la guida di Paolo Venier, abate dal 1392 al 1448, il monastero si era ormai ripreso dalla grave crisi vissuta nella seconda metà del XIV secolo, grazie alla restaurazione dell'Osservanza alla regola e all'accurata gestione del patrimonio fondiario e delle rendite da esso fornite. I risultati di questa azione di riforma furono il forte incremento del numero dei monaci e lo sviluppo di un'attività di risanamento e ampliamento degli edifici monastici che continuò lungo tutto il XV secolo. Fu soprattutto il proselitismo al di fuori del monastero a testimoniare della vivacità spirituale e del clima di fervore religioso e culturale che caratterizzava la comunità: la regola di S. Michele venne estesa progressivamente ad altre case regolari situate nei domini veneziani, tanto che già nel 1446 Eugenio IV tentò di costituire attorno alla casa madre una congregazione riformata sul modello di quella che già esisteva a S. Giustina di Padova. L'operazione riuscì però solo una trentina di anni dopo e costituì il fondamento del ruolo di protagonista nella vita dell'Ordine camaldolese che la Congregazione di S. Michele di Murano esercitò nei decenni e nei secoli successivi.
In queste vicende il ruolo del G. fu importante. Egli si integrò pienamente nella comunità della piccola isola lagunare, tanto che nel 1448, alla morte del Venier, venne eletto abate dal capitolo dei monaci. La nomina venne subito appoggiata presso la Curia romana dal Senato veneziano, preoccupato dalle voci che si erano diffuse sulla volontà di Niccolò V di nominare un ecclesiastico straniero, e il 26 maggio 1449 il G. venne consacrato dal delegato apostolico Martino de Bernardinis. Il G. rimase abate per quasi vent'anni, operando in grande continuità col suo predecessore e maestro, e favorendo in modo particolare il clima di vivacità spirituale che aveva caratterizzato l'abbaziato del Venier. La comunità proseguì nella sua espansione, si completò l'edificazione del chiostro nel 1453 e si avviò la costruzione di un nuovo campanile, terminata nel 1456. Tra i suoi seguaci si deve segnalare, in particolare Pietro Dolfin, che divenne nei decenni successivi il protagonista della riforma dell'Ordine camaldolese, di cui fu a lungo priore generale.
La scelta in favore della vita monastica fu un punto fermo nell'esistenza del Girardi. Ancor prima di entrare a S. Michele egli si legò in modo indissolubile alla comunità con un testamento che assegnava al monastero dei legati in denaro destinati all'acquisto di paramenti e libri sacri, così come delle pietre e della "chalzina" necessarie alla fabbrica, e lo designava anche tra gli eredi dei beni immobili in caso di estinzione della linea di discendenza maschile dei Girardi. A questi ideali egli rimase fedele per tutta la vita, tanto che, pur non giungendo mai a costituire un punto di riferimento dal punto di vista culturale e teologico all'interno dell'Ordine camaldolese, nondimeno vi esercitò una grande autorità spirituale, attraverso la fedeltà rigorosa alla regola e ai precetti della vita comune, e alla capacità di diffonderla all'interno delle comunità poste sotto il suo controllo.
Nell'aprile del 1466, alla morte del patriarca di Venezia Giovanni Barozzi, attraverso il sistema della proba il Senato designò il G. come candidato alla successione. Non è dato di sapere se anch'egli come i predecessori Lorenzo Giustinian, Maffeo Contarini e Andrea Bondumier, tutti chierici regolari fortemente impegnati nella vita delle loro comunità e in taluni casi anche in quella dell'Ordine di appartenenza, avesse manifestato scarso gradimento per il compito difficile e complesso cui lo si chiamava. Abbandonare la vita tranquilla e regolata del chiostro, ma anche le responsabilità interne all'Ordine che avevano scelto al momento della professione, per dedicarsi al governo di una diocesi grande e popolosa, nella cui circoscrizione ricadeva quasi per intero la città di Venezia con tutti i problemi di organizzazione della cura d'anime nelle 69 parrocchie, di controllo su un clero numeroso ed eterogeneo, affrontare i piccoli e grandi conflitti giurisdizionali con le magistrature laiche che costellavano quasi quotidianamente l'attività della curia patriarcale, non era stata una prospettiva attraente per nessuno di loro, che infatti avevano manifestato apertamente il proprio scontento, pur piegandosi poi alle esortazioni di superiori e amici. Fatto sta che per il G. questa designazione non dovette costituire una sorpresa: tra il 1460 e il 1464, infatti, in tre occasioni il suo nome era già comparso tra i candidati alle probe per il patriarcato, e le votazioni effettuate, pur non assegnandogli la vittoria, lo avevano sempre visto tra i preferiti dall'assemblea senatoria.
Ben diversa fu invece la reazione della Curia romana e in particolare del papa alla sua designazione. Nell'agosto 1464 era infatti salito al soglio pontificio, con il nome di Paolo II, il veneziano Pietro Barbo, i cui rapporti con la madrepatria si erano irrigiditi fin dal 1459, quando era ancora cardinale e vescovo di Vicenza ed era stato nominato vescovo di Padova da Pio II, incontrando l'irriducibile opposizione del Senato. Appena divenuto papa, il Barbo aveva cercato di regolare la successione al patriarcato di Venezia, vacante per la morte del Bondumier, e del successore di questo, Gregorio Correr, promuovendo il nipote Giovanni Barozzi, allora vescovo di Bergamo. La resistenza della Repubblica, che aveva sempre considerato suo personale appannaggio la scelta del candidato al patriarcato, fin dalla sua costituzione nel 1451, nonché la sopraggiunta morte del Barozzi, che a Roma taluni attribuirono al veleno, permisero infine al Senato di designare il G., che Paolo II si rassegnò però a confermare solo nel dicembre 1468.
Le relazioni del pontefice col governo veneziano furono infatti assai burrascose, giacché gli interessi del Papato erano in quel periodo sempre più in contrasto con quelli della Repubblica. A capo di uno Stato regionale che aveva ambizioni di espansione in contrasto con quelle della Serenissima, decisamente contrario a tutte le pretese avanzate in campo giurisdizionale dal Senato, il Barbo si era per esempio dimostrato inflessibile nella controversia sull'imposizione delle decime agli ecclesiastici concesse da Pio II, che egli non intendeva assolutamente accettare fossero di libera imposizione da parte della Repubblica. Il contrasto era stato poi risolto temporaneamente proprio dall'opera di Giovanni Barozzi, ma rimase una costante di tutto il pontificato di Paolo II. Anche in occasione della nomina del G. il papa volle riaffermare la propria autorità sul governo locale, e perciò la sede patriarcale rimase vacante per altri due anni - lo era già in sostanza dal 1464, anche se Barozzi l'aveva in effetti amministrata per qualche tempo - dato che il Senato non intendeva rinunciare dal canto suo alla prerogativa di far sì che i titolari del patriarcato fossero ecclesiastici graditi, e il più possibile liberi da legami con la Curia romana.
Il compito del G. non si presentava dunque facile sotto alcun punto di vista. Consacrato vescovo nella cattedrale di S. Pietro di Castello il 9 apr. 1469, il G. riuscì ben presto ad attorniarsi di un gruppo di collaboratori di prim'ordine. Innanzitutto il vicario generale, Antonio Saracco, cittadino veneziano, dottore nei decreti e giurista reputato, che da arciprete della cattedrale divenne vescovo di Milopotamos nel 1476 e arcivescovo di Corinto nel 1477, e lo affiancò nel corso dell'intero, lungo, episcopato. I giureconsulti Antonio Siculo, Giorgio Venier da Pirano, e Giacomo Perleoni tennero in modo meno continuativo i ruoli di avvocati della curia patriarcale, ma ne marcarono fortemente l'attività. Infine, il cancelliere Filippo Morandi da Rimini, letterato e umanista di qualche rilievo, che rimase in curia per una ventina d'anni, nonché il nipote del G., Giovanni Memo, figlio della sorella Maria, anch'egli monaco di S. Michele, che per molti anni amministrò la mensa patriarcale per conto dello zio.
Il G. non si allontanò mai dalla sede patriarcale, se non forse per una visita in Dalmazia, e negli ultimi mesi di vita. Ciò nonostante, l'attività della curia, testimoniata dalla nutrita serie di registri Actorum, Diversorum e Sententiarum, fu dominata dalla personalità del Saracco, costantemente presente alla discussione di tutte le cause e alla redazione degli atti: il suo operato diede indubbiamente un'impronta assai particolare all'attività di un organismo che nelle altre diocesi era spesso trascurato da pastori non residenti, che talora non sorvegliavano neppure da lontano il funzionamento del cuore burocratico delle diocesi. Dietro al Saracco si intuisce invece la presenza costante del patriarca, spesso presente ai lavori della curia, certo al corrente di tutto quanto accadeva, e sollecito nell'indicare le linee direttrici alle quali ispirarsi.
Certamente gli oltre 25 anni di governo della diocesi furono caratterizzati da un'azione volta a rafforzare l'autorità episcopale su tutto il clero. Anche se non sono rimaste testimonianze scritte di visite pastorali e sinodi diocesani, è evidente per esempio che il G. operò con continuità per recuperare la potestà giurisdizionale sul clero secolare. Si preoccupò per esempio di ribadire e di attuare nella pratica quotidiana la facoltà di supervisione patriarcale sulle elezioni dei pievani di Venezia effettuate dal clero collegiato e dai parrocchiani, ma anche di operare con forza contro coloro che si facevano scudo dello stato ecclesiastico per ottenere l'immunità dai tribunali laici, come pure di tutti i chierici veneziani e stranieri che si pretendevano esenti dalla sua giurisdizione in virtù di bolle papali, e si sottraevano così al suo controllo. Erano però soprattutto i monasteri maschili e femminili a rivendicare l'esenzione dall'autorità del vescovo, come accadeva in tutta la Cristianità, e anche in questa direzione il G. operò con decisione, emanando decreti contro coloro che non rispettavano l'obbligo della residenza nelle comunità, e riformando alcune case in cui la regola non era più osservata. Ancora, come delegato apostolico, insieme con l'arcivescovo di Spalato e generale dei francescani Zanetto da Udine, introdusse l'Osservanza a S. Maria dei Servi, inducendo i frati riluttanti ad abbandonare il convento.
In tutte queste operazioni il G. godette del costante appoggio del governo veneziano, interessato al rafforzamento della giurisdizione patriarcale come presupposto indispensabile per costituire un centro di potere ecclesiastico in grado di contenere l'allargamento delle competenze della Curia romana in tutti i settori della vita della Chiesa locale. Ma la posizione del G. nei confronti del potere politico non fu mai ispirata da assoluta acquiescenza ai voleri delle magistrature secolari. In realtà il rafforzamento dei poteri episcopali da lui tenacemente perseguito ebbe un'importante campo di esplicazione proprio nei rapporti tra curia vescovile e tribunali laici, uno dei punti più delicati del rapporto tra Chiesa e potere politico. Scorrendo i verbali della curia patriarcale si ricava l'impressione di una giurisdizione episcopale che agiva ad ampio raggio, le cui competenze si estendevano dai settori più immediatamente pertinenti le questioni spirituali, come le cause matrimoniali e le dispense, fino alle cause assai più vicine alle competenze dei tribunali laici, come quelle concernenti capitani di navi e finanziatori, mercanti e artigiani, capitalisti e stampatori. Uomini di tutte le nazionalità che si trovavano a Venezia o in giro per l'Europa e il Mediterraneo ricorrevano al tribunale vescovile per regolare i loro dissidi quando nella questione erano coinvolti dei chierici, talché il panorama offerto dai registri della curia risulta perfettamente complementare di quello che emerge da quelli di magistrature laiche quali i "giudici di petizion". Anche nei casi di conflitti di competenza con le magistrature civili il G. dimostrò una notevole fermezza, perseguendo nei confronti dell'avogaria di Comun, come pure delle magistrature minori, la sua volontà di mantenere ben ferme le prerogative dell'episcopato di giudicare gli ecclesiastici che si fossero macchiati di reati.
In conclusione, nel suo lungo episcopato il G. si dimostrò pastore zelante e attento custode delle prerogative vescovili all'interno della Chiesa locale così come nei confronti dei laici e delle magistrature statali. Nel contesto quattrocentesco, caratterizzato da un corpo episcopale quasi mai residente e comunque assenteista dal governo delle diocesi, questo atteggiamento fu abbastanza eccezionale, anche se è vero che tra i vescovi usciti dai ranghi del patriziato veneziano non mancano casi simili al suo.
Benché il G. si fosse dimostrato un attento difensore delle prerogative vescovili nei confronti del potere secolare, egli si rivelò al tempo stesso un prezioso alleato del governo veneziano nel corso dello scontro più duro che contrappose Venezia allo Stato della Chiesa nel corso del '400, quello della guerra di Ferrara (1481-82). All'inizio confederato con Venezia contro Ercole I d'Este, Sisto IV si staccò ben presto dall'ingombrante alleato che stava prendendo il sopravvento nella guerra ma anche nell'alleanza, unendosi, nel giugno 1482, ai suoi nemici. Oltre il suo esercito, il papa adoperò contro la Repubblica anche le censure spirituali, fulminandola con l'interdetto del 24 maggio 1483. Il Senato proibì la pubblicazione del breve papale in città e nei domini da terra e da mar, adottando una strategia che avrebbe seguito anche in seguito, in occasione degli altri due episodi di scontro frontale vissuti dalla Serenissima contro Roma, quello del 1509 in occasione della Lega di Cambrai, e quello notissimo dell'interdetto del 1606. Fu proprio il G. lo strumento più efficace della reazione veneziana, giacché si rifiutò di ricevere il breve in patriarcato, offrendo così la possibilità al governo di respingerlo in blocco. Ma il G., o almeno il gruppo dei suoi più stretti collaboratori, furono protagonisti anche della seconda fase dello scontro, giacché proprio Antonio Saracco e Giacomo Perleoni costituirono il nucleo più importante del gruppo di giuristi cui venne affidato dal Consiglio dei dieci il compito di redigere un testo contro l'interdetto di Sisto IV, che faceva appello a un concilio generale e che venne affisso da un corriere sulle porte di S. Pietro.
La posizione assunta dal G. durante il conflitto ferrarese non gli impedì però, una volta conclusa la pace e ritirate le censure spirituali, di costituire una pedina importante nei delicati equilibri sui quali si ressero i rapporti tra Venezia e Roma durante il pontificato del successore di Sisto IV, Innocenzo VIII. L'interdetto fu tolto ufficialmente solo nel febbraio 1485, ma le relazioni diplomatiche andarono gradualmente migliorando, tanto che la nomina di Nicolò Franco a nunzio permanente, avvenuta nel novembre successivo, portò alla fine del 1486 alla firma di un'alleanza che prevedeva l'intervento veneziano in favore del pontefice, minacciato dall'esercito inviato dal re di Napoli, Ferdinando I d'Aragona, per vendicare l'appoggio dato da Innocenzo VIII alla congiura dei baroni.
Rimanevano però molti i motivi di contrasto tra Innocenzo VIII e il governo veneziano, a cominciare dal rifiuto di quest'ultimo di concedere al nunzio di riscuotere sussidi dagli ecclesiastici del dominio per finanziare l'impegno militare contro l'Aragonese, per continuare poi con la questione mai risolta della nomina dei vescovi. Lo stesso Nicolò Franco, per esempio, riuscì solo con molta fatica a ottenere l'accordo del Senato alla sua nomina a vescovo di Treviso. Ma il caso più clamoroso fu quello di Ermolao (Almorò) Barbaro che nel 1491, quando era ambasciatore veneziano in Curia, si fece chierico e ottenne dal papa il patriarcato d'Aquileia scatenando una durissima reazione da parte del governo. Per di più, alla morte del cardinale Pietro Foscari nel 1485, il papa non aveva voluto integrare il Sacro Collegio con un membro veneziano, nonostante le pressioni esercitate dagli ambasciatori e dal Senato che fin dall'autunno del 1486 avevano cominciato ad avanzare la candidatura del patriarca di Costantinopoli Girolamo Lando. Innocenzo VIII, in realtà, non effettuò alcuna elezione cardinalizia fino al 1489, bloccato com'era dall'opposizione del S. Collegio, e quando infine vi giunse, malgrado l'azione a tutto campo condotta dal Senato presso il pontefice in favore del Lando, si dimostrò irrimediabilmente ostile nei confronti di questo. Fu così che il 9 marzo 1489 Innocenzo VIII promosse al cardinalato, insieme con altri sette esponenti di grandi famiglie italiane, spagnole e francesi, il G., ormai ultraottantenne e malfermo in salute. La sua nomina venne però ritenuta in pectore dal papa, che morì il 25 luglio 1492 senza averla pubblicata. In gran fretta il Senato spedì a Roma tutte le lettere e i brevi che dovevano attestare al Collegio cardinalizio i titoli del G. e rendere possibile la sua partecipazione al conclave. Prima ancora che il papa morisse, il patriarca, affidata la diocesi nelle mani del Saracco e del nipote Andrea Memo, partì con un nutrito seguito per Roma dove fece il suo ingresso il 3 agosto. Il giorno seguente venne accolto dai cardinali e poté quindi partecipare al conclave che il 12 agosto elesse Rodrigo Borgia al soglio papale. Sulla via del ritorno si ammalò di dissenteria e il 13 o il 14 sett. 1492 morì a Terni, confortato dalla presenza del diletto discepolo Pietro Dolfin.
Sulla nomina cardinalizia del G., sul suo ruolo nel conclave e perfino sulla sua morte circolarono da subito molte interpretazioni malevole, soprattutto negli ambienti curiali. Secondo queste voci, il vecchio camaldolese sarebbe infatti stato l'unico candidato alla porpora gradito ai cardinali veneziani, tutti nipoti di Paolo II, che ritenevano che non avrebbe mai potuto neppure raggiungere Roma e dunque tanto meno insidiare le solide posizioni da loro acquisite nella gerarchia curiale. Proprio la sua età avanzata e la sua scialba personalità lo avrebbero inoltre reso durante il conclave facile preda di cattivi consiglieri, che lo avrebbero convinto a dare il suo voto al Borgia contro il volere di Venezia, che inclinava per Giuliano Della Rovere. Per questo la sua morte improvvisa durante il viaggio sarebbe stata causata dal veleno propinatogli da due cancellieri che gli erano stati messi accanto dal Senato.
In realtà non esiste alcuna prova concreta sulla circonvenzione del G. in conclave né sull'avvelenamento. Al contrario, è certo che il Senato fece di tutto per facilitare il trasporto in patria del corpo del cardinale che venne accolto a Venezia con tutti gli onori dal doge in persona e tumulato nella cattedrale. In secondo luogo, la commossa testimonianza sui suoi ultimi giorni fornitaci da Pietro Dolfin (Cappelletti, pp. 446-452), già allora generale dei camaldolesi, sembra escludere ogni sospetto sul suo comportamento in conclave e sulla sua morte.
Se è dunque indubbio che il G. non fu personalità di grande rilievo dal punto di vista culturale, soprattutto rispetto ai molti membri dell'Ordine camaldolese e pure ai molti altri ecclesiastici veneziani dell'epoca, è importante però non confondere la semplicità d'animo che sicuramente lo caratterizzò con la mancanza di spessore spirituale e di capacità pastorali. Il rigoglio conosciuto sotto la sua guida dal cenobio muranese, e la forte caratterizzazione del suo lungo episcopato, ne sono la migliore prova.
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