Madhva Filosofo e teologo indiano (n. Pājakakṣetra, Karṇāṭaka, 1238 ca
m. 1317). È autore di 37 opere, fra cui un commento alla Bhagavadgītā, commenti al Brahmasūtra e a varie Upaniṣad, un commento al Mahābhārata, uno al Rāmāyaṇa e alcuni trattati di teologia, fra cui il Viṣṇutattvanirṇaya («Discernimento circa la realtà di Viṣṇu»), e di ritualistica. All’interno del Vedānta, M. prende le distanze dalle posizioni non dualiste di Śaṅkara e afferma che invece l’assoluto brahman va concepito come un Dio personale (chiamato da M. Viṣṇu) e non come un’entità astratta. Anzi, nei termini di M., esistono cinque differenze radicali: fra Dio e le anime individuali, fra le varie anime individuali, fra Dio e la sostanze inanimate, fra le anime individuali e le sostanze inanimate, fra le varie sostanze inanimate. La sua interpretazione del Vedānta è perciò detta Dvaita Vedānta (Vedānta dualistico, espressione che però non si trova negli scritti di M. stesso), in riferimento alla diversità irriducibile e non illusoria di Dio, mondo e anime individuali, per dimostrare la quale M. fa appello – in chiara opposizione all’Advaita Vedānta – all’esperienza comune e alla percezione sensibile come strumenti epistemici. Māyā (➔), in tale ottica, non indica più l’illusione che ci cela la realtà effettivamente non duale (advaita ➔) del brahman, bensì diviene il nome della volontà libera di Dio che si esprime nel mondo. Dio è distinto da anime individuali e sostanze materiali perché Egli solo esiste autonomamente, mentre tutto il resto esiste in modo eteronomo, dipendendo in ultima analisi da Lui. Dio è autonomo dal punto di vista del tempo (non ha inizio né fine), dello spazio (è onnipervadente) e della natura propria (a causa della pienezza delle Sue qualità). La trasposizione del brahman in termini di un Dio personale equivale infatti al riconoscimento di un Dio dotato di qualificazioni, contrapposto all’idea śaṅkariana del nirguṇa brahman (➔ guṇa), cui nessuna qualificazione poteva essere attribuita. Come ogni altro pensatore vedāntico, anche M. riconosce i testi sacri (il Veda, e al suo interno in particolar modo le Upaniṣad) come il principale strumento epistemologico e come nel Viśiṣṭādvaita Vedānta di Rāmānuja anche M. ritiene che il Veda abbia un valore descrittivo, ossia sia in grado di far conoscere la realtà così com’è. In questo, M. e Rāmānuja si oppongono alla dottrina della Mīmāṃsā (➔) secondo cui il Veda ha solo un valore prescrittivo. M. segue invece la Mīmāṃsā nell’affermare che il Veda abbia come ambito di applicazione solo il trascendente, ossia il dharma, e nel legare il valore epistemologico del Veda al suo non dipendere da un autore. Questa dottrina non contraddice l’assoluta supremazia di Dio giacché M. ritiene che il Veda sia presente da sempre e per sempre nella mente di Dio e sia da Lui enunciato a ogni nuova ciclica creazione del mondo. Tale Veda nelle sue quattro suddivisioni fondamentali è la base del cosiddetto quinto Veda, che consiste in Mahābhārata (la maggiore epica indiana, di cui è parte la Bhagavadgītā), (Mūla)rāmāyaṇa (l’altra principale epica sanscrita, che racconta le gesta di un avatāra di Viṣṇu), Purāṇa (classe di testi mitico-religiosi sanscriti) e scritture Pañcarātra. Infatti, M. ha in comune con il Viśiṣṭādvaita Vedānta di Rāmānuja anche, sul piano religioso, il riconoscimento delle scritture Pañcarātra e l’idea che l’anima individuale debba servire Dio. La totale dipendenza dell’anima individuale da Dio fa sì che la salvezza sia operata esclusivamente dalla grazia di Dio, che predestina alcuni alla salvezza e altri alla dannazione. M. conferma le proprie affermazioni con passi delle Upaniṣad, della Bhagavadgītā e di numerose altre scritture in cui dimostra un rapporto con i testi spesso fortemente innovativo rispetto alla prassi indiana, così come innovativo è l’autoproclamarsi avatāra di Dio nel suo aspetto di Vāyu (mentre comune è l’attribuzione di qualifiche divine al proprio maestro da parte dei suoi fedeli). Fra le letture innovative si distingue soprattutto il mutamento del celebre detto upaniṣadico tat tvam asi («tu [anima] sei quello [brahman]») in atat tvam asi («tu non sei quello»), lettura giustificabile separando in modo diverso tat dalla parola che lo precede (nei manoscritti indiani non è generalmente indicata la fine di una parola), ma che si oppone all’intera tradizione di commenti alle Upaniṣad. Nel suo commento al Mahābhārata M. contesta invece il testo tradito e propone esplicitamente emendazioni. Infine, contrariamente all’uso indiano di reinterpretare testi sacri, sūtra, ecc. (che sono perciò stati usati per difendere posizioni opposte da, per es., Śaṅkara o Rāmānuja), M. utilizza a sostegno delle proprie tesi citazioni puntuali da numerosissime fonti scritturali, di cui però spesso non abbiamo alcuna altra attestazione o che non risultano rintracciabili nelle opere (soprattutto Purāṇa) da cui dovrebbero essere tratte.