Macchine molecolari
In natura esistono circa un centinaio di specie atomiche diverse capaci di combinarsi tra loro per formare molecole. Nella maggior parte dei casi, le molecole sono stabili perché i legami covalenti che tengono assieme gli atomi sono forti.
Le proprietà delle molecole sono determinate, oltre che dal numero e dal tipo di atomi che le costituiscono, anche dal modo in cui gli atomi sono legati tra loro nella struttura molecolare. Per esempio, 6 atomi di carbonio e 6 di idrogeno possono combinarsi in 217 modi diversi e ciò significa che all'unica formula C6H6 corrispondono ben 217 molecole differenti, la più nota delle quali è il benzene. È quindi facile capire che, con il centinaio di specie atomiche a disposizione, è possibile ottenere un numero enorme di combinazioni, come dimostrano i milioni di molecole presenti in natura e altri milioni di nuove molecole preparate dai chimici in laboratorio (molecole artificiali).
Le molecole sono oggetti che hanno dimensioni dell'ordine del nanometro (nm), cioè del miliardesimo di metro, e sono le più piccole entità materiali caratterizzate da proprietà specifiche e da una forma propria. Alcuni secoli fa, il grande letterato Johann Wolfgang Goethe pensava che la scienza dovesse operare su scala umana e si opponeva all'uso del microscopio affermando che ciò che non si può vedere a occhio nudo non deve essere cercato, perché evidentemente è nascosto all'occhio umano per qualche buona ragione. Questa affermazione è contraria allo spirito della scienza moderna che, particolarmente negli ultimi anni, ha indirizzato le sue indagini sempre più verso il piccolo, non solo per conoscere meglio la natura, ma anche per sfruttare, da un punto di vista tecnologico, i vantaggi che da questa conoscenza possono derivare. Attualmente è possibile vedere, tramite immagini ottenute con dispositivi elettronici, e persino toccare (con punte ultrasottili) singole molecole, tanto da riuscire a utilizzarle come mezzo per una nanoscrittura.
La chimica è stata ed è uno strumento prezioso per comprendere il comportamento della materia, sia attraverso la caratterizzazione delle proprietà collettive di insiemi numerosi di molecole (ciò che i chimici fanno ormai da circa due secoli), sia attraverso lo studio delle proprietà delle singole molecole. Essa ha fornito un contributo fondamentale nel cammino che ha portato la scienza moderna a poter osservare così da vicino i singoli mattoni che compongono la materia.
Tuttavia, vi sono molti aspetti dei fenomeni naturali che non possono essere investigati a livello atomico-molecolare e, quindi, con l'approccio della chimica tradizionale (la chimica molecolare, appunto). Scendendo dalla scala del mondo macroscopico a quella molecolare, infatti, ci si accorge che le proprietà dei sistemi biologici, e in particolare le loro funzioni, non sono collegate a singole molecole isolate, ma alla presenza di aggregati formati da un certo numero di molecole, opportunamente assemblate e integrate, tanto da costituire veri e propri congegni di dimensioni dell'ordine delle decine di nanometri.
Per esempio, per capire come avviene la fotosintesi, il processo che permette a un albero di utilizzare la luce solare per nutrirsi e produrre frutti, bisogna indagare il livello ultramicroscopico, come in una vertiginosa zoomata, dall'albero (dimensioni dell'ordine del metro) alle foglie (10 cm × 0,3 mm), alle cellule (50 μm), ai cloroplasti (5 μm), ai grani (200 nm), fino ad arrivare alle molecole. Giunti a questo livello, si nota che il processo di conversione dell'energia solare in energia chimica è compiuto da un congegno, chiamato centro di reazione, costituito da un piccolo numero di molecole. Questo congegno è capace di utilizzare l'energia di un fotone per provocare il passaggio di un elettrone da una molecola a un'altra dell'aggregato, in modo da causare una separazione di carica attraverso una membrana con la conseguente formazione di una specie ossidante e di una riducente.
La disciplina che studia gli aggregati molecolari è chiamata chimica supramolecolare, i cui esordi risalgono agli anni Settanta del secolo scorso, ed è attualmente un settore della scienza di grande interesse. Si può affermare, infatti, che alcuni tra i più importanti progressi della biologia moderna sono legati alla determinazione della struttura e della reattività dei sistemi supramolecolari naturali. Inoltre, i sistemi supramolecolari artificiali aprono nuove prospettive in vari settori della tecnologia.
I processi che portano alla formazione dei sistemi supramolecolari sono fondamentalmente di due tipi: il primo, largamente dominante in natura, è basato sulle interazioni deboli che si instaurano spontaneamente fra molecole, così che l'aggregazione avviene senza che siano distrutti o formati legami covalenti; il secondo, invece, più usato dai chimici in laboratorio, sfrutta anche reazioni in grado di collegare unità molecolari distinte, con formazione di legami covalenti.
In maniera generica, ma suggestiva, si può affermare che l'associazione fra due molecole avviene quando una molecola legge gli elementi di informazione contenuti nell'altra e li trova confacenti ai propri. Si parla, allora, di riconoscimento molecolare, un fenomeno così specifico da essere paragonato all'interazione fra una serratura e la sua chiave.
Come sopra menzionato, l'associazione spontanea avviene con formazione di legami la cui forza, se confrontata con quella dei legami covalenti che tengono assieme gli atomi di una molecola, è decisamente minore. Questi legami sono di vario tipo (legami a idrogeno, forze elettrostatiche, interazioni donatore-accettore, interazioni di van der Waals, ecc.) e, proprio perché deboli, possono formarsi e rompersi facilmente. Ciò conferisce grande flessibilità alle strutture supramolecolari che ne derivano. Nel caso di sistemi complessi, la reversibilità del processo di associazione/dissociazione permette, da una parte, di correggere per successivi tentativi eventuali errori verificatisi inizialmente e, dall'altra, di esplorare nuove strutture con rilevanti conseguenze dal punto di vista evolutivo.
Il legame a idrogeno, che riveste un'importanza del tutto speciale soprattutto per quanto riguarda i sistemi supramolecolari naturali, si forma quando in una molecola c'è almeno un atomo di idrogeno legato a un atomo sufficientemente elettronegativo, come nei gruppi −NH e −OH, e in un'altra è presente un atomo di ossigeno e/o di azoto. È proprio grazie a questa complementarità strutturale che le molecole di citosina e guanina si associano e che la molecola di barbitale viene inglobata in una molecola macrociclica di forma e dimensioni appropriate (fig. 1). Questi due esempi mostrano che il riconoscimento molecolare può essere programmato attraverso codici basati sulla presenza e sulla localizzazione specifica di certi atomi o gruppi di atomi, sulla forma e su altre caratteristiche elettronico-strutturali della molecola.
In natura è presente un numero elevatissimo di molecole programmate, le cui proprietà permettono la formazione di sistemi supramolecolari e il verificarsi di processi che stanno alla base della vita e dell'evoluzione, ma non bisogna dimenticare che lo sviluppo delle conoscenze nei vari campi della chimica ha poi permesso di preparare anche una grande varietà di molecole programmate artificiali. Queste molecole, essendo capaci di associarsi in modo selettivo ad altre molecole, trovano moltissime applicazioni, soprattutto nei campi dell'analisi chimica, di quella clinica e infine ambientale, nelle quali vengono utilizzate come sensori per ioni metallici, per sostanze inquinanti e per componenti dei liquidi biologici.
Una tecnica alternativa per ottenere sistemi supramolecolari è quella di unire diverse unità molecolari mediante legami covalenti. Questa metodologia è basata su processi chimici molto specifici, che generalmente richiedono condizioni sperimentali, come, per esempio, alte temperature, non disponibili in natura. Grazie ai recenti progressi della sintesi chimica, è diventato possibile costruire un gran numero di sistemi supramolecolari di questo tipo, due esempi dei quali sono mostrati nella Tav. I.1.
I sistemi supramolecolari basati sulla formazione di legami covalenti sono stabili, cioè non possono dissociarsi e riassociarsi e, quindi, non presentano la flessibilità che è tipica dei sistemi supramolecolari ottenuti mediante l'associazione spontanea basata su interazioni deboli. Come si vedrà in seguito, le caratteristiche opposte e incompatibili di stabilità o di flessibilità che contraddistinguono i due tipi di sistemi portano a differenti funzioni e applicazioni.
Ogni molecola, oltre a possedere certe proprietà intrinseche, considerate come elementi di informazione, contiene implicitamente programmi più o meno semplici che possono diventare operativi quando essa entra a far parte di sistemi supramolecolari. Una volta associate in una struttura supramolecolare, infatti, le molecole componenti possono dare luogo a interazioni che non avrebbero potuto stabilirsi se le molecole fossero rimaste separate. Grazie a tali interazioni un sistema supramolecolare ha un contenuto di informazione diverso da quello dei suoi componenti, che si traduce, almeno potenzialmente, nella capacità di svolgere funzioni non accessibili ai componenti separati.
Per chiarire questo concetto si può considerare il caso semplice di tre molecole, che indicheremo con i simboli X, Y e Z. In virtù di specifiche proprietà complementari (siti di reciproco riconoscimento), le tre molecole si possono riconoscere e assemblare, dando origine alla struttura supramolecolare ordinata X−Y−Z, in cui i trattini indicano che i tre componenti molecolari sono in qualche modo legati (non importa se tramite legami forti o deboli). A questo punto, se i tre componenti molecolari sono stati scelti in maniera appropriata, l'assorbimento di luce da parte di X porta al trasferimento di un elettrone prima da X a Y e poi da Y a Z, con la conseguente formazione della struttura X+−Y−Z−, dove una carica negativa è separata da una carica positiva. Questo fenomeno, cioè la separazione di carica causata dall'assorbimento di un fotone, non è ovviamente possibile finché i tre componenti molecolari sono separati, perché nasce proprio dall'integrazione delle proprietà dei componenti stessi una volta che essi hanno costituito la struttura supramolecolare X−Y−Z. In altre parole, nei sistemi supramolecolari possono emergere proprietà (nell'esempio riportato, la separazione di carica indotta dalla luce) che non esistono neanche concettualmente a livello molecolare. Questo è un aspetto del tutto generale: al crescere della complessità di un sistema, l'intero ha un contenuto di informazione (e, quindi, possibilità operative) maggiore della somma delle sue parti. Si deve però notare che le proprietà emergenti caratteristiche del sistema complesso, pur non essendo ottenibili quando i componenti sono separati, sono però latenti (cioè potenzialmente contenute) nel programma di interazione dei componenti stessi.
Per lungo tempo il ruolo della chimica è stato essenzialmente quello di scoprire le molecole che costituiscono le sostanze naturali, stabilire la loro composizione e la loro struttura, definire le loro proprietà e studiare i fenomeni di combinazione. La situazione, però, è andata modificandosi dal momento in cui, con il progredire stesso della conoscenza della natura, ci si è accorti che è possibile costruire molecole e strutture supramolecolari che non esistono in natura e che, quindi, vengono chiamate artificiali. Così, accanto alla figura del chimico esploratore della natura è nata quella del chimico inventore, del chimico ingegnere a livello molecolare, che in pochi anni è riuscito a creare in laboratorio ben 15 milioni di molecole nuove. La chimica, quindi, è un libro non soltanto da leggere (molecole e processi naturali), ma anche da scrivere (molecole e processi artificiali) e se la parte non ancora letta è molto vasta e complicata, quella ancora da scrivere è praticamente infinita come estensione e come complessità.
è ormai possibile preparare molecole e sistemi supramolecolari di qualsiasi forma e dimensione; si possono ottenere, per esempio, molecole a forma di ponte, di pallone e di calice, e specie supramolecolari a forma di albero e di catena (Tav. I.2). Accade, dunque, anche in chimica quanto mirabilmente descritto da una celebre frase di Leonardo da Vinci: "Dove la natura finisce di produrre le sue specie, comincia l'uomo, in armonia con le leggi della natura, a creare una infinità di specie". Il risultato più importante, come si vedrà in seguito, è la possibilità di costruire molecole e sistemi supramolecolari aventi proprietà che non esistono in natura e che sono di estremo interesse per lo sviluppo della nanotecnologia. Inoltre, presentano interessanti e potenziali prospettive applicative in diversi settori.
Un problema sempre più stringente della tecnologia è quello della miniaturizzazione dei dispositivi. Basti pensare, per esempio, ai calcolatori elettronici, nei quali la riduzione delle dimensioni dei componenti permette la costruzione di apparecchi sempre più piccoli e allo stesso tempo sempre più potenti. Nella corsa verso la miniaturizzazione finora si è seguito l'approccio dall'alto (top down), lavorando con tecniche speciali pezzi macroscopici di materiali. Questo approccio soffre di limitazioni intrinseche: con le tecniche litografiche, per esempio, non si può scendere a dimensioni inferiori a quelle della lunghezza d'onda della luce utilizzata per lavorare il materiale.
D'altra parte, poiché le esigenze tecnologiche richiedono, e richiederanno sempre più in futuro, una miniaturizzazione a livello molecolare, occorre trovare strade alternative che ne permettano lo sviluppo. Un modo decisamente promettente per attuare una tecnologia a questo livello, detta appunto nanotecnologia, sembra essere quello che sfrutta l'approccio dal basso (bottom up), in base al quale i componenti ultraminiaturizzati vengono ottenuti partendo dalle molecole.
Con l'aiuto della chimica supramolecolare, i chimici si propongono di costruire dispositivi e macchine a livello molecolare capaci di svolgere funzioni utili. Per capire che cosa significa dispositivo o macchina a livello molecolare e per comprendere la logica che i chimici intendono seguire per la loro costruzione, può essere utile un paragone molto semplice. Per ottenere un'apparecchiatura del mondo macroscopico (per es., un asciugacapelli), l'ingegnere costruisce dei componenti (un interruttore, un ventilatore, una resistenza), ciascuno dei quali è in grado di svolgere un'azione specifica e successivamente li assembla in modo opportuno. Collegando i componenti secondo uno schema appropriato, si ottiene un'apparecchiatura che, alimentata da energia, compie una funzione utile.
Il chimico procede allo stesso modo, con la differenza, però, che il suo lavoro ingegneristico avviene a livello molecolare. Stabilita la funzione che il dispositivo deve compiere, inizia la costruzione dei componenti necessari, costituiti da 'molecole programmate', da molecole, cioè, capaci di svolgere compiti specifici; poi assembla questi componenti molecolari in strutture supramolecolari organizzate, in modo che l'insieme coordinato delle azioni dei componenti possa dar luogo alla funzione richiesta.
La chimica supramolecolare ha già permesso di ottenere una serie di dispositivi a livello molecolare in grado di imitare le funzioni compiute dai componenti delle odierne apparecchiature macroscopiche: fili capaci di condurre elettroni o energia, interruttori capaci di permettere o inibire il passaggio di questi flussi, sistemi presa/spina e prolunga, rettificatori di corrente, antenne per la raccolta dell'energia luminosa, elementi di memoria, porte logiche, e così via.
Le macchine molecolari sono sistemi supramolecolari costituiti da un numero discreto di componenti, capaci di compiere movimenti utili allo svolgimento di certe funzioni, sotto l'azione di opportuni stimoli esterni.
Per le macchine molecolari, come per quelle del mondo macroscopico, possono essere individuati alcuni aspetti caratteristici quali: (a) il tipo di energia usato per far funzionare la macchina; (b) il tipo di movimento effettuato; (c) il modo con cui i movimenti possono essere controllati; (d) i segnali che evidenziano i movimenti stessi; (e) la necessità di operare in maniera ciclica e ripetitiva; (f) il tempo impiegato per completare un ciclo; (g) la funzione che può derivare dai movimenti compiuti.
Nelle macchine a livello molecolare, i movimenti meccanici implicano sostanziali cambiamenti strutturali e ciò può essere ottenuto soltanto se almeno uno dei componenti molecolari della macchina è coinvolto in una reazione chimica. Occorre fornire, quindi, sotto una qualche forma, l'energia necessaria per far avvenire la reazione chimica alla base del movimento, che può essere di vario tipo (per es., rotatorio o lineare), e il cui controllo può essere effettuato con reazioni chimiche antagoniste. I segnali in grado di evidenziare il funzionamento della macchina provengono da cambiamenti di proprietà del sistema (per es., variazioni di colore) che accompagnano i movimenti, i quali, a loro volta, per permettere alla macchina di lavorare in modo ciclico, devono coinvolgere reazioni reversibili; inoltre, la scala dei tempi in cui si completa un ciclo può andare dai picosecondi (10−12 s) alle ore, a seconda della natura chimica del sistema. Infine, le funzioni ottenibili mediante la macchina possono essere le più varie, come verrà mostrato in seguito.
La capacità delle molecole di associarsi permette la formazione di sistemi supramolecolari naturali molto complessi (come gli enzimi) capaci di compiere le funzioni necessarie alla vita. Alcuni di questi sistemi operano mediante movimenti rotatori o traslatori, tanto da poter essere considerati delle vere e proprie macchine di dimensioni nanometriche. Anche se l'esistenza delle nanomacchine naturali è conosciuta da molto tempo, solo di recente si è cominciato ad analizzare e capire l'intimo e complesso meccanismo del loro funzionamento.
Una delle nanomacchine più studiate è certamente quella preposta alla sintesi dell'adenosintrifosfato (ATP), molecola che fornisce l'energia per le funzioni vitali, illustrata nella Tav. II.
Un altro esempio ben noto di motore naturale, che a differenza del precedente sviluppa un movimento di tipo traslatorio, è rappresentato dalla miosina. Con questo termine vengono indicate numerose classi di proteine che sono alla base di tutti i movimenti muscolari volontari e involontari. La miosina, che è costituita da una lunga coda a cui sono collegate due grosse teste, si associa con queste ultime a un'altra proteina che ha la forma di scala. La miosina si muove lungo la scala grazie all'energia fornita dall'ATP. In un muscolo che si contrae rapidamente, ciascuna unità di miosina si muove 5 volte al secondo, percorrendo una distanza di circa 10 nm.
In molte macchine del mondo macroscopico l'energia necessaria per il loro funzionamento è prodotta dalla reazione fra ossigeno e sostanze ad alto contenuto energetico (combustibili) nei motori a combustione interna. Ovviamente, questo tipo di motore, che lavora ad alte temperature ed elevate pressioni, non può essere usato per alimentare le fragili macchine molecolari. Esse, tuttavia, possono sfruttare, analogamente a quelle del mondo macroscopico, una reazione chimica, purché avvenga in condizioni blande. Questo, infatti, è ciò che avviene nelle nanomacchine biologiche, nelle quali la reazione di combustione, che genera l'energia necessaria al loro funzionamento, procede attraverso molti stadi successivi, in ciascuno dei quali è messa in gioco solo una piccola quantità di energia. Comunque, a parte questa differenza tecnica, rimane il fatto che sia le macchine macroscopiche sia quelle biologiche funzionano consumando un combustibile. Questo, inevitabilmente, comporta la formazione di prodotti di scarto, la cui eliminazione è la condizione necessaria per preservare il buon funzionamento della macchina.
L'idea di costruire macchine molecolari artificiali è stata avanzata nel 1959 da Richard P. Feynman, premio Nobel per la fisica nel 1965. Tuttavia, a quel tempo la comunità scientifica non era pronta per questa avventura e si sono dovuti aspettare vent'anni per avere i primi concreti tentativi di progettazione e costruzione di nanomacchine. Poiché la loro realizzazione può avvenire soltanto con l'approccio chimico discusso in precedenza e poiché si è subito capito che è impossibile imitare la natura, a causa della sua intrinseca complessità, i progetti realizzati finora sfruttano l'uso del minor numero possibile di componenti molecolari.
Per la costruzione delle nanomacchine artificiali la fase della progettazione è, ovviamente, la più delicata e non può prescindere dalle caratteristiche descritte all'inizio. I problemi collegati ad alcune di queste proprietà, e precisamente quelli relativi al controllo della macchina, ai segnali per verificarne il funzionamento, alla necessità di avere un comportamento ciclico e alla verifica dei tempi di lavoro, possono essere affrontati abbastanza facilmente dal chimico; molto più critici, invece, sono gli aspetti che riguardano l'energia, i movimenti e le funzioni.
Uno dei primi esempi di macchina molecolare artificiale, basata su un solo componente e su una reazione chimica molto semplice, è illustrato nella fig. 3. Si tratta di un sistema costituito da due molecole ad anello collegate a un'unità centrale che può cambiare struttura per assorbimento di luce di appropriata lunghezza d'onda. Quando una soluzione contenente questo sistema viene illuminata, il cambiamento di struttura dell'unità centrale causa l'avvicinamento dei due anelli laterali, che così possono racchiudere uno ione di dimensioni opportune. Utilizzando una luce di un'altra lunghezza d'onda, si può ottenere il processo inverso con conseguente rilascio dello ione. Questa azione meccanica è paragonabile a quella di una pinza di dimensioni nanometriche che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe portare alla costruzione di sistemi capaci di ripulire un organismo da sostanze dannose.
Oggetto di intensi studi sono anche le grandi molecole aventi struttura ramificata denominate dendrimeri, nelle quali la parte più esterna delle ramificazioni è formata da unità simili all'unità centrale dell'esempio precedente (fig. 4). Sotto l'azione della luce, il cambiamento di struttura delle unità periferiche provoca, almeno parzialmente, la chiusura/apertura del guscio esterno della molecola, così che questi sistemi possono essere visti come scatole di dimensioni nanometriche utilizzabili, per esempio, per il rilascio controllato di piccole molecole racchiuse nelle cavità della struttura dendrimerica.
La maggior parte delle attuali ricerche nel campo delle macchine molecolari artificiali è però concentrata su sistemi supramolecolari chiamati pseudorotassani, rotassani e catenani, con i quali è possibile ottenere semplici movimenti lineari o rotatori. Di seguito sono illustrati alcuni esempi di nanomacchine basate su tali sistemi, scelti anche per mostrare come sia possibile utilizzare energia luminosa, chimica o elettrica per indurre la reazione responsabile del movimento.
Uno pseudorotassano (fig. 5A) è un sistema supramolecolare formato da una molecola ad anello infilata in un componente lineare, mentre un rotassano può essere immaginato come formato da uno pseudorotassano in cui, all'estremità del componente lineare, sono stati aggiunti due gruppi ingombranti per impedire lo sfilamento dell'anello (figg. 5B, 5C). Un catenano, infine, è un sistema supramolecolare formato da due molecole ad anello incatenate una all'altra (figg. 5D, 5E). In sistemi di questo genere, se accuratamente progettati, è possibile, mediante l'uso di opportuni stimoli energetici, mettere in atto movimenti meccanici come quelli mostrati con le frecce nella fig. 5. Al fine di facilitare il controllo dei movimenti di questo genere è opportuno che siano verificati quattro requisiti fondamentali:
(a) il sistema deve avere solo due situazioni strutturalmente stabili (per es., per il sistema della fig. 5A le due situazioni corrispondono ad avere i componenti associati o separati);
(b) una delle due strutture deve essere più stabile dell'altra, così da avere una situazione iniziale in cui è presente una sola struttura (per es., per il sistema della fig.5A la situazione più stabile è generalmente quella in cui i due componenti sono associati);
(c) con uno stimolo esterno deve essere possibile destabilizzare la struttura iniziale e costringere quindi il sistema a riorganizzarsi nell'altra struttura;
(d) con un secondo stimolo esterno, che a volte è una semplice conseguenza del primo, deve essere possibile annullare l'effetto destabilizzante e ritornare alla struttura originaria.
Sistema pistone/cilindro azionato dalla luce. - Il movimento di sfilamento/infilamento dei due componenti molecolari di uno pseudorotassano (fig. 5A) ricorda quello di un pistone in un cilindro. Nella fig. 6 è illustrato un esempio reale di sistema in grado di comportarsi in questo modo. Il componente lineare A possiede l'unità A1 che ha la tendenza ad accettare elettroni, mentre il componente ciclico B possiede due unità B1 che hanno tendenza a donare elettroni. In virtù di questa complementarità nelle proprietà chimiche, i due componenti, quando sono messi nella stessa soluzione, si associano spontaneamente dando origine alla struttura di tipo pseudorotassano. Si può notare che il componente lineare contiene anche un'altra unità, il complesso metallico A2, che non gioca alcun ruolo nell'associazione, ma costituisce il motore a luce del sistema. Infatti, quando il sistema viene illuminato con luce di opportuna lunghezza d'onda, l'assorbimento di un fotone da parte dell'unità A2 causa il trasferimento di un elettrone da A2 (che si ossida) ad A1 (che si riduce). L'unità A1 perde così la sua proprietà di accettare elettroni e non è più in grado di interagire con le unità elettrondonatrici B1 del componente ciclico.
In altre parole, l'eccitazione luminosa distrugge l'interazione che tiene associati i due componenti, inducendo il movimento di sfilamento. Si deve però notare che tale processo, essendo relativamente lento, può avvenire solo se nella soluzione è presente una sostanza riducente (Red) che cede un elettrone all'unità A2, non appena questa ha trasferito un elettrone all'unità A1. In caso contrario, l'elettrone acquistato dall'unità A1 tornerebbe molto velocemente sull'unità A2, con immediato ripristino dell'interazione donatore-accettore che mantiene associati i due componenti. Il componente lineare può essere infilato nuovamente in quello ciclico aggiungendo alla soluzione un ossidante (Ox, in molti casi, semplicemente ossigeno) che, togliendo ad A1 l'elettrone acquistato nel processo di riduzione, ripristina le sue proprietà elettronaccettrici.
È importante sottolineare che, in questo sistema, il movimento meccanico è indotto dalla luce, ma sono anche necessarie due sostanze chimiche, Red e Ox, per far sì che avvenga il ciclo completo di sfilamento/infilamento, con inevitabile formazione di prodotti di scarto. Recentemente sono stati costruiti sistemi pistone/cilindro il cui funzionamento, essendo esclusivamente guidato da impulsi luminosi, non comporta la formazione di prodotti di scarto.
Una navetta azionata da energia chimica. - Il movimento dell'anello di un rotassano lungo il filo (fig. 5C) corrisponde, a livello molecolare, al movimento di una navetta lungo un binario. Un esempio di questo tipo è rappresentato dal rotassano della fig. 7, formato dall'anello C e dal componente lineare D in cui sono presenti due unità distinte, D1 e D2; la prima unità è costituita da uno ione ammonio secondario, che può essere deprotonato reversibilmente ad ammina, mentre la seconda è formata dalla stessa unità elettronaccettrice vista nell'esempio illustrato nella fig. 6. Queste unità rappresentano due potenziali stazioni per l'anello C, dal momento che esso può interagire sia con D1, grazie alla formazione di legami a idrogeno, sia con D2, stabilendo un'interazione di tipo elettrondonatore-elettronaccettore. Poiché il primo tipo di interazione è più forte del secondo, l'anello si trova inizialmente sulla stazione D1. Se però alla soluzione contenente il rotassano viene aggiunta una base, l'unità ammonio D1 si deprotona, perdendo così la sua capacità di formare legami a idrogeno con l'anello. Come conseguenza, l'anello C si sposta sulla stazione D2, con la quale può stabilire l'interazione elettrondonatore-elettronaccettore. Se, a questo punto, si aggiunge alla soluzione un acido, si ricostituisce l'unità ammonio D1 e l'anello ritorna su questa stazione per la quale ha una maggiore affinità.
Il movimento alternato di C fra D1 e D2 può essere ripetuto molte volte perché la reazione acido/base che lo governa è perfettamente reversibile. L'unica limitazione deriva dal fatto che le successive aggiunte di base e di acido comportano la formazione di sostanze che, alla lunga, compromettono il funzionamento del sistema.
Recentemente sono stati anche riportati esempi di navette che operano per azione di stimoli luminosi.
Rotazione di un anello azionata da energia elettrica. - In catenani appositamente progettati, è possibile far ruotare un anello rispetto all'altro (fig. 5D) ma, per evidenziare questo movimento, occorre che almeno uno dei due anelli del catenano sia non simmetrico, come è il caso del sistema illustrato nella fig. 8. Tale catenano è costituito dall'anello E, che contiene due unità E1 uguali ed elettronaccettrici, e dall'anello F, che contiene due unità elettrondonatrici diverse, F1 e F2, con F1 più forte di F2. La struttura inizialmente stabile è quella in cui l'unità F1 è contenuta all'interno dell'anello E, così da poter interagire con entrambe le unità accettrici di quest'ultimo. Per far ruotare l'anello, è necessario destabilizzare questa struttura e ciò può essere ottenuto mediante uno stimolo elettrochimico che, togliendo un elettrone all'unità F1 (cioè ossidandola), annulla la sua proprietà di donare elettroni. La struttura più stabile diventa, allora, quella con l'unità F2 all'interno dell'anello E, situazione che viene raggiunta per rotazione di 180° dell'anello F. Se, a questo punto, sempre mediante uno stimolo elettrochimico, viene restituito l'elettrone all'unità F1, essa riacquista le sue caratteristiche elettrondonatrici e, di conseguenza, l'anello F ruota nuovamente riportando il sistema alla struttura iniziale.
Le macchine molecolari artificiali discusse negli esempi sopra riportati sono interessanti non soltanto per il loro aspetto meccanico, ma anche dal punto di vista della logica. Esse, infatti, possono esistere in due stati distinti e convertibili mediante impulsi esterni di natura luminosa, chimica o elettrica. Su questi sistemi, dunque, si possono 'scrivere' informazioni secondo una logica binaria. Lo stato in cui si trova il sistema, d'altra parte, può essere letto facilmente poiché alcune sue proprietà (per es., l'assorbimento oppure l'emissione di luce di specifica lunghezza d'onda) cambiano drasticamente nel passaggio da uno stato all'altro. È interessante notare che studi recenti hanno permesso di stabilire che anche sistemi molecolari di tutt'altro tipo sono in grado di mostrare un comportamento logico.
Alcuni scienziati vedono in queste e in altre ricerche a esse collegate i primi passi verso la costruzione di una nuova generazione di computer (computer chimici) che, basandosi su componenti di dimensioni nanometriche, potrebbero offrire prestazioni superiori a quelle dei calcolatori attualmente in uso. Questa prospettiva, forse, non stupisce più di tanto, se si pensa alle capacità di quello speciale (e forse inimitabile) computer chimico che è il cervello dell'uomo.
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