LUTERI, Giovanni (Giovanni Francesco), detto Dosso Dossi
Non c'è certezza sul luogo e sulla data di nascita del L., ma la documentazione finora scoperta suggerisce di collocare quest'ultima intorno al 1486, e comunque non oltre il giugno 1487 (Giovannini, p. 58). Il padre, Nicolò di Alberto di Costantino, era nativo di Trento, ma fin dal 1485 è documentato come residente in una località chiamata Tramuschio nel piccolo Stato di Mirandola, confinante con il Marchesato di Mantova e il Ducato estense.
Il soprannome Dosso, con cui il L. è meglio conosciuto, probabilmente viene dal nome di una piccola proprietà di famiglia nel territorio mantovano, Dosso Scaffa (ora nota come San Giovanni del Dosso), in un triangolo di territorio situato tra Mirandola, Quistello e Revere (ibid., pp. 57-60). Il fratello minore, Battista, a sua volta pittore, è chiamato nei documenti Battista del Dosso o Battista Dossi; nel Settecento la storiografia artistica locale ne inferì scorrettamente che il cognome fosse appunto Dossi, dal che nacque la forma Dosso Dossi per il fratello maggiore (Franceschini).
I primi documenti che riguardano il L. risalgono al 1512: l'11 aprile fu pagato 30 ducati per aver dipinto "un quadro grande con undici figure" per il palazzo di S. Sebastiano in Mantova, residenza del marchese Francesco II Gonzaga (Arco); il 23 giugno dello stesso anno il nome del L. è registrato in un atto legale mantovano relativo all'acquisizione di una proprietà (Giovannini, p. 58).
La commissione Gonzaga, la prima documentata del L., può considerarsi perduta e non chiarisce dunque il problema della formazione dell'artista, che rimane ancora avvolta nell'incertezza.
Non è più sostenibile l'ipotesi di Roberto Longhi (1927, in 1967, pp. 306-311), che aveva identificato la "Baccanaria d'uomini tanto buona" - appartenente allo studiolo del duca Alfonso d'Este e citata come del giovane L. da Vasari nella vita di Girolamo da Carpi (VI, p. 474) - con il cosiddetto Bagno o Baccanale del Museo di Castel Sant'Angelo di Roma, in realtà di altra mano e sicuramente più tardo, giusta le citazioni dalle Tre età dell'uomo e dagli Andrii di Tiziano (Brown); rimane nel campo delle ipotesi la proposta di riconoscere nell'opera citata da Vasari il Baccanale della National Gallery di Londra (Lucco, in Dosso Dossi, 1998, pp. 264-267). Il peso dell'attribuzione longhiana, ripresa e ampliata nell'Officina ferrarese (1934, in 1956, pp. 80 s.), ha per anni determinato la conoscenza della giovinezza del L., avendo Longhi associato all'opera romana un gruppo di dipinti secondo lui databili al secondo decennio (la Sacra Famiglia del Museum of art di Filadelfia e la Sacra Famiglia con s. Giovanni Battista, s. Barbara e il donatore del Museo di Capodimonte a Napoli, due opere attribuite ora a Sebastiano Filippi).
In realtà i documenti del 1512, che dimostrano il precoce rapporto del L. con Mantova e la famiglia Gonzaga, gettano una luce nuova sugli anni dell'educazione del giovane artista e permettono di riconsiderare con maggior credito il racconto vasariano, secondo il quale il L. fu allievo del pittore ferrarese Lorenzo Costa, che nel 1505-06 era successo ad Andrea Mantegna come pittore della corte gonzagesca.
È pur vero tuttavia che le opere attribuibili al L. in anni giovanili, anteriori al 1510, mostrano piuttosto i segni di un apprendistato avvenuto a Venezia, che dovette influire profondamente sulla sua formazione tecnica e stilistica. A questo proposito si possono citare, almeno, la Ninfa e satiro della Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze e il Buffone della Galleria Estense di Modena, entrambi molto rovinati: il tema dei due dipinti si tinge di inflessioni ironiche e di sfumature liriche che richiamano analoghi prodotti del cosiddetto giorgionismo di area veneta, peraltro negli stessi anni oggetto di attenzione da parte del collezionismo delle corti padane. Più tarda è invece la Circe della National Gallery of art di Washington: tutto qui è più maturo, dalla composizione articolata su piani degradanti, alle citazioni da Dürer e da Leonardo, dalla scelta di un soggetto classico rivisitato in chiave moderna, forse ariostesca, all'esecuzione attenta ai dettagli degli animali, delle piante e perfino dei ciottoli in primo piano.
Al 1513 risale il primo legame documentato con Ferrara. Infatti nel luglio di quell'anno il L. - che viene indicato come "di Mirandola" - e il suo collega ferrarese di poco più anziano Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, riscossero una serie di pagamenti per un polittico per l'altare maggiore della chiesa agostiniana di S. Andrea a Ferrara, commissionato da Antonio Costabili, figura di spicco della corte di Alfonso I d'Este (Franceschini).
Questo grande polittico a olio su tavola, terminato all'inizio del 1514, rappresenta, al centro, la Madonna col Bambino in trono e santi, negli scomparti laterali inferiori S. Sebastiano e S. Giorgio, in quelli superiori S. Agostino e S. Ambrogio, entrambi in ginocchio, il tutto sormontato da una cimasa col Cristo Risorto. Sebbene sia difficile distinguere le parti spettanti ai due pittori, alcune figure sembrano riferibili indiscutibilmente al L.: in particolare l'Evangelista in primo piano, la cui ardita posa a gambe accavallate richiama analoghe soluzioni di Raffaello nella Scuola di Atene, ma anche i laterali superiori e il S. Giorgio che sfruttano le prime esperienze della pittura lagunare, di Giorgione soprattutto, nella stesura a velature di colore su una preparazione grigio scuro che si ravviva per le lumeggiature e il blu delle vesti, e il delicato paesaggio campestre ai lati del gruppo mariano. Il polittico Costabili costituisce in definitiva un punto fermo per la conoscenza dello stile del L. alla metà del secondo decennio.
A esso si avvicina una serie di opere, prevalentemente di piccolo formato, databile nello stesso giro di anni, tra cui la cosiddetta Zingarella (in realtà una Madonna col Bambino) della Galleria nazionale di Parma e le Tre età dell'uomo del Metropolitan Museum of art di New York, entrambe fortemente ancorate alla cultura veneziana d'inizio secolo. Poco più tarda è la cosiddetta Circe o Melissa della Galleria Borghese di Roma: opera dall'iconografia insolita (una sintesi delle diverse interpretazioni si trova nella scheda di P. Humfrey, in Dosso Dossi, 1998, pp. 114-117), ma certamente legata alla cultura ariostesca, magica e onirica, profondamente autoironica, che dominava in quegli anni nella corte estense. Stilisticamente è un'opera ancora giovanile nell'ostentare i segni della molteplice cultura dell'autore (citazioni da Tiziano, Dürer e Raffaello) e tuttavia insieme più matura nella notevole qualità stilistica, che si coglie nella scelta dei colori contrastanti caldi e freddi, nella ricchezza materica degli abiti della maga, nell'alternarsi di zone lumeggiate e masse d'ombra scura dello straordinario lussureggiante paesaggio.
La conoscenza da parte del L. delle prime opere romane di Raffaello ha indotto la critica a ipotizzare un suo viaggio a Roma in occasione dell'elezione di papa Leone X, al seguito del duca Alfonso, ipotesi che può trovare un sostegno nei successivi buoni rapporti, già da tempo ben documentati, tra l'urbinate e i due Dossi (Campori; Ballarin, 1994-95, doc. 158).
Dal marzo 1514 il L. è registrato come residente a Ferrara nel Castello Estense (Franceschini). In questo stesso anno ricevette pagamenti per una serie di tele, perdute, destinate sia alla corte ducale estense sia a Roma (Antonelli Trenti, p. 414; Ballarin, 1994-95, doc. 99).
I documenti citati sono la prima testimonianza del rapporto privilegiato che intercorse tra il L. e i duchi di Ferrara, in particolare con Alfonso I d'Este e con il figlio Ercole II: infatti a partire da quell'anno i libri di spese documentano con esattezza il ruolo del L. all'interno della corte estense; al pittore, secondo l'uso del tempo, non si chiedevano solo decorazioni di grandi dimensioni, pale religiose e ritratti, ma anche la gestione e l'organizzazione di ogni problema rappresentativo e celebrativo della dinastia. Ne scaturiva un'attività multiforme alla quale presero parte numerosi aiutanti, ognuno con il suo ruolo e con le sue capacità. Alla corte di Ferrara soggiornarono in quegli anni artisti del calibro di Tiziano (periodicamente in città per la serie dei Baccanali per il camerino del duca Alfonso), fra Bartolomeo (Bartolomeo di Paolo) e poi Michelangelo e Giulio Romano; nel 1517 vi giunse come dono per il duca anche un cartone di Raffaello per la stanza dell'Incendio di Borgo; nutritissima era inoltre la collezione di dipinti, iniziata già da Leonello d'Este, dove non mancavano i pittori fiamminghi. Nello stesso tempo il L. aveva facile accesso alle stampe dei grandi maestri tedeschi, come Dürer e Albrecht Altdorfer.
Su questo sfondo vivace ed eterogeneo, sempre improntato alla qualità, si mosse il L., il cui rapporto con la corte non fu mai fisso, essendo egli libero di accettare proposte anche per altre città, come Modena, Pesaro e Trento.
Fin dal secondo decennio sono infatti noti numerosi viaggi del L., spesso dovuti alla necessità di procurarsi il materiale per il suo lavoro: nel 1516 è documentato un soggiorno a Venezia per "faccende del signore", ovverosia il duca Alfonso (Ballarin, 1994-95, doc. 113); altri viaggi sono segnalati negli anni successivi (1517 e 1518), ancora a Venezia (Antonelli Trenti, p. 414; Ballarin, 1994-95, doc. 131) e poi a Firenze (Venturi, 1892, p. 441). È plausibile che durante questi viaggi il L. trovasse il tempo per vedere le novità artistiche, come il cartone michelangiolesco della Battaglia di Cascina e, forse, l'Assunzione di Tiziano in S. Maria dei Frari sicuramente già in avanzata fase di esecuzione.
Agli anni 1517 e 1518 risale con ogni probabilità la Madonna col Bambino in gloria e i ss. Giorgio e Michele, in origine nella chiesa di S. Agostino a Modena e poi pervenuta nelle collezioni estensi (Modena, Galleria Estense).
Purtroppo non documentata, è un'opera di grande raffinatezza tecnica in cui spiccano il vigoroso contrapposto dell'arcangelo, col braccio destro spinto all'indietro in difficile scorcio, e il gioco dei riflessi luminosi dell'armatura del santo guerriero, che richiama analoghe soluzioni tizianesche. A questa tavola si legano altre opere di piccole dimensioni, come il Riposo durante la fuga in Egitto degli Uffizi, la Natività della Galleria Borghese e soprattutto l'Adorazione dei magi della National Gallery di Londra, segnata da quella magica ambientazione notturna, illuminata dall'enorme luna piena, che divenne la sua cifra stilistica.
Il 5 genn. 1518 il L. si trovava a Modena per firmare il contratto relativo a una pala destinata all'altare di S. Sebastiano nel duomo, su commissione della Confraternita della Mensa comune dei preti, opera che fu poi liquidata con successivi versamenti nel marzo del 1520 (Giovannini, p. 57).
Tuttora nel duomo, questa grande tavola - una Madonna col Bambino in gloria e i ss. Sebastiano Giovanni Battista e Girolamo - è ancora legata ai grandi modelli preferiti dall'artista: Tiziano per la composizione e il paesaggio, Michelangelo per la gestualità ampia e la torsione dei santi. La fase più michelangiolesca del L. si può arricchire con la serie dei cinque Sapienti dell'antichità classica, sparsa in varie collezioni, che, al di là della ancora poco chiara iconografia (si tratta forse delle Arti liberali: Zeri), sono un omaggio originale e non pedissequo agli Ignudi della Sistina.
Sempre nel 1518, e all'inizio del 1519, i documenti registrano pagamenti a suo favore per lavori di decorazione, probabilmente a fresco e di grandi dimensioni, per uno degli appartamenti ducali in via Coperta (Venturi, 1892, p. 441; Ballarin, 1994-95, docc. 130, 138), oggi scomparsi. Il 18 maggio 1519 il L. fu rimborsato per un viaggio a Venezia dove acquistò il materiale per la decorazione, perduta, di una cappella ducale, la cosiddetta "cappella [(] al boschetto" (ibid., doc. 141), per la cui esecuzione fu pagato nei mesi successivi (ibid., doc. 143). Nel novembre dello stesso anno il L. ricevette la visita di Tiziano, con il quale visitò la collezione d'arte di Isabella d'Este a Mantova (Luzio, p. 218).
Si colloca in questi anni l'esecuzione di due tele con soggetti ispirati all'Eneide di Virgilio, Enea entra nei Campi Elisi (Ottawa, National Gallery of Canada) e i Giochi siciliani in onore di Anchise (Birmingham, Barber Institute of fine arts), uniche sopravvissute di una serie che originariamente doveva formare un fregio di dieci scene sotto il soffitto del camerino del duca Alfonso, che alle pareti accoglieva già i grandi baccanali di Giovanni Bellini, di Tiziano e dello stesso Luteri.
Nell'agosto del 1520 il L. e il fratello Battista, da poco tornato da un soggiorno romano durante il quale aveva collaborato con Raffaello, furono pagati per dei quadri, perduti, destinati agli alloggi in via Coperta (Ballarin, 1994-95, doc. 158). L'anno successivo il L. fu attivo negli appartamenti estensi in Castello (ibid., docc. 163-164). Ancora nel 1522 sono registrati numerosi versamenti a favore del L., impegnato quasi esclusivamente per la decorazione del Castello, per ritratti e altri dipinti destinati alla corte estense e ancora non identificati (ibid., docc. 178-179).
Nel 1524 fu pagato per dipingere un grande tondo ligneo nel soffitto della camera del Poggiolo in via Coperta, che collegava il Castello degli Este al palazzo ducale di Ferrara (Venturi, 1892, p. 442).
Di questo tondo rimangono oggi due frammenti raffiguranti un Uomo che abbraccia una donna (Londra, National Gallery) e un Giovane con un canestro di fiori (Collezione d'arte Fondazione Longhi), entrambi molto restaurati. In origine la composizione prevedeva un finto ovulo, con una cornice grigia simile a quella di un parapetto, al di là della quale si affacciavano i busti di cinque figure sullo sfondo di un cielo azzurro, omaggio per nulla velato al Mantegna della Camera degli sposi; l'illusionismo acquistava però una nota arguta nel gesto beffardo del giovane che sembrava rovesciare il suo canestro di fiori sulla testa degli spettatori. L'importanza dei due frammenti sta però nel fatto che sono uno dei rari esempi di opere documentate del L.: le citazioni colte (oltre a Mantegna è stato suggerito un richiamo a Tullio Lombardo per le figure abbracciate), l'esecuzione attenta alla forma scultorea e la definizione dei dettagli sono dunque preziosi indicatori dello stile dell'artista all'inizio del terzo decennio.
Simili, sotto questo aspetto, sono due grandi tele di soggetto mitologico: l'Apollo della Galleria Borghese e il Giove, Mercurio e la Virtù del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Nella prima, la figura del dio musico, colto nell'attimo dell'estasi creativa e quasi dimentico dell'amata Dafne ridotta a poco più che comparsa, rispecchia le interpretazioni del mito presenti nei Dialoghi d'amore di Leone Ebreo (Gentili, p. 116); nella seconda, lo spunto comico di un dialogo di Leon Battista Alberti, ma allora attribuito a Luciano, sul disinteresse degli dei olimpici nei confronti della Virtù, è rivisitato in chiave allegorica, come paragone tra le arti, con l'esaltazione della "muta" Pittura e il conseguente ridimensionamento della "loquace" Retorica (Schlosser; Chastel).
Il 7 genn. 1527 Battista, a nome del L., firmò un contratto con la Compagnia della Concezione di Modena per dipingere una pala d'altare per la cappella della Confraternita nella cattedrale (Cremonini); un successivo documento informa che l'opera fu ufficialmente posta nel duomo il 23 nov. 1531 (Bianchi).
Il dipinto, che raffigura l'Immacolata Concezione e i quattro Padri della Chiesa (distrutto nel 1945: già Dresda, Gemäldegalerie), fu dunque eseguito a due mani: dalle fotografie si deduce che le figure in primo piano avevano un vigore plastico e una precisione di dettaglio assai diversi dalla resa più atmosferica del S. Sebastiano di Modena, mentre le pose erano più stereotipate e stilizzate, forse per la diretta influenza del Banchetto di Cupido e Psiche dipinto da Giulio Romano in palazzo Te, da cui discende anche lo sfondo paesistico con un porto marino in lontananza.
La stretta prossimità del L. alla maniera di Giulio, che era giunto a Mantova nel 1524, e più in generale all'arte centroitaliana si riscontra anche nel S. Sebastiano ora nella Pinacoteca di Brera (già a Cremona, Ss. Annunziata), nella pala oggi conservata nella Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini a Roma, raffigurante i Ss. Giovanni Evangelista e Bartolomeo con Ponchino Della Sale e un altro uomo, dipinta per un altare del duomo di Ferrara (1526-27: Baruffaldi, pp. 267-277), e nell'Allegoria della Musica nel Museo della Fondazione Horne di Firenze. Di questi anni, ma di impianto diverso, deve essere anche la tela, verosimilmente commissionata dall'ospedale di S. Anna di Ferrara, con i Ss. Cosma e Damiano della Galleria Borghese, in cui i due santi medici sono ritratti immediatamente dopo l'estrazione di un dente al paziente, e tutta la buia rappresentazione sembra anticipare la cosiddetta "pittura di genere".
Nelle realizzazioni della seconda metà degli anni Venti la critica ha sempre notato una forte discontinuità qualitativa, anche all'interno di una stessa opera, e l'ha spiegata tirando in ballo l'intervento del fratello Battista, senza dubbio pittore di minore qualità. Bisogna però ricordare che, come testimoniano i documenti, il L. ebbe numerosi aiutanti, tra cui Tommaso da Carpi, padre del più noto Girolamo, e Sebastiano Filippi, nonno dell'omonimo pittore detto Bastianino, e che quindi non tutte le parti poco riuscite delle sue opere devono essere attribuite meccanicamente al fratello minore.
Il problema, in realtà, è quello del funzionamento delle botteghe cinquecentesche, con l'avvicendarsi di numerosi aiuti e apprendisti, con la ripartizione dei ruoli, con le realizzazioni in serie, con l'attenzione che si sposta dalla qualità alla quantità a seconda delle esigenze e delle diverse occasioni.
Intorno al 1530 il L. e il fratello lasciarono Ferrara per lavorare nella villa Imperiale di Pesaro, allora proprietà del duca di Urbino Francesco Maria I Della Rovere e della moglie Eleonora Gonzaga.
Fu probabilmente quest'ultima a suggerire al coordinatore dei lavori, Gerolamo Genga, di coinvolgere anche i due Dossi: a loro fu assegnata la decorazione della sala delle Cariatidi, nella quale sarebbe stata predominante la raffigurazione di paesaggi. Questi si distendono ariosi e vasti tra enormi figure di sensuali cariatidi, dalle cui braccia si dipartono i rami intrecciati di un fitto graticcio, splendidamente tratteggiato, con richiami alle simili imprese di Lorenzo Lotto a Trescore e del Parmigianino (Francesco Mazzola) a Fontanellato.
Tra il 1529 e il 1532 si è soliti datare due belle composizioni allegorico-mitologiche, una conservata al J.P. Getty Museum di Los Angeles e l'altra alla Galleria Borghese: in entrambe il soggetto profano desunto dalle Metamorfosi di Ovidio - probabilmente la storia di Pan e Siringa (Gentili, pp. 122-125; ma si veda anche l'ipotesi di Ciammitti che nel quadro del Getty legge la storia della ninfa Nicea secondo le Dionisiache di Nonno di Panopoli) - viene rielaborato dall'artista in chiave allegorico-morale, secondo la lettura del mito offerta dagli umanisti di corte, come Leone Ebreo e Mario Equicola.
La diffusione della fama dei Dossi nell'Italia settentrionale è confermata subito dopo dal trasferimento dei due fratelli a Trento, dove sono documentati dal settembre 1531 fino al giugno 1532 per la decorazione a fresco del "magno palazzo" del Buonconsiglio, residenza del cardinale Bernardo Cles, vescovo di Trento, abilissimo diplomatico e uomo di elevata cultura e spiccata sensibilità artistica. L'impresa, che coronava la radicale ristrutturazione del palazzo promossa dal porporato, coinvolgeva anche Girolamo Romanino e Marcello Fogolino; ma questa volta il ruolo di coordinatore spettò proprio al Luteri.
Nonostante la poco felice vena creativa, le decorazioni dossesche delle sale del castello, con scene mitologiche, figure allegoriche, profili di imperatori, favole di Esopo e paesaggi, dimostrano la completa acquisizione del linguaggio decorativo giuliesco e anticipano la successiva evoluzione del genere in forme sempre più ornamentali e disimpegnate.
Negli ultimi mesi del 1532 il L. fece ritorno a Ferrara, dove riprese a lavorare per il suo più fedele protettore, il duca Alfonso. Tra la fine del 1533 e il 1534 fu infatti pagato per due pale d'altare commissionategli dal duca per celebrare il ritorno di Reggio e Modena sotto il dominio estense: la Natività votiva per l'altare di S. Giuseppe nel duomo di Modena e il S. Michele con l'Assunzione della Vergine per la cattedrale di Reggio nell'Emilia (Ballarin, 1994-95, docc. 271, 276, 279). Nel 1534 morì il duca Alfonso e il L., pur continuando a lavorare per la corte estense, non godette più sotto il successore Ercole II dell'antica posizione privilegiata, essendogli spesso preferiti artisti più classicheggianti, come lo stesso Battista, o più giovani. Il duca Ercole II, tuttavia, dando avvio alla ristrutturazione della villa ducale, la "delizia" di Belriguardo, chiamò nuovamente il L., che tra il 1536 e il 1537 eseguì la decorazione della cappella e di altre stanze (ibid., docc. 290, 297). Fu ancora il duca a volerlo per la decorazione delle cosiddette camere nuove, ossia le camere fatte costruire nel palazzo adiacente via Coperta (1536): nulla però rimane del ciclo in grisaille che si articolava sul tema celebrativo e cortigiano delle fatiche di Ercole.
Tra le opere degli anni Trenta, quasi sempre frutto di larga collaborazione, si distinguono i due sportelli laterali di un trittico già nella chiesa di S. Paolo a Massa Lombarda (ora a Milano, Pinacoteca di Brera), raffiguranti S. Giovanni Battista e S. Giorgio, mentre al centro c'era una Resurrezione del Garofalo (1538). Il contrasto tra le due muscolose figure e lo sfondo buio, privo di spazio, torna anche in opere di soggetto profano, come l'Allegoria della Fortuna di Los Angeles (J.P. Getty Museum) e l'Allegoria di Ercole, nota anche col titolo di Stregoneria, degli Uffizi.
Nel 1540 il L. ricevette un'ultima commissione dal duca, da eseguirsi a due mani col fratello, per due grandi tele destinate con ogni probabilità al palazzo ducale: S. Michele sconfigge Satana e S. Giorgio e il drago, oggi conservate alla Gemäldegalerie di Dresda (Venturi, 1893, pp. 131 s.).
Entrambe si ispirano a due composizioni di Raffaello (il S. Giorgio, inviato al re d'Inghilterra, e il S. Michele, inviato al re di Francia, il cui cartone però era stato donato dallo stesso Raffaello ad Alfonso I e si trovava a Ferrara), ormai paradigma imprescindibile per l'arte del quinto decennio, e confermano perciò direttamente le pratiche diffuse di imitazione e di circolazione dei modelli "classici".
Nel giugno 1541, insieme con il fratello, fu rimborsato per un soggiorno a Venezia, dove aveva acquistato il materiale necessario per dipingere le scene di una commedia teatrale (Ballarin, 1994-95, doc. 351).
Il L. morì sicuramente tra questa data e il giugno 1542, quando in un atto legale risulta defunto (ibid., doc. 365).
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