LUSERNA BIGLIORE, Giovanni Battista
Figlio del conte Gianfrancesco Luserna, del ramo Bigliore, e di una non meglio identificata Caterina, nacque intorno al 1625 e compì studi di diritto nell'Università di Torino, dove si addottorò in utroque il 22 apr. 1649. Nel dicembre dello stesso anno ottenne l'incarico di legista straordinario serale nell'ateneo torinese, con uno stipendio annuo di 50 ducatoni. Le buone doti personali ne favorirono la rapida carriera nell'amministrazione sabauda. Il 10 giugno 1650, infatti, poco più che ventenne fu ammesso nel Senato del Piemonte e l'alta carica non gli impedì di conservare la cattedra universitaria.
L'attività di senatore mise in luce le sue qualità oratorie, oltre che giuridiche, così da indurre Carlo Emanuele II a eleggerlo suo diplomatico. Nel 1651, pertanto, affiancò Alberto Eugenio de Genève, marchese di Lullin, inviato in missione presso la corte imperiale. Scopo prioritario dell'ambasceria era di riallacciare i rapporti con l'Impero e gli altri principi tedeschi dopo che la guerra civile fra madamisti e principisti aveva portato lo Stato sabaudo sotto il controllo della Francia, nemica giurata dell'Impero. Ma il L., in modo speciale, durante il suo soggiorno a Ratisbona non disdegnò contatti costanti con gli ambasciatori francesi, concordando spesso con loro la linea da seguire.
Tra l'aprile e il novembre 1651, i due negoziatori sabaudi presentarono all'imperatore diversi memoriali contenenti disposizioni e proposte che riguardavano l'investitura dei feudi del Monferrato, la conferma del vicariato imperiale e dei privilegi connessi nonché la dichiarazione che nel vicariato erano comprese anche le terre del Novello. A Carlo Emanuele II premeva, inoltre, che venisse riconosciuta la precedenza dei duchi sabaudi rispetto agli altri principi italiani e, soprattutto, rispetto alla Repubblica di Venezia, con cui era ancora aperto il contenzioso legato all'uso del titolo di re di Cipro. Egli chiedeva, in particolare, che i suoi rappresentanti fossero trattati alla pari degli ambasciatori veneziani.
Dopo alcuni mesi di permanenza in Germania le condizioni di salute del marchese di Lullin, già precarie, si aggravarono ulteriormente, tanto che questi morì di lì a poco. Il suo posto fu preso, allora, dal L. che, tra il 1652 e il 1655, tenne lunghe ed estenuanti trattative con il Consiglio aulico, per ottenere il riconoscimento imperiale dei trattati di Ratisbona e di Cherasco, con cui lo Stato sabaudo aveva ottenuto l'annessione di 74 terre e feudi monferrini, tra cui Trino e Alba.
I negoziati sono documentati da una cospicua corrispondenza, a volte cifrata, e da lunghe relazioni redatte minuziosamente dal Luserna (Arch. di Stato di Torino, Materie d'Impero, Investiture, cat. I, m. 1). Si tratta di resoconti quasi giornalieri, inviati da Monaco, Vienna, Francoforte e Ratisbona, ricchi di dettagli e di informazioni di varia natura: dalle notizie relative al tempo, alla descrizione dei posti visitati, a quelle più sostanziose inerenti l'accoglienza ricevuta, alle tensioni politiche interne e alla complessa vita di corte.
Nominato plenipotenziario ducale presso la Dieta di Ratisbona, egli rese conto della sua missione in un Giornale delle cose successe durante la mia negoziazione (ibid., m. 2, cc. 1-10).
Si tratta di una testimonianza interessante della sua attività diplomatica, poiché egli, oltre a copiarvi tanto le missive ricevute quanto le minute di quelle inviate, vi riportava dettagli minori sui negoziati, non esitando a registrarvi anche i propri commenti personali. La missione, già di per sé difficile, fu ulteriormente complicata dalla cronica mancanza di fondi, che costituisce un motivo ricorrente della sua corrispondenza.
Dopo quasi cinque anni di trattative, riuscito lo scopo della sua missione, fece ritorno in patria, ottenendo, in segno di riconoscenza, la promozione, il 18 giugno 1656, a presidente della Camera dei conti di qua dai monti e a conservatore generale del Patrimonio ducale. Due anni dopo, nel 1658, fu nominato terzo presidente di Camera e nel 1662 ottenne l'incarico di terzo presidente del Senato di Piemonte e del marchesato di Saluzzo.
Nonostante l'età relativamente giovane, il L., con la lunga missione nell'Impero, si era segnalato come uno dei migliori diplomatici sabaudi. Non stupì, quindi, che, il 23 febbr. 1664, Carlo Emanuele II lo nominasse nuovo ambasciatore a Venezia, con uno stipendio di 5000 ducatoni annui, a distanza di un trentennio dalla rottura delle relazioni diplomatiche.
Per poter risolvere il contenzioso, erano stati mandati a Venezia, nel 1662, l'abate Vincenzo Dini, ministro prima a Modena e poi in Savoia, insieme con Carlo Gerolamo Solaro di Moretta, marchese del Borgo, in qualità di legato straordinario. La questione dopo lunghe trattative sembrava in parte risolta: tra i vari punti in sospeso era stato convenuto che l'arma dei Savoia, innalzata sulla sede dell'ambasciata sabauda, non avrebbe portato il quarto di Cipro, pomo di discordia perpetua tra i due Stati.
Le istruzioni ricevute dal duca obbligavano il L. a mantenere e a conservare buoni rapporti con la Repubblica, senza conferire al doge il titolo di reale altezza, bensì solo quello di serenissimo. Oltre a ciò il duca gli raccomandava di usare ogni mezzo al fine di poter "presto innalzare sulla porta del suo palazzo l'arma reale costituita di tutti i quarti, come usavasi a Torino" (Claretta, 1877, pp. 456 s.). In pratica, Carlo Emanuele II chiedeva al nuovo ambasciatore di rinegoziare l'accordo del 1662, suggerendogli anche piccoli espedienti - fingersi ammalato appena giunto in città - per indurre gli altri diplomatici accreditati presso la Serenissima a rendergli visita per primi.
Pervenne a Venezia all'inizio di maggio con un nutrito seguito, formato da oltre 50 persone, di cui almeno dodici nobili. Ad accoglierli, presso l'abitazione dell'abate Dini, trovò il corpo diplomatico e alcuni esponenti della Repubblica. L'ingresso solenne insieme con il ricevimento fu organizzato per il 10 maggio. Interpretando letteralmente le ambigue istruzioni ricevute da Carlo Emanuele II e seguendo gli inesatti consigli di Dini, che sosteneva di avere raggiunto un accordo segreto con le autorità della Repubblica, il L., dopo pochi giorni dal suo arrivo, innalzò lo stemma completo. Le conseguenze furono immediate. Il Senato di Venezia non potendo ammettere i diritti del Piemonte sull'isola di Cipro, dopo una lunga seduta, decise di annullare la festa e di rinviare a data da stabilirsi l'incontro con l'ambasciatore sabaudo. Questi, costretto anche dalle istruzioni segrete del duca, rispose che non avrebbe abbassato l'arma. Inoltre, minacciò la Repubblica di sottrarle le truppe piemontesi che militavano sotto il suo comando nella guerra intrapresa per cacciare i Turchi dall'isola di Creta. Di fronte alla reazione veneziana, più ferma di quanto non si fosse aspettato, per evitare che la situazione si aggravasse, Carlo Emanuele II ordinò al suo ambasciatore di trovare una soluzione accettabile. Alla fine del mese di giugno, dopo estenuanti trattative, si giunse a un accordo: lo stemma sabaudo sarebbe stato dipinto - sia sul palazzo dell'ambasciata sia sulle gondole sabaude - con la corona chiusa, simbolo di regalità, ma senza il quarto di Cipro. Finalmente, il 6 luglio 1664, il L. poté fare il suo ingresso ufficiale, accolto dal Senato e dal doge Domenico Contarini.
L'ambasciata veneziana del L. non fu certo tranquilla, in parte per le difficoltà intrinseche ai rapporti fra i due Stati, in parte per alcuni errori commessi dallo stesso Luserna. Fu questi, per esempio, a provocare un grave contenzioso sull'immunità delle ambasciate. Secondo gli accordi vigenti nessuna famiglia di giustizia poteva avvicinarsi alle abitazioni dei diplomatici né transitare nelle strade vicine. Il 9 settembre, invece, alcuni uomini del Bargello, contravvenendo agli ordini, si accostarono al palazzo della delegazione sabauda. Immediatamente un nutrito gruppo di staffieri del L. li cacciò a colpi di spada e di alabarda. L'ambasciatore stesso, indignato per l'accaduto, scrisse una lunga lettera al Consiglio dei dieci, nella quale intimava che avrebbe preso ulteriori provvedimenti se la Repubblica non avesse rispettato la sede sabauda e attuato il protocollo identico a quello usato con le altre delegazioni. La situazione peggiorò ulteriormente quando, pochi giorni dopo, un gruppo di uomini armati, che dipendevano dal Consiglio, si fermò nelle vicinanze dell'ambasciata. Uno di essi ebbe l'ardire di sedersi nei pressi dell'ingresso principale: invitato ad andarsene, rispose in malo modo, scatenando l'ira delle guardie sabaude, che, dopo averlo inseguito, lo uccisero. Nonostante la gravità dell'episodio la Repubblica di Venezia decise di non interrompere i rapporti diplomatici: fu stabilito invece di assegnare grosse somme di denaro a chi fosse riuscito a consegnare alla giustizia i malfattori.
Ma questi non furono i soli episodi che videro come protagonista il conte di Luserna. Durante la sua permanenza a Venezia, godendo della franchigia diplomatica, fece giungere due barche piene di farina e di anfore di vino; le merci furono solo in parte utilizzate per uso domestico, il rimanente venne contrabbandato. Gli agenti veneti, di fronte a un simile atto decisero di confiscare la merce frodata, ma furono violentemente bloccati dai servitori dell'ambasciatore.
In realtà, la ripresa delle relazioni diplomatiche con Venezia aveva dato risultati decisamente inferiori alle attese, e ciò indipendentemente dalle doti del Luserna. Questi, da parte sua, chiese ripetutamente di poter tornare in Piemonte e riprendere il suo posto in Senato. Il duca, tuttavia, pur adoperandosi per la prosecuzione della sua carriera nella magistratura - nel 1666 gli assegnò la carica di presidente del contado di Asti e nel 1668 quella di presidente del Monferrato - volle che rimanesse a Venezia in attesa che la situazione politica evolvesse.
Il L. poté lasciare la Serenissima solo quando, il 3 luglio 1670, il duca lo nominò ambasciatore straordinario presso la corte pontificia. A Roma egli ottenne risultati più cospicui che a Venezia: il governo pontificio, infatti, gli concesse lo stesso trattamento previsto per gli ambasciatori dei re. Ciò indispettì fortemente i rappresentanti diplomatici degli altri Stati italiani, in particolare quello del granduca di Toscana Cosimo III. Questi lo aggredì violentemente e i due furono separati dai soldati pontifici quando avevano già messo mano alle spade. La reazione toscana era un segnale di per sé eloquente.
La permanenza a Roma, tuttavia, fu solo di qualche mese: alla fine di marzo del 1671 ricevette dal duca il tanto agognato permesso di rientrare in patria. Egli riprese, allora, il suo posto nel Senato di Piemonte.
Il L. morì a Torino il 30 ott. 1677. Il suo corpo fu tumulato nell'altare maggiore della chiesa dell'Annunziata a Luserna.
Fonti e Bibl.: La carriera diplomatica e il ruolo svolto dal L. presso le corti italiane ed estere si possono ricostruire attraverso le fonti conservate in Arch. di Stato di Torino, Corte, Regi Archivi, cat. I, m. 1, c. 11; Materie politiche per rapporto all'Interno, Cerimoniale, Venezia, m. 2, cc. 36-37, Relazione manoscritta s.n. dall'aprile del 1664 a marzo del 1671; Cerimoniale, Roma, m. 2; Materie politiche per rapporto all'Estero, Lettere ministri, Austria, m. 11, cc. 3-7; m. 12, cc. 1-3; mm. 13-16; Roma, m. 88; Venezia, m. 9.2; Ratisbona, m. 1; Negoziazioni, Venezia, m. 2, cc. 9, 11-13; Negoziazioni, Svizzera, m. 5; Negoziazioni, Toscana, m. 1; Negoziazioni, Austria, m. 3, c. 12; Materie d'Impero, Investiture, cat. I, m. 1, cc. 20, 22; m. 2, cc. 1-10; Diete imperiali, cat. III, m. 1, cc. 42, 44-45; m. 2, cc. 1-3; Paesi, Ducato del Monferrato, m. 42, cc. 18, 24, 34 s., 44; m. 43, c. 2; Testamenti pubblicati del Senato, vol. XIII, cc. 200-212; Patenti Piemonte, reg. 64, 1650 in 1652, cc. 109 s.; reg. 65, 1653 in 1658, c. 141; reg. 71, cc. 116 s.; reg. 78, c. 5; art. 688, reg. 106, 1653 in 1657, cc. 245 s.; reg. 127, 1675, cc. 149, 349; si veda inoltre: Corte, Lettere di particolari, s.v., m. 87 (lettere del L. indirizzate al duca, alla reggente e ad altri uomini di corte in Arch. di Stato di Torino); Torino, Arch. stor. del Comune, Collezione Simeom, s. M, n. 2: G. Gaschi, Catalogo de' laureati dall'anno 1609 a tutto il 1690 (per la data di laurea del L.); Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneziani del secolo decimosettimo, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 3, I, Venezia 1861, pp. 351, 367; G. Claretta, Storia del Regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, I, Genova 1877, pp. 355, 358, 456-467, 600 s.; II, ibid. 1878, p. 749; Id., Memoriale autografo di Carlo Emanuele II duca di Savoia, Genova 1878, pp. 83, 87, 110, 122, 137; D. Carutti, Storia della diplomazia della corte di Savoia, III, Roma 1879, p. 37; C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese, II, Torino 1881, pp. 274, 276, 279, 326, 404; A. Manno, Bibliografia storica degli Stati della monarchia di Savoia, I, Torino 1884, p. 116; G. Claretta, Delle principali relazioni politiche fra Venezia e Savoia nel secolo XVII, Venezia 1895, p. 57; P. Rivoire, Storia dei signori di Luserna, parte II, I tempi moderni, in Bulletin de la Société d'histoire vaudoise, XVI (1899), pp. 67-70; C. Contessa, Per la storia della decadenza della diplomazia italiana nel secolo XVII (anedotti di relazioni veneto-sabaude), in Miscellanea di storia italiana, XLII, Torino 1906, p. 75; L. Dalmasso, I piemontesi alla guerra di Candia, ibid., XLIV, ibid. 1909, pp. 26, 29, 31-35; P. Patetta et al., L'Università di Torino nei secoli XVI e XVII, Torino 1972, pp. 229 s.; C. Rosso, Uomini e poteri nella Torino barocca, in Storia di Torino, a cura di G. Ricuperati, IV, La città fra crisi e ripresa (1630-1730), Torino 2002, pp. 111 s.; F. Barcia, Gli avventurieri e la reggente, ibid., p. 646; F. Angiolini, Medici e Savoia. Contese per la precedenza e rivalità di rango in età moderna, in La corte sabauda fra Tre e Seicento, a cura di P. Bianchi - L.C. Gentile, in corso di stampa; Roma, Biblioteca dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Manno, Il patriziato subalpino, vol. LAZZARI-LUS (dattiloscritto), pp. 401-404; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, IV, p. 182.