lupo e lupa
lupa. La parola ricorre nel Convivio e nella Commedia, oltre che nel Fiore, dove appaiono prefigurati valori che essa avrà nel poema. Il simbolo biblico del l. occupa un posto centrale nell'allegoria morale della Commedia, incarnando la più potente delle forze che ostacolano l'itinerario di redenzione: la cupidigia, con la crudeltà che l'accompagna, nemica di " charitas ". V. FIERA.
Con le parole Taci, maladotto lupo! (If VII 8) Virgilio si rivolge a Pluto: rovente condanna del demone dell'avarizia (che con la natura lupina ha in comune la brama insaziabile), formulata alla luce della ragione redentrice: così nel primo canto (v. 49 una lupa, che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza) la cupidigia era apparsa nell'aspetto spaventevole di lupa al poeta avviato verso il monte di salvezza (l'aggettivo ‛ maladetto ' appare in qualche modo tipico di questo campo semantico: cfr. Maladetta sie tu, antica lupa, Pg XX 10; e anche XIV 50, Pd IX 132). Oltre al gran nemico infernale il simbolo è riferito ai due ordini di persone su cui, nella riflessione dantesca, in forme più gravi si manifestano gli effetti dell'avarizia: i cittadini di Firenze e i pastori corrotti della Chiesa. Nella feroce rappresentazione simbolica della valle dell'Arno fatta da Guido del Duca, l. sono i Fiorentini (" li quali come lupi affamati intendeno a l'avarizia et all'acquisto per ogni modo con violenzia rubando e sottomettendo l'uno l'altro li loro vicini ", Buti), contrapposti alle altre forme di umanità bestiale che popolano la misera valle (i porci casentinesi, i botoli aretini e le volpi pisane): Vassi caggendo; e quant'ella più 'ngrossa, / tanto più trova di can farsi lupi / la maladetta e sventurata fossa, Pg XIV 50 (come per le altre fiere Pietro cita il parallelo boeziano: " Avaritia fervet alienarum opum violentus ereptor: lupi similem dixeris ", Cons. phil. IV III 17). L'immagine sarà ripresa e svolta subito dopo nella profezia delle stragi di Fulcieri da Calboli, che appare come cacciator di quei lupi in su la riva / del fiero fiume (v. 59), in uno spettacolo di efferata crudeltà, dove l'immagine dei l., le cui carni sono vendute vive dal tiranno, si salda con quella della selva (vv. 64 e 66). Con maggiore determinazione, in Pd XXV 6 (Se mai continga che 'l poema sacro / ... vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov'io dormi' agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra) l. sono i cittadini principali di Firenze, che tengono in continua discordia la città, la quale il poeta chiama ovile " imperò che, come l'ovile è ricettaculo delle pecore e difendimento di loro da' lupi; così la cità è defensione dei citadini, che vogliano ben vivere e civilmente, dai rubbatori e da' rei uomini che sono come lupi " (Buti). Alla crudeltà dei suoi concittadini D. farà riferimento anche in Rime CXVI 77-79 (Fiorenza, la mia terra, / che fuor di sé mi serra, / vota d'amore e nuda di pietate).
Agli esempi precedenti andrà accostato quello del sogno di Ugolino: Questi [Ruggieri] pareva a me maestro e donno, / cacciando il lupo e ' lupicini al monte / per che i Pisan veder Lucca non panno (If XXXIII 29), dove il lupo e ' lupicini (designati poco dopo, per trasparire del loro vero significato, come lo padre e ' figli) indicano il conte stesso e i suoi figlioletti. Secondo l'interpretazione di Benvenuto e dell'Ottimo, vi sarà simboleggiata la natura di tiranno del conte (l'Anonimo vi scorge anzi un'allusione alla sua avarizia). Il simbolismo del sogno ricorda del resto da vicino quello della profezia di Guido del Duca (Ruggieri è maestro e dorino della caccia sul monte Pisano, come Fulcieri si farà cacciator di que' lupi sulle rive dell'Arno). Il Lombardi e il Tommaseo vi vedono un'allusione al patimento della fame: interpretazione che, per l'ambiguità stessa del linguaggio onirico, non escluderà la precedente.
Strettamente congiunto al primo (come appare dallo stesso ruolo corruttore del fiorino sulla curia papale) è il secondo uso del simbolo, in cui l. sono i prelati degeneri, sviati dalla loro funzione di guida dei fedeli per " divorare le loro facultà " e " farli ruinare col loro malo esemplo " (Buti). Anche qui il l. è contrapposto al gregge, immagine di una comunità pacifica, stretta da un vincolo di amore. Il simbolo è usato dapprima da Folchetto: La tua città... / produce e spande il maladetto fiore / ch'ha disvïate le pecore e li agni, / però che fatto ha lupo del pastore (Pd IX 132), e ripreso poi nell'invettiva di s. Pietro, al quale i pascoli della cristianità appaiono popolati da l. travestiti da pastori: In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua sù per tutti i paschi: / o difesa di Dio, perché pur giaci? (Pd XXVII 55): l'accusa di empia rapacità si complica qui con quella d'ipocrisia. Vi sono riecheggiati i luoghi biblici: " Attendite a falsis prophetis, qui veniunt ad vos in vestimentis ovium, intrinsecus autem sunt lupi rapaces " (Matt. 7, 15); " Vae pastoribus qui disperdunt et dilacerant gregem pascuae meae " (Ierem. Proph. 23, 1).
È appunto attraverso il passo di s. Pietro che si stabilisce il legame col Fiore. Nel poemetto giovanile l'immagine del l. travestito occupa un posto centrale nella rappresentazione dei falsi religiosi che sotto le parvenze dell'umiltà e dell'amore divorano le sostanze del popolo cristiano. La frase del Vangelo di Matteo è citata, con amplificazioni, in CXXIII 7 Agnol pietoso par quand' uon l'ha visto, / di fora sì fa dolze portatura; / ma egli è dentro lupo per natura, / che divora la gente Gieso Cristo (Roman de la Rose 11717-18 " Dehors semblons aigneaus pitables, / Dedenz somes lous ravissables "). L'aneddoto del l. travestito da montone occupa tutto il son. XCVII (Chi della pelle del monton fasciasse / il lupo e tra le pecore il mettesse..., v. 2, e cfr. v. 10; Rose 11123-32), e sarà ripreso agl'inizi del sonetto successivo. In LXXXI 12 infine il l. viene preso (proverbialmente) a significare la natura inestirpabile del vizio: Ma' il lupo di sua pelle non gittate, / no gli farete tanto di laidura, / se voi imprima no llo scorticate (Rose 11996-98), dove sua pelle andrà idealmente contrapposta agli ammanti religiosi, che non mutano la perversa natura dell'ipocrita.
La concordanza con la Commedia appare confermata da elementi contestuali. Come nelle parole di Pietro (o difesa di Dio, perché pur giaci?), anche in Fiore XCVIII alla descrizione dell'assalto dei l. all'edificio della cristianità fa seguito l'accorata invocazione della difesa divina (anche in Pd XXV 6 i l. danno guerra alla città di Firenze). Così si potrebbe osservare che nel discorso di Falsembiante era già stata fatta allusione, indirettamente, al cibo perverso che ha trasformato i pastori in l. (il maladetto fiore di Pd IX 130): i be' sacchetti di fiorini (CXXVI 3) fanno seguito a un lungo elenco di vivande prelibate di cui Falsembiante è goloso (e in cui, diremmo, la sua brama lupina trova espressione più letterale). È noto del resto che il sonetto Chi della pelle del monton è l'unico del poemetto ad aver conosciuto una diffusione indipendente (un manoscritto ne reca la prima quartina attribuendola a Dante).
Si noteranno tuttavia differenze profonde tra la rappresentazione del Fiore e quella della Commedia. In particolare, nel componimento giovanile tende a stabilirsi una divaricazione tra rappresentazione naturale e significato simbolico (è esemplare il sonetto XCVII, di cui la fronte narra l'aneddoto del l. travestito, mentre la sirma stabilisce la correlazione coi falsi religiosi). Nell'arte visionaria della Commedia si avrà invece una perfetta fusione dei tratti fisici della belva e del loro significato morale.
Anche nel Fiore, accanto all'immagine del l. vi è quella della lupa (CLXVII), assunta, come nel Roman de la Rose, a significare la brama di denaro della meretrice. Lupo è anche in Pd IV 5 e Cv I VI 6.
Il diminutivo ‛ lupello ', formato sul francese antico louvel (latino popolare lupellum, diminutivo di lupus), " giovane lupo ", è usato in Fiore XCVIII 1 Sed e' ci ha guari di cota' lupelli, / la Santa Chiesa si è mal balita, in corrispondenza con Roman de la Rose 11133 " S' il a guieires de teus louveaus / Entre tes apostres nouveaus, / Iglise, tu iés mal baillie " (la rima nouveaus: louveaus è anche ai vv. 15053-54). Nella Commedia, come si è visto, D. usa il diminutivo nostrano ‛ lupicino '.