UBERTI, Lupo
degli. – Ignoti sono gli estremi biografici di questo rimatore fiorentino attivo tra il XIII e il XIV secolo, discendente di una delle più nobili e potenti consorterie ghibelline dell’epoca. Malgrado le accurate indagini condotte sulla genealogia degli Uberti, la disorganicità delle notizie non consente di verificare con certezza l’identità storica di «Lupo degl[i] Uberti di Firenze» (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 3214, c. 151r), indicato dai codici quale autore di due liriche d’argomento esclusivamente amoroso, perciò prive di utili indizi storico-biografici. Il nome Lupo figura inoltre come soprannome caratteristico all’interno del casato, spesso utilizzato in alternanza con il più diffuso Lapo, cosicché vari personaggi della medesima famiglia, collocabili tra metà Duecento e fine Trecento, potrebbero rivendicare la paternità dei suddetti componimenti. Tra questi, un Lapo figlio di Pietro Asino, citato come «Lupus quondam d. Petri Asini de Ubertis» (Renier, 1883, p. LVI nota 2) nell’elenco dei confinati dopo la pace del cardinal Latino Malabranca (1280), e un Lupo ricordato dai cronisti per aver ceduto ai fiorentini il castello di Laterino nel 1288, dopo brevissimo assedio, e per aver guidato nel 1292 un drappello di pisani contro la Lega guelfa nel Valdarno. Presenta contorni più netti la figura di Lapo figlio di Farinata degli Uberti, menzionato come «Lupone degli Uberti fiorentino» (p. CIII) da due eruditi veronesi del XVII secolo: coetaneo e cognato di Guido Cavalcanti, autore del sonetto Guido, quando dicesti pasturella (in replica alla ballata cavalcantiana In un boschetto), dopo esser stato costretto alla fuga da Firenze (1268) e da Pisa (1283 circa, in seguito all’accusa di eresia lanciata dal minorita fra Salomone da Lucca), nel 1289 si pose al servizio degli aretini, conducendo (pur senza successo) la difesa di Chiusi. Le ultime tracce lo mostrano nel 1311, più che sessantenne, vicario di Enrico VII a Mantova, la cui podesteria aveva già assunto nel 1296, 1297 e 1299, prima di passare a Verona ed esercitarvi le stesse funzioni nel 1301, 1303, 1306 (D’Addario, 1984). Tuttavia, la sua data di nascita, collocabile intorno alla metà degli anni Quaranta, renderebbe «improbabile una così tardiva vocazione poetica, per di più palesemente ispirata ai moduli della nuova maniera fiorentina» (Pagnotta, 1996, p. 366). Per motivi anagrafici parrebbe dunque più pertinente la candidatura di Lapo di Azzolino degli Uberti, figlio di un fratello di Lapo di Farinata, che nel 1302 sottoscrisse a San Godenzo, insieme a Dante Alighieri, il patto di alleanza fra bianchi sconfinati e fuoriusciti ghibellini, per poi trasferirsi anch’egli, esule, a Pisa (1309) e nel Veneto, dove morì a Vicenza.
I componimenti finora ascrivibili con certezza a Lupo sono la ballata Movo canto amoroso novamente, ambasciatrice dell’amore del poeta presso la donna, e il sonetto doppio d’accompagnamento Gentil madonna, la vertù d’Amore, che alla dama si rivolge direttamente raccomandando alla sua attenzione la ballata. A questi si potrebbe aggiungere il sonetto Gentil messere, la virtù sottile, tràdito adespoto dal codice cinquecentesco Mezzabarba (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, It.IX.191), indubbiamente prossimo alla speciale morfologia metrica, al lessico e alla sintassi di Gentil madonna.
La trasmissione di Movo canto amoroso e di Gentil madonna è affidata a un’autorevole (benché ristretta) tradizione manoscritta, di primaria importanza per la costituzione del canone stilnovista e coincidente, in parte, con quella del sonetto parodico Guido, quando dicesti: innanzitutto, il codice mediotrecentesco della Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi, L.VIII.305, il più antico canzoniere dello Stilnovo, dove i due testi compaiono, accanto a quelli di Francesco Smera de’ Bachenugi e Caccia da Castello, di seguito a rime di Guido Guinizzelli, Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia, e prima di quelle di Lapo Gianni e Dino Frescobaldi; quindi i codici di Verona, Biblioteca capitolare, 445; Firenze, Biblioteca dell’Accademia della Crusca, 53 (la cosiddetta Raccolta Bartoliniana); e della Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 3214 e 3793, latore quest’ultimo del solo sonetto doppio. La rubrica di Gentil madonna nel Vat. lat. 3214 e nella Raccolta Bartoliniana ci informa inoltre dell’esistenza di un rivestimento musicale a opera di quello stesso intonatore, Mino d’Arezzo, che compare sulla scena di Decameron (X, 7) e nel sonetto di Niccolò de’ Rossi, Io vidi ombre e vivi al parangone. E non è da escludere che l’aretino musicasse anche la ballata, poiché al nuovo canto che deve seguire allude l’explicit del sonetto (vv. 19-20): «ch’altra gioi’ non m’è cara: / nel novo canto il potete vedere» (Pagnotta, 1996, p. 384).
Le prove poetiche di Lupo sono state rivalutate come significativi documenti della diffusione di uno Stilnovo vicino all’esperienza guinizzelliana (cui rimandano le nozioni di fenomenologia amorosa e le riprese da testi chiave sull’argomento, a partire dalla canzone Al cor gentil) e, soprattutto, dantesca. Da un punto di vista metrico, infatti, la scelta del sonetto doppio configura un preciso richiamo a Dante, che è il solo, nel panorama della poesia duecentesca, a servirsi di questa tipologia in Se Lippo amico se’ tu che mi leggi, e nei due sonetti doppi inseriti nella Vita nuova: O voi che per la via d’Amor passate e Morte villana, di pietà nemica (gli altri esemplari noti, Signor sensa pietansa, udit’ho dire di Pucciandone Martelli, l’anonimo Levando ∙mi sperança e Vostra quistione è di sottil matera di Lapo Saltarelli, non per forza dovranno considerarsi antecedenti). Al libello rinvia anche la ballata Movo canto amoroso, perfetto calco metrico dell’unica ballata lì inclusa: Ballata, i’ voi’, da cui sembrano derivare stilemi e citazioni, pur mescolati a un formulario genericamente stilnovistico e a immagini convenzionali del repertorio cortese.
Uberti è stato coinvolto nel dibattito sulla possibile revisione del canone storiografico dello Stilnovo e sul credito da conferire al celebre passo di De vulgari eloquentia I, XIII, 4, dove si fa menzione dei rimatori toscani che hanno conseguito l’eccellenza del volgare: «Guidonem, Lupum et unum alium, florentinos, et Cinum pistoriensem». Sulla lezione «Lupum», concordemente riferita dai testimoni manoscritti del trattato, gli editori, a partire da Giovan Giorgio Trissino (1529), sono intervenuti con l’emendamento congetturale «Lapum», assegnando al poeta Lapo Gianni il posto d’onore accanto a Dante e Cavalcanti e ricostituendo così la triade del sonetto dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Pare tuttavia improbabile che Dante possa aver scritto «Lupum» intendendo Lapo: gli studi onomastici rilevano la differente origine etimologica delle due forme, nonché l’assenza (tranne che nella famiglia degli Uberti, dove Lupo è impiegato come soprannome dinastico) di prove documentarie che ne attestino l’interscambiabilità. Il nome Lupo, in particolare, risulterebbe pressoché inesistente nell’onomastica fiorentina del Due e Trecento, dunque difficilmente sovrapponibile al ben più diffuso Lapo.
Allontanata l’ipotesi della confusione onomastica e preso atto della stretta consequenzialità tra le parole del De vulgari eloquentia e il capoverso di Guido, i’ vorrei, non sarà allora da escludere l’ipotesi di un possibile errore d’archetipo, nello specifico un semplice errore paleografico (Lupo in luogo di Lapo) unito alla scorretta interpretazione del nome del poeta. I testimoni del trattato recano infatti la lezione «lupu(m)», contrassegnando lupo con la minuscola e perciò intendendolo come secondo nome o soprannome del precedente «Guidonem». Di fronte a uno sconosciuto ‘Guido Lupo’ quale terza gloria della lingua accanto a Dante e a Cino, parrebbe dunque opportuno tornare alla fortunata congettura «Lapum», restituendo a Lapo Gianni la sua posizione di prestigio entro il carteggio dantesco.
Pur considerando il giudizio positivo di un conoscitore di lirica antica come Pietro Bembo, che nelle Prose della volgar lingua dedica proprio a Uberti parole d’elogio, gratificandolo più avanti con una citazione del sonetto Gentil madonna, a esemplificazione di un fatto prosodico, la qualità dei versi di Lupo denuncia un atteggiamento in prevalenza imitativo del verbo dantesco, stemperato verso una più mite e convenzionale rappresentazione della casistica amorosa: nessun elemento, dunque, che possa convincere a conferire la palma della poesia volgare all’oscuro Lupo. In lui si dovrà piuttosto riconoscere il profilo di un precoce fiancheggiatore della nuova maniera fiorentina.
Fonti e Bibl.: Per le edizioni dei testi si veda: L. Pagnotta, Un altro ‘amico di Dante’. Per una rilettura delle rime di L. degli U., in Studi di filologia medievale offerti a D’Arco Silvio Avalle, Milano-Napoli 1996, pp. 365-390; C. Giunta, Due poesie probabilmente duecentesche dal codice Mezzabarba, in Medioevo romanzo, XXIV (2000), pp. 321-345; I. Maffia Scariati, ‘Gentil messere, la virtù sottile’, da assegnare a L. degli U., in Studi e problemi di critica testuale, LXVI (2003), pp. 11-21; Poesie dello stilnovo, a cura di M. Berisso, Milano 2006, pp. 460-468.
R. Renier, Introduzione a Liriche edite ed inedite di Fazio degli Uberti. Testo critico preceduto da una introduzione sulla famiglia e sulla vita dell’autore, a cura di R. Renier, Firenze 1883, pp. VII-CCCLXXI; S. Carrai, Un musico del tardo Duecento (Mino d’Arezzo) in Nicolò de’ Rossi e nel Boccaccio (‘Decameron’ X 7), in Studi sul Boccaccio, XII (1980), pp. 39-46; G. Gorni, Lippo contro Lapo. Sul canone del Dolce Stil Novo, in Id., Il nodo della lingua e il Verbo d’Amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze 1981, pp. 99-124; A. D’Addario, Uberti, Lapo degli, in Enciclopedia dantesca, V, Roma 1984, p. 728; G. Gorni, Paralipomeni a Lippo, in Studi di filologia italiana, XLVII (1989), pp. 11-29 (poi in Id., Dante prima della Commedia, Fiesole 2001, pp. 59-79); A. Lanza, In merito all’elenco dei passeggeri del «vasel» dantesco: Lapo Gianni, non Lippo Pasci de’ Bardi, in Id., Primi secoli. Saggi di letteratura italiana antica, Roma 1991, pp. 81-89; S. Carrai, La lirica toscana del Duecento, Roma-Bari 1997, pp. 85 s.; A. Solimena, Repertorio metrico dei siculo-toscani, Palermo 2000, p. 759; I. Maffia Scariati, «Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi...»: su un’intricata questione attributiva, in Studi e problemi di critica testuale, LXIV (2002), pp. 5-61; I nomi di persona in Italia: dizionario storico ed etimologico, a cura di A. Rossebastiano Bart - E. Papa, II, Torino 2005, pp. 818 s.; M. Berisso, Il ‘caso Lapo’ (Lapo Gianni, Lippo Pasci de’ Bardi, ‘Amico di Dante’, L. degli U.), in Poesie dello stilnovo, cit., pp. 399-468; E. Fenzi, Nota al testo, in D. Alighieri, De vulgari eloquentia, Roma 2012, pp. XCV-CXXV (cfr. la recensione di L. Spagnolo, in La lingua italiana, X 2014, pp. 183-191); D. Pirovano, Il Dolce stil novo, Roma 2014, pp. 95, 332-335; R. Rea, Il nome di Lapo, in Filologia e critica, XLI (2016), pp. 42-59; L. Spagnolo, A pie’ del vero. Nuovi studi danteschi, Roma 2018, pp. 109 s.