LUMEN
Plinio (Nat. hist., xxxv, 29), uniformando la sua esposizione alla tradizionale mentalità greca, dice che l'arte della pittura, a un certo punto, nel suo faticoso progresso, "inventò" la luce e le ombre (invenit lumen atque umbras), in seguito alla constatazione che la differenziazione dei colori era reciprocamente acuita ed eccitata dalla loro giustapposizione. Questa "invenzione" è da porsi, secondo Plinio, al tempo di Apollodoros, alla fine del V sec.; è chiaro che per i Greci, e quindi per Plinio, lumen e umbra sono considerati come due colori, i quali variano, rinforzandosi o attenuandosi, a seconda della quantità e della incidenza della luce onde sono colpiti, non solo, ma anche a seconda della giustapposizione con altri colori.
Questi principî pittorici, fisicamente esposti nel Corpus aristotelicum, erano già empiricamente sfruttati nella ceramica a figure rosse dalla fine del VI sec. in poi, quando la lineà di contorno rinforzata o una zona di tratteggio disposta sui margini delle figure, pur senza determinato criterio ottico (v. disegno), valorizzava e "avvicinava" le zone centrali più illuminate, le quali reciprocamente conferivano ai contorni oscuri e alle zone di tratteggio il valore corporeo del "giro" della figura: sono prodromi empirici dello scorcio, del chiaroscuro e della prospettiva (v.); l. ed umbra (v.) sono pertanto elementi reciproci; la vernice più diluita negli "occhi" della veste della figura sdraiata del cratere degli Argonauti (Pfuhl, fig. 482) non può essere altro che ombra, la quale crea il l., la parte illuminata cioè, del restante della veste. Si tratta però sempre di timorosi espedienti empirici, attuati entro una luce diffusa o provenienti contemporaneamente da più parti; i primi esempî della fonte luminosa unica, da sinistra, li abbiamo nelle due pitture su marmo della centauromachia (v. disegno, tav. a colori) e dell'Apobates, copie di originali dell'epoca di Apollodoros colle innovazioni del quale avrà inizio l'utilissimo ripiego illusionistico dell'ombra a terra per valorizzare la corporeità delle figure.
Il testo di Plinio trova quindi piena corrispondenza nei monumenti del mondo classico. Nel fatto però gli effetti di luce e di ombra sono largamente attuati e sentiti già nella pittura franco-cantabrica del Paleolitico Superiore; per esempio a Lascaux (v.), si può rimanere incerti se determinate differenze di colore sul corpo di numerosi bovidi sian dovute a rappresentazione realistica, "fotografica", d'effettive zone rientranti del corpo rispetto ad altre sporgenti; oppure se siano espedienti coloristici di pura varietà; oppure, più fondatamente, se non si tratti proprio di intellettualistica applicazione di una pennellata più scura per rappresentare una rientranza tra due sporgenze (pancia vuota della vacca tra le cosce e il petto: Lascaux, ediz. Skira, p. 73; Graziosi, tav. 178).
Bibl.: E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung, Monaco 1923, figg. 491, 492, 506, 507, 630, 631; S. Ferri, Plinio il Vecchio, Roma 1946, XXXV, 29, 60; P. Graziosi, Arte dell'Età della Pietra, Firenze 1956, tavv. 178-187.