MOLINA, Luisa
de (Maria, Luisa, Fortunata). – Figlia di Pedro e di Camilla Salinero, nacque a Napoli il 28 febbr. 1764.
Il padre, un nobile ufficiale spagnolo al servizio dell’armata di Carlo III, era arrivato a Napoli nel 1733, nel ruolo di aiutante maggiore e poi di comandante dell’esercito borbonico, dove aveva sposato la genovese Salinero.
Nel 1781, a 17 anni, la M. sposò suo cugino Andrea Delli Monti Sanfelice, dei duchi di Lauriano e Agropoli, con cui aveva condiviso molta della sua infanzia e con il quale ebbe in breve tempo due figli: Gennaro e Giuseppa. Fin da subito i due giovani si diedero a uno sfarzoso stile di vita, che la loro rendita non permetteva e che ben presto li espose alle ingenti richieste dei creditori.
Fu per questo che nel 1787 il marchese Tommaso De Rosa – su espressa richiesta di re Ferdinando IV «veduto il bisogno che ha di assistenza esso Sanfelice e famiglia» – fu nominato tutore della coppia, con il compito dell’amministrazione giudiziaria dei loro beni. Auspicando un piano economico che potesse salvare la famiglia dal fallimento, il marchese ordinò anche l’allontanamento dei giovani dagli sfarzi della corte napoletana, disponendo il loro trasferimento nei feudi di Lauriano, prima, e poi di Agropoli «senza però che si ingeriscano nella giurisdizione di detta terra» (Croce, 1966, pp. 10 s.).
La situazione finanziaria dei coniugi non migliorò neppure sotto la curatela del marchese De Rosa, costringendo nel 1789 il duca e fratellastro di Andrea, Michele Sanfelice, a intervenire, pagando tutti i creditori e obbligando gli sposi all’immediata separazione. Nel 1791 re Ferdinando accolse i suggerimenti del curatore, orientato a proporre provvedimenti più radicali, in conseguenza dei quali la M. e il marito furono rinchiusi rispettivamente nei conventi di S. Sofia a Montecorvino Rovella e in quello dei Padri Ciorani a Nocera, mentre i loro figli rimasero nei collegi di Montecassino e di Magnacavallo. Dopo un breve ricongiungimento, avvenuto nel 1792 in occasione della nascita della terza figlia Emanuela, i due rimasero separati fino al 7 marzo 1794, giorno in cui Andrea organizzò la fuga della M. dal convento di S. Sofia. Tornati a Napoli andarono a stabilirsi in piazza Carità, nel palazzo di proprietà del marchese Emanuele Mastelloni, noto illuminista e futuro ministro di Grazia e Giustizia del governo repubblicano.
Nonostante i dissesti finanziari di quegli anni, Andrea Sanfelice conservò le cariche pubbliche di deputato del seggio di Montagna e giudice della corte del Baglivo, mantenendole anche dopo il mandato di cattura per debiti e il suo conseguente arresto, avvenuto nel 1797. Tale data consacrò definitivamente la separazione della M. dal giovane marito, del quale conservò sempre – nonostante la sua fama di donna dissoluta – un nostalgico ricordo.
Lontana dalla consapevolezza politica di Eleonora Fonseca Pimentel e al contempo priva della lucidità intellettuale propria dell’eroina rivoluzionaria, la M. si ritrovò suo malgrado invischiata durante la Repubblica Napoletana in una delle tante cospirazioni ai danni dei rivoluzionari, nota come la «congiura dei Baccher». Dopo la separazione dal marito, infatti, la M. aveva ripreso a frequentare un suo vecchio amico, Gerardo Baccher, tenente di cavalleria svizzero filoborbonico, il quale assieme con i suoi fratelli faceva parte di un nucleo di reazionari legittimisti, che avevano progettato un piano sovversivo – ideato in accordo con i capitani delle navi borboniche ed inglesi – che avrebbe consentito un attacco alla città di Napoli e la conseguente sconfitta dei repubblicani.
Baccher, invaghito della M. e temendo che potesse accaderle qualcosa durante il programmato attacco, le consegnò un «biglietto di assicurazione» che le garantiva l’incolumità e che le avrebbe salvato la vita qualora fossero ritornati i monarchici. La tradizione vuole che la M., preoccupata per la vita del suo amante – il repubblicano F. Ferri – abbia consegnato il salvacondotto a quest’ultimo, il quale immediatamente si premurò di comunicare al governo repubblicano i piani sovversivi, rivelando così la congiura (Colletta, p. 84).
Durante gli ultimi giorni della Repubblica Napoletana e in conseguenza dell’incauto gesto della M. – la quale aveva redatto la denuncia ufficiale con l’ausilio di V. Cuoco, suo amico e procuratore – i Baccher furono imprigionati e successivamente fucilati. La M., quindi, del tutto inconsapevolmente fu acclamata eroina della Repubblica, definita «illustre cittadina» sulle pagine del Monitore Napoletano (13 aprile 1799), finendo per apparire, anche agli occhi dei sovrani esuli, una repubblicana di spicco da sottoporre appena possibile a giudizio.
Sconfitta la Repubblica Napoletana (8 luglio 1799) e restaurata la monarchia borbonica, su tutto il Regno di Napoli la vendetta dei sanfedisti non si fece attendere. Scovata nella sua casa dai lazzari armati, la M. fu consegnata alla polizia borbonica e subito imprigionata con l’accusa di alto tradimento verso i reali. Difesa dagli avvocati d’ufficio G. Vanvitelli e G. Moles, iniziò a suo carico un processo dinnanzi ai giudici della Giunta di Stato, per la valutazione della condotta che aveva portato al fallimento della congiura realista e alla morte dei suoi ideatori.
I magistrati della Giunta di Stato – le cui carte furono integralmente distrutte nel 1806 su espressa volontà della regina Maria Carolina – si orientarono quasi tutti verso la condanna a morte della M. (Damiani, Guidobaldi, Speciale, Fiore, Sambuto), con la sola eccezione di un giudice che espresse voto favorevole all’assoluzione (Della Rossa). Nonostante le articolazioni giuridiche degli avvocati della difesa – i quali sostennero la non imputabilità della M. per avere impedito l'attuazione di una congiura – i giudici arrivarono comunque a formalizzare, a maggioranza, la sentenza di condanna alla pena capitale, emessa il 13 sett. 1799.
Dopo una sospensione della pena, in ossequio al regio dispaccio 7 sett. 1799 – che imponeva un processo rapido e «de mandato» nei confronti degli imputati, con l’obbligo a carico dei giudici di comunicare direttamente al sovrano le sentenze di morte prima della loro esecuzione – il 25 sett. 1799 il sovrano confermò la condanna, segnando così la sorte della Molina. La M. fu incarcerata nelle prigioni della Vicaria e, considerandosi ormai perduta, fu informata dell'esistenza di un’antica costituzione di Federico II che, «humanitate suadente» (Const. Sic., I, 24), differiva di quaranta giorni dopo il parto la condanna di una partoriente: la donna si dichiarò incinta, riuscendo così a rinviare di qualche mese l’esecuzione. Tuttavia, dietro espressa richiesta del padre dei defunti fratelli Baccher, Ferdinando IV ordinò che la M. fosse mandata a Palermo affinchè la visitassero medici di fiducia, i quali immediatamente scoprirono l’inganno accertando l’assenza della gravidanza ed eliminando definitivamente ogni causa impeditiva per l’esecuzione della sentenza.
La M. fu oggetto anche dell’interessamento della principessa Maria Clementina, moglie del principe ereditario Francesco, la quale in occasione della nascita di suo figlio Ferdinando (26 ag. 1800) chiese al sovrano la grazia per la M.: «Un foglio contenente la supplica di lei e le preghiere della principessa fu posto tra le fasce dell'Infante, così che il re lo vedesse; e diffatti quando egli andò a visitar la nuora, ed allegro e ridente tenea su le braccia il bambino, lodandone la beltà e la robustezza, vidde il foglio e dimandò che fosse. E' grazia, disse la nuora, che io chiedo; ed una sola grazia, non tre, tanto desidero di ottenerla dal cuor benigno di Vostra Maestà. Ed egli, sorridendo sempre: Per chi pregate? Per la misera Sanfelice...» (Colletta, p. 157). La volontà del sovrano fu però irremovibile. «Tutto, fuori che questo!» esclamò, disponendo così il trasferimento della condannata nella capitale (Helfert, p. 142).
Le cronache raccontano che la M. fu condotta l'11 sett. 1800 nella napoletana piazza Mercato, circondata dai frati dei Banchi di giustizia che la sorreggevano mentre saliva sul patibolo. Dopo averle sistemato la testa sul ceppo, il boia la fece inginocchiare ai suoi piedi con le mani giunte in attesa della mannaia. All’improvviso dal fucile di un soldato presente all’esecuzione partì inavvertitamente un colpo, che sorprese il carnefice il quale lasciò cadere la scure sul corpo della condannata, sbagliando però mira e conficcando la lama nella spalla della M.: per reciderle il capo il boia dovette servirsi di un coltello (Marinelli, p. 132) .
Fonti e Bibl.: P. Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825, Capolago 1834, II, pp. 74 s., 124 s., 143 s.; A. Dumas, La Sanfelice, Paris 1864; P. Calà Ulloa, Intorno alla Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta. Annotamenti di Pietro Calà Ulloa, Napoli 1877, pp. 158-161; F. Helfert, Memorie Segrete. Des Freiherrn Giangiacomo von Cresceri Enthüllungen über den Hof von Neapel 1796-1816, in Sitzungsberichte der philosophisch-historischen Classe der Kaiserlichen. Akademie der Wissenschaften (Wien), 1892, vol. 127, pp. 46-47, 141-142; A. Fiordelisi (a cura di), I giornali di Diomede Marinelli. Due codici della Biblioteca nazionale di Napoli (XV.D.43-44), Napoli 1901, pp. 130-132; V. Sheean, Luisa Sanfelice. Romanzo storico, Milano 1938; B. Croce, Luisa Sanfelice e la congiura dei Baccher, Bari 1966, pp. 9-15, 17-59; V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Torino 1975, pp. 310-313; V. Morra, Luisa Sanfelice. La sventurata del ’99, Roma 1979; H. Acton, I Borboni di Napoli (1734-1825), Firenze 1985, pp. 412, 483-485; B. Croce, Storie e leggende napoletane, Milano 1990, p. 305; Luisa Sanfelice. Martire involontaria della rivoluzione napoletana, a cura di M. Battaglini, Napoli 1997, pp. 14-30; M.A. Macciocchi, L’amante della rivoluzione, Milano 1998, pp. 57-69, 172-202; M. Forgione, Luisa Sanfelice. La tragica e commovente storia di un’eroina per caso nella Napoli rivoluzionaria del 1799, Roma 1999; A. Cardone, La congiura realista e antirepubblicana dei Baccher e Luisa Sanfelice, Napoli 2002, pp. 33-46, 69-76; Diz. del Risorgimento nazionale, IV, pp. 194 s.; Enc. Italiana, XXX, p. 640.