BERGALLI, Luisa
Nacque a Venezia (Mazzuchelli) il 15 apr. 1703 da Giovan Giacomo, piccolo commerciante piemontese, e da Diana Ingali. Sebbene di umile condizione fu tenuta a battesimo da due nobili: Luigi Mocenigo e Pisana Comaro (le fu imposto il nome di Aloisa Pisana), ai quali la B. non mancheràdi rivolgersi sperando nella protezione delle due famiglie patrizie. Invano, ché sulla sorte della B. non influiranno mai inaspettati colpi di fortuna, e invece tutta la carriera letteraria sembra svolgersi coerentemente intorno ad alcuni dati della sua indole e della prima formazione culturale: un senso niente affatto arcadico dei rapporti umani e l'istintiva fierezza di un'infanzia laboriosa, donde la naturale ritrosia ad esibirsi impreparata alle prove dell'ingegno - un malcelato timore di fronte all' "improvvisazione", pur così diffusa nell'ambiente che doveva divenirle familiare -, e il desiderio riflesso di costituirsi una solida preparazione letteraria, sulla base inattaccabile e oggettivamente valida della scienza erudita.
Gli amici della giovinezza (Apostolo e Caterino Zeno, Antonio Sforza, Luigi Quirini, il Seghezzi), che furono poi gli amici della vita, dopo il breve apprendistato pittorico alla scuola di Rosalba Carriera, non contraddicono il costante impegno verso una attività meditata e per nulla dilettantesca che pur s'avverte tra i fastidi delle traduzioni e la fretta degli adattamenti teatrali, tra gli incarichi, più richiesti che amati, ma infine accolti quasi senza discriminazioni, di biografa e di prefatrice cui la costrinsero le disavventure in casa Gozzi.
Da Antonio Alberghetti, somasco, ricevé una discreta cultura umanistica; dal padre, che pure aveva nutrito qualche ambizione letteraria, ereditò la pratica nella lingua francese, ma soprattutto con lo Zeno ebbe familiarità fin dalla giovinezza: il poeta ufficiale della corte viennese si confida spesso con la giovane allieva, la consiglia a stampare i primi lavori, raccoglie e giunge persino a trascrivere personalmente le poesie della B. per presentarle all'" augustissimo padrone" il quale - assicurava - "le considera come cosa rara e pregevole".
Per suggerimento dello Zeno il debutto artistico della B. avvenne proprio con un melodramma, l'Agide, rappresentato a Venezia al Teatro di S. Moisè nel 1725, e da questo momento le date più significative nella biografia della scrittrice coincidono con la pubblicazione delle maggiori opere.
L'invito a comporre l'opera per il celebre teatro che aveva ospitato l'Arianna di Monteverdi era stato veramente rivolto allo Zeno il quale, declinato l'incarico in tempo utile perché la B. potesse presentare il proprio lavoro e il teatro non avesse altre possibilità di scelta, favorì il successo della rappresentazione con un intervento diretto, anche se anonimo, sul Giornale dei letterati d'Italia, che all'indomani della recita segnalava "una giovane di non molti anni e di non molto studio… che scrive con facilità, con chiarezza e dolcezza di verso e con elevatezza e verità di sentimenti e pensieri". In realtà l'opera, musicata da Giovanni Porta, non rivelava doti d'eccezione, ma solo una rigida e scolastica osservanza delle regole che il maestro cercava di imporre al melodramma. La ricerca della verosimiglianza, l'eliminazione di ogni elemento comico che potesse depauperare la dignità letteraria della vicenda "tragica", la riduzione della trama a un contrasto fondamentale (fra amanti, s'intende, e conclusosi comunque con lieto fine) rappresentarono il progranuna della B. in questo lavoro che sullo sfondo di truci imprese guerresche finisce con l'esaltare la vittoria di Antianira sui propri sentimenti e al dissidio fra Cassandro e Agide sostituisce quello fra la protagonista e Timocla per l'amore di Darnida. A voler ricercare qualche spunto di originalità (da un angolo visuale che tenga presenti i risultati successivi a questa prima prova teatrale) è proprio il personaggio di Antianira ad offrire le migliori anticipazioni: la fierezza con cui domina e infine elude la propria passione è un temalirico autentico che la B. tenta, con esiti incerti, di drammatizzare nel contrasto delle parti; il dolce-amaro delle ariette; che l'obbedienza alle regole dello Zeno imponeva alla fine di ogni scena, crea un divario troppo accentuato rispetto al caldo abbandono di certi "a solo" registrati su un tono di patetica magniloquenza.
è già implicita in questi primi risultati la predilezione che la B. mostrerà per altri generi di teatro: la tragedia e la commedia di carattere, anche se ancora (e per vari anni) la scrittrice avverte l'esigenza di esercitarsi sull'esempio dello Zeno e il tributo al maestro si realizza naturalmente nella stesura di melodrammi (Elenia, Venezia 1730, rappresentato al S. Angelo con musica di T. Albinoni) e di oratori (Eleazaro, Vienna 1739, Musicato da G. Bonno): opere - ed è quasi trascurabile rilevarlo - che vivono esclusivamente sulla scia della modesta fortuna dell'Agide, salvo che un personaggio non offra alla B. lo spunto per qualche repentino scandaglio psicologico (come avviene per Ismene nell'Elenia) o quando la trama imposta dalla tradizione non presenti qualche possibilità di variante suggerita dal desiderio di situazioni contrastanti e patetiche. Ma Teba, la tragedia che la scrittrice pubblicò tre anni soltanto dopo l'apparizione del primo melodramma (1728), è già opera personale e quasi interamente esorbitante dall'influsso dello Zeno.
Nella lettera dedicatoria a Marco Miani la B. ricordava come fosse esortata dal gentiluomo veneziano a scrivereunlavoro "senza scrupolo di trasgredire le leggi delle greche tragedie, alla cui secchezza ed orribilità mal si accomodano i geni nostri, e senza incorrere in certe improprietà che purtroppo sugli italiani teatri si soffrono". L'affermazione aveva un valore programmatico che supera largamente il piano dell'opera, la quale, condiscendendo al gusto imperante dell'epoca e alle più fortunate teorizzazioni in materia di teatro tragico, non poteva non allinearsi accanto alla maffeiana Merope, pur scartando il grecismo integrale di un Lazzarini. Alle regole del Maffei e a un ideale di superiore e classica compostezza la B. sacrificava persino l'elemento amoroso (segno di un netto distacco con la produzione melodrammatica), ma, nel rappresentare la contrastata psicologia della protagonista, combattuta fra la coscienza del dovere e il desiderio di liberazione da una tirannide ingiusta e crudele, la scrittrice si avvicinava a un modello (quello raciniano) più congeniale alla propria indole letteraria e tanto suggestivo da configurarsi come la sintesi dei precedenti tentativi drammatici. In questa prospettiva la scelta dell'argomento poteva essere davvero affidata all'arbitrio di una lettura occasionale ("Nella vita di Pelopida, riferita da Plutarco, - scrisse la B. a giustificazione del tema - leggesi tanto di Alessandro, tiranno di Fere, quanto bastò a trar l'argomento di questa tragedia. Degli episodi aggiunti, di qualche carattere, o storico accidente nobilitato, non do ragione altrui, come di cose già mille volte conosciute e dichiarate per necessarie"), mentre l'impegno della rappresentazione verteva in maniera sempre più puntuale su quegli elementi moralistici di cui la B. diverrà fra non molto divulgatrice, oltre che interprete, traducendo direttamente da Racine.
Ad altro ordine di considerazioni induce la commedia Avventure del poeta (Venezia 1730), da considerare come il miglior tributo che la B. abbia offerto al teatro contemporaneo.
Confluiscono in quest'opera le esperienze dirette della scrittrice: i disagi di una vita interamente dedicata alla poesia, con molte illusioni e scarsa fortuna, sono rappresentati dalla misera esistenza di Orazio, destinato a "ber sempre al fonte d'Elicona e a non mangiar mai", mentre la sorella Cammilla (altro aspetto di un personaggio chiaramente autobiografico) è una ragazza semplice e piena di buon senso, garbata e sorridente, che sostiene con il proprio lavoro le responsabilità dell'intera famiglia, meglio del padre, troppo arrendevole rispetto alle ambizioni di Orazio ed eternamente illuso. di cavar guadagni e protezione dal favore dei. potenti. Prospero, mercante, vive serenamente dei modesti risparmi, depositario di una virtù solida e istintiva; il conte Valerio e la contessa Bianca sono invece i nobili incostanti e superbi, obiettivi prescelti per una satira che si svolge con monotonia e quasi senza soluzione di continuità in tutti gli atti della commedia. La quale non è sfuggita all'incauta tentazione critica di essere considerata come precorritrice delle aperture più decisamente polerniche del teatro goldoniano, o magari della satira pariniana, mentre ad una lettura più attenta si rivela la matrice intimista (terenziana, si potrebbe dire, sottolineando un amore letterario al quale la B. rimarrà lungamente fedele) della polemica, intesa a ribadire le virtù di una umanità appartata, consapevole e fiera della propria condizione, contro la pratica mondana di una falsa élite soprattutto ignorante.
La commedia vive nei caratteri dei suoi personaggi "positivi" più che nei contrasti viziati da una naturale pigrizia di invenzione; nella ricerca di una esatta connotazione psicologica (che dà risultati approssimativi specie se rapportati ai modelli francesi tenuti sicuramente presenti dalla B.) più che nell'inerzia delle scene tutte improntate a una medesima situazione drammatica. A mezza strada tra Le cerimonie del Maffei e l'opera di un altro erudito (e solo occasionalmente scrittore drammatico), Il poeta, di Girolamo Baruffaldi, le Avventure del poeta trovano un'esatta dislocazione nell'ambito di questo teatro erudito che per la prima volta tenta di affrancare la figura dell'uomo di lettere dalla maschera caricaturale di cortigiano che gli aveva imposto la poesia burlesca innalzandolo a un grado di dignità artistica e morale. Il riconoscimento dei meriti della B. sembra doversi contenere in questi termini, limitando quei tentativi di recupero in chiave illuministica che non furono estranei ad alcuni contemporanei, già impegnati sul terreno della nuova ideologia.
Passando dal campo della poesia e dei teatro a quello dell'erudizione non si avverte per la B. quel distacco qualitativo che sarà invece approfondito dai philosophes della generazione immediatamente successiva. Anche la raccolta dei Componimenti poetici delle più illustri rimatrici di ogni secolo (Venezia 1726) s'inquadra insomma in un arco perfettamente coerente di attività che scopre nell'erudizione un motivo d'orgoglio letterario, e intanto prepara alla cultura illuministica il sostegno del pubblico femminile sfatando anche in questo campo l'effetto ridicolo di una maschera: quella della précieuse. Attraverso l'invadente e canora prodigalità delle improvvisatrici, fra i trattatisti in vena di galanterie e i severi censori delle attitudini femminili (guidati dal principe della scienza erudita, il Muratori, che intervenne con un giudizio tutt'altro che lusinghiero a proposito del Trattato degli studi delle donne di N. Bandiera ove, non a caso, si presentava l'opera della B.), la letteratura che giunge alla trionfale rivincita della Teotochi-Albrizzi passa anche per la benemerita antologia della B. alla quale va il merito di un ricorso, almeno intenzionale, alla filologia e alla storia della critica.
Per la raccolta poté giovarsi dell'aiuto di illustri collaboratori: da Alvise Mocenigo che le facilitò la consultazione dei codici della Marciana, a Orazio Amalteo che la B. ringraziava per l'invio di un manoscritto contenente una poesia della Accoramboni, da Antonio Sforza che le mise a disposizione la biblioteca del Soranzo, allo Zeno del quale poté consultare, oltre che la ricchissima libreria, anche la raccolta dei manoscritti che l'erudito aveva allestito in previsione di una storia generale della letteratura italiana. Fra i repertori che presentavano le rime di poetesse si valse sicuramente delle raccolte del Domenichi (Rime di diverse nobilissime donne, Lucca 1559) e del Recanati (Teleste Ciparissiano, Poesie ìtaliane di rimatrici viventi, Venezia 1716), s'intende, integrate con quei testi che le fu possibile raccogliere direttamente dalle scrittrici contemporanee. Utilizzò, su esplicito invito dello Zeno, i Commentari del Crescimbeni e le Rime scelte dei poeti ferraresi antichi e moderni curate dal Baruffaldi (Ferrara 1713); per Isabella di Morra, Lucrezia Marinella e Veronica Gambara si valse delle Rime pubblicate nel 1693 dal Bulifon e del medesimo editore tenne presenti le Rime di cinquanta poetesse ristampate nel 1695, nonché le Rime della Sig. Laura Terracina detta nell'Accademia degli Incogniti Febea (Napoli 1692). Quanto al rimanente, cioè al copiosissimo materiale non ancora raccolto in sillogi, il ricorso alle edizioni cinque o secentesche avvenne di solito in maniera affrettata e meccanica (come nel caso di Vittoria Colonna) senza una sufficiente informazione critica e soprattutto senza la cautela di collazionare il materiale più facilmente reperibile con le stampe più autorevoli (o almeno ritenute tali dalla contemporanea cultura filologica). Ne derivano scorrette lezioni e non di rado grossolani errori di attribuzione di fronte ai quali lo Zeno raccomandava invano il massimo della prudenza: "Veggo che avete fretta di dar fuori la vostra raccolta, per non perder l'occasione della dedicatoria al sig. cardinale Ottoboni, ma queste non son cose da potersi fare all'infretta e su due piedi… Pure se non potete fare altrimenti, date fuori quello che avete raccolto col titolo di primo volume riserbandovi di darne la continuazione in altri". Le due parti della raccolta uscirono invece contemporaneamente, in un volume unico che rivela chiari indizi di compilazione affrettata (scarse le note biografiche introduttive e non prive di inesattezze, impreciso l'indice dei nomi, abbondanti gli errori di stampa), né la B. ebbe la consolazione di vedere ricompensata la propria fatica da parte del facoltoso e distratto dedicatario.
Dalla filologia del buon gusto all'erudizione sentimentale il passo è ovviamente brevissimo. Ristampando nel '38 le Rime di Gaspara Stampa l'amore della poetessa cinquecentesca per il nobile Collatino si intrecciava con la vicenda sentimentale della B. per un discendente del Collalto, il conte Antonio Rambaldo. Ma l'edizione, che poco aggiunge a quella curata da Cassandra nel 1554, è comunque documento di notevole interesse letterario perché testimonia, come per molte scrittrici incluse nella Raccolta,gliorientamenti definitivi del gusto arcadico e fissa per la Stampa il momento di totale recuperó dopo le perplessità derivanti dalla poetica controriformista e dal gusto barocco. Più interessante è la traduzione del teatro di Terenzio (Le Commedie tradotte in verso sciolto, col testo a fronte, Venezia 1733-35, ma le singole versioni furono pubblicate separatamente tra il 1727 e il '31), anch'essa ideata con propositi eruditi, anche se ben presto dimenticati di fronte a un'opera che sollecitava da parte della traduttrice, un'adesione pressoché incondizionata all'humanitas dell'originale.
Col 1738 (anno in cui sposò Gasparo Gozzi) s'apre nella vita della B. un'epoca nuova, non felice, e neanche sorretta da quegli interessi che la scrittrice aveva tentato in vario modo di far coincidere con un'attività coerente, sì che più difficile appare il tentativo di distinguere nell'abbondante produzione della traduttrice e della poetessa i caratteri di un impegno più che occasionale.
Ma intanto sembra lecito considerare con una certa indulgenza il matrimonio con Gasparo Gozzi "sulla cui fresca età di vent'anni la Musa di trenta aveva già fatto fondamento", secondo il giudizio del Tommaseo, il quale non mancava di ricondurre un quadro di vita familiare a triste esempio di moralità infranta, contaminata dal peccato originale della disuguaglianza.
Nell'affetto coniugale forse alla B. venne meno l'appassionata abnegazione delle eroine melodrammatiche, ma non un'intima e sincera fedeltà, anche quando il marito "scordando un lungo canzoniere petrarchesco che aveva composto per lei ne' tempi andati - parla un altro moralista, Carlo Gozzi - da lei retribuito con cinque figliuoli, la trascurava, e non facendole più nemmeno un sonettino, rivolgeva i suoi carmi a un altro idoletto". Dal matrimonio poi non sortì che l'astio dei parenti e le ansie per un patrimonio dissestato dall'eccessiva prodigalità, la noncuranza di Gasparo e i disagi di una vita appartata nell'altera e cadente dimora di Vicinale, la spietata cronaca familiare di un erede (Francesco) recuperato a stento al bene della ragione, e la facilità inventiva di due figlie. (una delle quali, Angela, lodata dal Baretti con un entusiasmo largamente eccedente l'ammirazione per la madre) che venne ad arricchire lo "spedale poetico" di casa Gozzi - sono ancora parole di Carlo - ove la letteratura era quasi un'epidemia (di un terzo sacerdote. d'Arcadia, Giambattista, appena si ricorda un poemetto su Le allegrezze d'Apollo).
Coincide proprio col periodo di maggior svogliate2za e di divorzio completo dalla poesia la traduzione del teatro raciniano (Venezia 1736-37): opera forse ideata al tempo della Teba,senonché l'eroismo tragico s'era con gli anni diradato nell'animo della B., che fornì la miglior prova nella versione dei prosastici Plaideurs. Nel 1739 comparve a Venezia la Storia ecclesiastica di monsignor Claudio Fleury, di cui Gasparo Gozzi tradusse "il primo Tomo; il resto la moglie". "Dicono che a tal uso - afferma il Tommaseo - adoprasse i promessi sposi delle sue figliuole, tornando così a' patriarcali costumi del fare allo sposo pagare la dote": e se l'ironia si spinge sino al fondo delle cose, si dovrà scorgere dietro l'allusione ai patriarcali costumi l'insofferenzà verso un tipo di moralità che l'ortodossia tommaseiana non avrebbe certamente potuto assolvere, fosse pur mediata da ragioni letterarie (se non addirittura editoriali), più che dettata da motivi di proselitismo giansenista. Quelle ragioni - valga l'approssirnazione della B che riflette in gran parte le perplessità critiche dell'epoca - che consigliarono alla traduttrice una particolare scelta dei modelli (da Terenzio a Racine e da questo a scrittori di quart'ordine: Boursault o Destouches) e suggerirono nel 1745 la versione del molieriano Misanthrope, progettata forse su indiretto invito dei Baretti, come le contemporanee traduzioni del Gozzi.
Poi bruscamente cominciò il declino. Si può dire che in un biennio, durante la sfortunata attività di impresaria del Teatro S. Angelo, la B. dette fondo a tutte le risorse - ed erano modeste - della propria dote inventiva, mettendo a repentaglio un'intera carriera letteraria nel vano tentativo di assestare una situazione familiare ormai sull'orlo del fallimento. Tra il 1746 e il '48 la "progettante poetica" compone intermezzi e drammi giocosi (Il conte Nespolo, Li tre cicisbei ridicoli), inventa commedie romanzesche a imitazione del Chiari (La moglie fantastica, Le nozze non provvedute) o intrecci sentimentali (Il vero gentiluomo, L'uomo di buon cuore, Pellegrino in Provenza): opere quasi esclusivamente suggerite dai gusti assai incerti del pubblico (e mantenute anonime nella maggior parte dei casi.), se si eccettua forse La matrona d'Efeso, scritta sulla scia dell'Edipo alla Corte che Gasparo aveva imitato dal Boursault, Ilgran mondo,derivato dallo stesso autore, e Con le belle e con le buone si guadagnan le persone, Gli spropositi, Il vero amico,ove le tendenze chiaramente moraleggianti del modello (Destouches) sembrano meglio adattarsi alle attitudini della Bergalli. I Maccabei del La Motte (1751) e Le Amazzoni della Du Boccage (1756) furono le ultime traduzioni della B. e segnarono la fine della collaborazione letteraria col marito.
Da questo periodo la scrittrice sembra volontariamente sottrarsi ad ogni attività troppo impegnativa, pur mantenendo rapporti con eruditi e letterati nella tradizionale forma della partecipazione alle raccolte pratiche. Raramente è dato riscontrare una produzione così abbondante, pur nell'ambito della più fitta e prolissa rimeria settecentesca: Irminda Partenide (così fu chiamata in Arcadia) compose versi per nozze, monacazioni e conferimenti di lauree, di encomio e di compianto, petrarchesche e satiriche (ove saranno da rintracciare i momenti migliori di una poesia che sospinge gli spunti realistici entro i più vasti limiti del ritratto o del sermone morale).
Ma se si considerano gli anni in cui si rende più intensa, e quasi giornaliera, l'offerta lirica della B. (dal '60 fino all'anno dellasua morte) si ha l'impressione di una letteratura superficiale e attardata al confrontodi quella, tanto più sollecitante, di una Giustina Renier o di una Teotochi-Albrizzi.
Dopo la lunga stagione delle traduzioni - e con ciò s'intenda la prospettiva di una letteratura riflessa, che permette, di fronte ai modelli, una spiccata indipendenza nell'esercizio stilistico - l'ultima attività della B. rientra nel solco di una vecchia tradizione priva di motivi ideali e resa ancor più sterile dalla chiusa e travagliata esistenza della scrittrice. Il Pindemonte, così attento ai nuovi valori della letteratura di fine secolo, finiva col paragonarla alla Zappi, e già al Metastasio, nel 1770, sembrava che la produzione della B. potesse perfettamente iscriversi in una sfera di cultura cui il poeta cesareo era rimasto sempre fedele: "Il bellissimo sonetto con cui la gentilissima signora contessa Bergalli ha tanto voluto onorarmi, proponendosi il mio, fa l'elogio del cuore e della mente di chi l'ha prodotto. Sento purtroppo di non aver meritato gli eccessi della sua gratitudine, ma la nuova morale del nostro secolo illuminato ha resi così rari gli adempimenti dei più sacri doveri che non è strano se passa oggimai per virtù non comune la repugnanza di violarli".
La B. morì nel 1779.
Fonti e Bibl.: La segnalazione dell'Agide si legge nel t. XXXVII(1726) del Giornale dei letterati d'Italia, p. 539; la lettera citata del Metastasio è in Epistolario, Milano 1954, ad Indicem. Le citazioni da Carlo Gozzi appartengono alle Memorie inutili (Bari 1910), ad Indicem, quelle da Tommaseo a Studi critici, I, Venezia 1843, pp. 75 ss.
Notizie biografiche e spunti critici sull'opera della B. si trovano in tutta la bibliografia gozziana. Più particolarmente v. P. Nurra, L. B., in Emporium, marzo 1899; M. Mioni, Una letterata veneziana del sec. XVIII, Venezia 1908 (rec. in Giorn. stor. della letter. ital., LVI [1909], p. 262); C. E. Tassistro, L. B. G. La vita e l'opera sua nel suo tempo, Roma s. d. (rec. in Giorn stor. della letter. ital., LXXV [1920], p. 293), F. Pedrina, L'accademia gozziana, Milano-Rorna-Napoli 1925, pp. 39-43; A. Ravà, Un sonetto poco noto di Carlo Goldoni, in Fanfulla della Domenica, XXXI (1909); B. Brunelli, Veneziane colte del Settecento, in Emporium, XLIII (1937), pp. 557-565; Id., Corrisp. venez. del Metastasio, in Atti dell'Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, CXI (1952), pp. 165 ss.; G. Natali, Il Settecento, Milano s. a., ad Indicem.
Sulla B. scrisse un romanzo, meno che mediocre, Alfredo Panzini: La sventurata Irminda!, Milano 1932.