LUIS de León
Poeta e mistico spagnolo, nato a Belmonte nell'agosto 1527 o 1528, morto a Salamanca il 14 agosto 1591. Nei primi anni seguì la famiglia a Madrid e a Valladolid (1533), al seguito della corte, di cui il padre, Lope de León, era avvocato. Quando questi passò a Granata come "uditore" alla cancelleria, Luis lasciò il secolo per il convento agostiniano di San Pedro in Salamanca; e qui, dopo il periodo di prova, fece professione il 29 gennaio 1544. All'università di Salamanca seguì i corsi teologici e vi ottenne, dopo qualche mese di studî ad Alcalá e a Toledo, il supremo grado di "maestro di teologia" (1560): l'anno seguente fu nominato titolare di questa cattedra. Dal 1561 al 1572, L. de L. formò una fiorente scuola, che in lui ammirava la profonda conoscenza della Sacra Scrittura, la vivacità dialettica e la parola chiara, persuasiva, calda di lirica ispirazione. All'insegnamento dei suoi maestri e amici egli aggiungeva una più larga sensibilità e un gusto squisitamente umanistico e poetico. Ma, fra le beghe universitarie e le invidie di grandi e piccoli maestri, L. de L. non sempre ne riportava soddisfatto il suo orgoglio d'uomo né gli era possibile eluderne le insidie. I vecchi contrasti di un ambiente chiuso e gretto - che nella sua angustia scolastica ingrandiva i rancori personali e li misurava alla stregua delle grandi questioni - scoppiarono e assunsero veste legittima attorno al testo della Vulgata. Contro L. de L. e i maestri G. de Grajal e M. Martínez Cantalapedra, che nel ripubblicare la Bibbia di F. Vatalbo (1545) intendevano rivederla secondo l'originale ebraico, si schierò il partito degli scolastici intransigenti, con a capo León de Castro e Bartolomé Medina, che finalmente ritenevano di dare giusta causa alla loro antica e malcelata ostilità. L. de L., arrestato il 27 marzo del 1572, usciva dalle carceri dell'Inquisizione di Valladolid il 7 dicembre 1576, con un giudizio di piena innocenza e col diritto di rioccupare la sua cattedra e di riaffermare la diritta libertà della propria coscienza. Una nuova denunzia (1582) apparve, durante il processo, infondata, e nuovamente si palesarono gli astî di scuola e di convento che tendevano a camuffarsi dietro i problemi dommatici.
Ma L. de L., tutto astratto nella sua opera di poesia, ritrovava la propria misura spirituale nei solitarî colloquî con sé stesso e nella meditazione del divino, dove obliava gli uomini e le loro miserie terrene e si riscattava in una più grande e luminosa libertà: tanto che la sua opera migliore fu pensata durante l'ingiusta prigione e le sue più belle liriche nacquero durante i silenzî della notte, nel rifugio de "La Flecha", il podere degli agostiniani di Salamanca.
Alla diretta e originale comprensione delle lingue orientali - tanto che nei commenti e nelle traduzioni dei testi sacri pare rivivere con contemporanea evidenza la fervida e visionaria anima biblica - L. de L. univa la conoscenza delle letterature classiche in cui si affinava di anno in anno, sicché le sue versioni da Orazio e da Virgilio, i cui tentativi risalgono ai primi studî, si facevano via via più sicure nella lettera e sempre più aderenti allo spirito. Dotato di quella geniale versatilità che è particolare educazione degli uomini del Rinascimento, L. de L. portava nelle sue vaste conoscenze e nelle sue molteplici letture una singolare disciplina mentale che rendeva limpidissimo ed essenziale il suo pensiero. E a superare il momento della pletorica erudizione e dell'astrattezza scolastica, operava soprattutto un senso poetico innato e sempre più consapevole; la sua attività di mistico e di esegeta è, infatti, come dominata da questo insopprimibile gusto estetico. Per ragioni di libera ispirazione, più che per bisogno di divulgazione, egli aveva tradotto il Cantar de los Cantares (1561) - rimasto modello di profonda interpretazione biblica - con lo stesso fervore lirico con cui voltava nel puro linguaggio castigliano le odi d'Orazio e le egloghe e le georgiche di Virgilio, o la prima olimpica di Pindaro, o qualche lirica del Petrarca e del Bembo. Anzi, dalle Prose della volgar lingua di quest'ultimo, egli traeva lume per giustificare la bellezza del volgare, la necessità di farne duttile strumento per l'intelligenza dei testi sacri e delle opere classiche, la legittimità che esso aveva di esprimere l'attuale vita del pensiero, e, infine, per rintracciare le tradizioni della lingua spagnola e assumerne coscienza sul modello di quella italiana.
Il primo lavoro originale, De los nombres de Cristo (ideato in carcere; edizione della prima parte nel 1583, definitiva nel 1586), tutto acceso di interna tensione lirica, sviluppa una prosa lucidissima che ha l'ampiezza del periodare classico senza intemperanze filologiche e rinnovato e sveltito dalla più semplice sintassi castigliana. In forma dialogica si esalta l'umanità di Cristo, attraverso la celebrazione dei suoi attributi e l'esegesi di quei passi che ne contengono il "nome", sicché l'opera concepita e condotta con apparente frammentarietà si ricompone in una superiore unità e si risolve in un lirico, continuo, incalzante commento alla fede cattolica. Si avverte, accanto alle tenaci letture cristiane e patristiche, e soprattutto agostiniane, l'operosa influenza platonica, che dà alla sua concezione religiosa un tono più riposato e più contemplativo e conferisce all'intuizione del divino la levità poetica del mito. Forse qualche pagina è incerta, e in altre sono esuberanti un'accensione oratoria e una squisitezza verbale che vanno a scapito della schietta commozione; ma anche di questi difetti si libera La exposición del Libro de Job (iniziata forse circa il 1565, ma ripresa e suggellata qualche mese prima della morte), che rispecchia - in una prosa sobria, quieta, distesa - non soltanto la pensosa maturità degli anni, ma un diverso orientamento stilistico, più agile e di più vigore rappresentativo, di cui il primo grande esempio egli aveva ammirato e lodato nella Vida di Santa Teresa, per cui scrisse un'entusiastica prefazione (1588-89).
Altrettanto contenuta è la parola di una celebre operetta, La perfecta casada, che si accompagnava all'edizione dell'opera maggiore, ma certo di diversa intonazione morale, rivolgendosi alla giovane sposa con intenti edificanti, improntati ora a una tenera umiltà di sentimento, ora soffusi di un soave profumo verginale. Ma nella prima grande opera si traduce con maggiore ricchezza quel suo misticismo, piuttosto psicologico e lirico, anziché dottrinario. Sono frequenti e pieni i momenti di pura poesia, in cui il frate si scioglie dall'aderenza al testo religioso e filosofico, per cantare, al di sopra della sua terrena sofferenza, un desiderio di bellezza, un'esperienza di celeste comunione con il creato, un senso di pace sovrumana. Sono gli stessi motivi che ritornano nelle sue mirabili liriche, alcuni più serrati nella forma metrica e più conclusivi nell'attimo fantastico che volta per volta li suscita. Stupenda è la loro purezza cristallina, raggiunta attraverso la doviziosa esperienza della poesia umanistica e petrarchesca, ma semplificata e raggentilita dal canzoniere di Garcilaso de la Vega (1543), dal quale L. de L. derivò la musicale scioltezza di certe forme metriche; cosicché, mentre a Siviglia Fernando de Herrera impreziosiva la lirica amorosa, in L. de L. trovavano più intrinseca originalità di contenuto e maggiore naturalezza di tecnica i poeti della scuola salmantina. In queste poesie - che il dotto teologo, pure curandole con amorosa revisione, non pubblicava perché le considerava alcune frutto acerbo di giovinezza, altre puramente occasionali e tutte come brevi e oziosi frammenti di soste sentimentali lungo l'aspro cammino della vita e della pratica esegetica - c'è una visione universale delle cose umane e celesti più travagliata e più personale, se non più alta, che nelle altre opere. La sua anima si riconosce e si effonde nelle ore notturne, quando tace l'assillo delle passioni e riposano le lotte degli uomini; egli sogna e percorre nella sua lirica esaltazione le profondità della vòlta celeste, le luminose armonie stellari, il murmure dell'acqua che scende a valle, la vaghezza musicale che desta indefinite risonanze di pace; ma soprattutto misura la propria ansia di ascesa verso le mistiche altezze: L. de L. è il poeta dei silenzî e delle solitudini, sempre inseguito dalla nostalgia di spazî interminati e di oasi spirituali. La sua ispirazione, che deve al sorriso oraziano e di più alla pastorale gentilezza di Virgilio, nel fondo è non poco idillica, sognante il rifugio della campagna, i misteriosi e ingenui aspetti della natura, la vita appartata in cui ascolta le sue interne voci; ma il momento arcadico di questa sensibilità è superato dalla travagliosa volontà con cui il poeta ricercava questi riposi, durante i quali comunicava con Dio e avvertiva l'infinita grandezza del creato.
Ediz.: Obras, ed. A. Merino, Madrid 1816, voll. 6; riprod. di C. Muiños Sáenz, Madrid 1885, voll. 4; Bibl. aut. esp., XXXV, LIII, LXI e LXII; De los nombres de Cristo, ed. F. de Onís, Madrid 1914-1921, voll. 3, con introd.; le Poesías, a cura dell'Academia esp., Madrid 1928, voll. 2.
Bibl.: Gli atti del processo, in Colección de docum. para la hist. de España, X (1847), pp. 5-575; XI, pp. 5-358. Per la ricca bibl. su L. de L., cfr. le opere di carattere generale: F. de Onís, Sobre la transmissión de la obra liter. de L. de L., in Revista de fil. esp., II (1915), pp. 217-257; A. Coster, L. de L., in Revue hisp., LIII-LIV (1921-1922); J. Fitzmaurice-Kelly, L. de L., Oxford 1920; A. F. G. Bell, L. de L., un estudio del renacimiento español, Barcellona 1925; A. Tavera Hernández, Datos documentales para la vida académica de fray L. de L., in Revista de archivos ecc., XXXV (1931), pp. 422-445.