LUIGI XVI re di Francia
Nacque a Versailles il 24 agosto 1754 dal delfino Luigi e da Maria-Josèphe di Sassonia. Divenuto delfino alla morte del padre (1765), sposò nel 1770 Maria Antonietta di Austria. Il suo avvento al trono nel 1774 fu accompagnato dalle più rosee previsioni. Il suo atteggiamento ostile alla Du Barry aveva reso il principe popolare, la sua semplicità di vita faceva sperare in una repressione dell'anarchia spendereccia che regnava nell'amministrazione e nella corte, l'onestà dei suoi costumi dava affidamento che l'era della galanteria fosse ormai tramontata. E L. espresse subito intenzioni corrispondenti ai voti generali, e diede il buon esempio, riducendo le proprie spese personali. Ma nelle cure del governo fu inferiore al suo compito. Fra i partigiani di Choiseul e i suoi avversarî non prese una posizione netta: per compiacere a questi richiamò J.-F. de Maurepas, nominò Ch. de Vergennes e de Muy; per ammansire i primi licenziò d'Aiguillon e permise il ritorno di Choiseul a corte. Il suo primo errore grave fu la restaurazione dei parlamenti, che la vittoria rese più indocili e riottosi. Ciò tuttavia accrebbe da principio la sua popolarità, e la consacrazione reale, che avvenne a Reims col vecchio cerimoniale, diede luogo a manifestazioni di sincero entusiasmo. Turgot trovò nel re un pieno consenso alle sue vedute, ma non quell'appoggio fermo e coraggioso per il quale soltanto si potevano attuare riforme non accettate certo pacificamente dai ceti che colpivano. Nella guerra delle farine, L. consentì alla repressione voluta da Turgot, ma non osò condurre fino in fondo la ricerca e la punizione dei responsabili. E quando si sferrò l'attacco dei privilegiati, dopo avere sostenuto per un certo tempo il suo ministro, si lasciò indurre a licenziarlo. Un fatto simile avvenne con Necker. Quando le opposizioni cominciarono a ingrossare, e il ginevrino domandò poteri più vasti, il re glieli rifiutò e Necker si dimise. Soltanto nella politica estera L. seppe assicurare al governo continuità ed energia. Il merito principale fu certamente di Vergennes, e lo dimostrò la rapida decadenza del prestigio francese dopo la sua morte; ma non bisogna dimenticare che L. collaborò assiduamente all'opera del ministro, la difese da tutti gli attacchi e la seppe preservare dai ripetuti tentativi d'intromissione della regina.
Il licenziamento di Necker aveva dato una grave scossa alla fidueia fin allora riposta nel re. E peggio fu quando si giunse al ministero di Ch.-A. de Calonne, l'uomo del conte di Artois e dei Polignac. Invece di seguire Vergennes, che consigliava di decidere le riforme nel Consiglio e imporne la registrazione ai parlamenti, il re consentì alla convocazione dell'Assemblea dei notabili, che fu il preludio degli Stati generali. Caduto Calonne, non volle chiamare Necker e sebbene avesse una speciale antipatia per È.-Ch. Loménie de Brienne, se lo lasciò imporre dalla camarilla della regina. La lotta coi parlamenti per gli editti fiscali, che portò alla caduta del ministro, fu seguita da una capitolazione del re che indebolì sempre più il suo prestigio. Il richiamo di Necker e la convocazione degli Stati generali ristabilirono momentaneamente la fiducia e l'ottimismo. Ma quando si delineò l'urto fra i privilegiati e il terzo stato, L., invece di erigersi arbitro fra le parti o di conquistarsi le simpatie e l'appoggio di questo, seguì passivamente gli eventi e si lasciò rimorchiare dai primi ordini, i quali nonché potessero difendere la monarchia, avevano bisogno di esserne difesi. Da quest'alleanza di due debolezze derivano per buona parte gli errori che affrettarono la caduta del regime.
Quando nel 1789 il terzo stato si proclamò Assemblea nazionale, il re volle imporre con un lit de justice la votazione per ordini, ma i deputati si ribellarono, ed egli non osò decretare lo scioglimento; sanzionando la fusione, rinunziò in sostanza alle sue prerogative sovrane. Poi, pentitosi di avere ceduto, e spinto dalla corte a piani di rivincita, licenziò Necker; ma di fronte alla pronta reazione rivoluzionaria, che culminò nella presa della Bastiglia (14 luglio 1789), lo richiamò, e riconoscendo i fatti compiuti, confermò la capitolazione della monarchia. Dopo l'abolizione dei privilegi, sembra che l'assemblea approvasse il veto in cambio della segreta assicurazione che il re avrebbe sanzionato i suoi decreti; ma i circoli di corte lo indussero a compiere o tollerare manifestazioni reazionarie, onde trassero partito gli estremisti per provocare le giornate d'ottobre. Se l'apatia che L. dimostrò in quest'occasione si può giustificare col fatto che l'esercito non era più sicuro, la sua condotta successiva dimostrò la sua incoscienza dei pericoli incombenti. Mentre La Fayette cercava di consolidare una monarchia liberale, e Mirabeau combatteva per salvare le prerogative regie, L. scoraggiò La Fayette, non seguì i consigli di Mirabeau. Non sappiamo fino a che punto fossero sincere le sue proteste di fedeltà alla costituzione, e i documenti pubblicati durante il processo avvalorano il dubbio; certo è che la legislazione ecclesiastica lo spinse decisamente nel campo controrivoluzionario: se fin allora egli aveva forse ignorato o disapprovato i maneggi della moglie con le corti straniere, da questo momento non pensò che a liberarsi a qualunque costo. Così gli nacque l'idea di fuggire presso le truppe comandate dal gen. Bouillé, e non pensò che sulla fedeltà dell'esercito di Metz non si poteva più contare; credette che sarebbe bastato il suo ritorno alla testa delle truppe fedeli, perché i ribelli si ravvedessero, e non comprese che lo spirito nazionale si era completamente trasformato, e non previde che il popolo avrebbe visto nella sua mossa un tentativo di tradimento. L'umiliante ritorno da Varennes dette l'ultimo colpo al prestigio morale della monarchia. La Costituente tuttavia riuscì ancora a esonerare il re dalla responsabilità della fuga, e L. parve sinceramente disposto ad applicare la costituzione; ma il veto alle leggi contro gli emigrati e contro i preti refrattarî diede agli estremisti il pretesto desiderato e condusse ai fatti del 20 giugno. Quando La Fayette fece il supremo tentativo di salvare il trono, il suo disegno di marciare contro i giacobini fu sventato dalla corte che lo denunziò a Pétion; e la sua proposta che il re si rifugiasse nel suo campo di Compiègne non fu voluta e potuta accettare. Si giunse così all'insurrezione del 10 agosto 1792, che portò la famiglia reale alla prigione del Tempio. Il 21 settembre la Convenzione proclamava la decadenza della monarchia. Al violento attacco della Gironda, la Montagna rispose col processo del re.
L'istruttoria poteva dirsi già aperta; subito dopo il 10 agosto si era iniziato l'esame dei documenti trovati alle Tuileries. Il 6 novembre la commissione dei ventiquattro, incaricata di studiarli, fece il suo rapporto, cui seguì, il giorno dopo, quello del comitato di legislazione. Il 13 si aprì la discussione; un fiero discorso di Saint-Just contro l'inviolabilità reale trascinò gl'incerti, e il processo divenne inevitabile. La situazione del re si aggravò per la scoperta dell'armadio di ferro (20 novembre), il contenuto del quale, esaminato dalla nuova commissione dei dodici, parve dimostrare che L. aveva approvato la costituzione col solo intento di guadagnare tempo e di preparare la reazione. Il 3 dicembre fu votato il processo, il 6 istituita la Commissione dei ventuno, che formulò l'atto di accusa. L'11 ebbe luogo l'interrogatorio del re. L. difese abilmente i suoi atti politici, invocando i diritti del potere assoluto per i primi anni del regno, poi quelli della monarchia costituzionale, e finalmente trincerandosi dietro la responsabilità dei suoi ministri; ma sulle sue relazioni con gli emigrati non seppe formulare che una serie di negative, rifiutando di riconoscere anche i documenti scritti di suo pugno. Soltanto all'accusa di avere fatto scorrere sangue francese, si ribellò con un nobile scatto di energia. Durante il dibattimento, che durò dal 27 dicembre 1792 al 6 gennaio 1793, i girondini proposero invano l'appello al popolo. Il processo fu riaperto il 14, e il 15 ebbero inizio le votazioni. Il quesito della colpevolezza fu approvato all'unanimità, l'appello al popolo respinto con 424 voti contro 283. Il 16 ebbe luogo il terzo appello nominale che diede 387 voti per la morte contro 334 per la detenzione o la morte condizionale. Rifiutato l'appello alla nazione chiesto dal re, il 18 la proposta girondina di rinviare l'esecuzione fu respinta con 380 voti contro 310. La sera del 20 il condannato rivide per l'ultima volta la sua famiglia, poi si confessò. La mattina del 21, alle 10.22, l'esecuzione era compiuta.
Luigi XVI ebbe quattro figli: Maria Teresa Carlotta, nata nel 1778, che sposò il duca d'Angoulême; Luigi, il primo delfino, nato nel 1781 e morto nel 1789; Carlo Luigi, duca di Normandia, il futuro Luigi XVII, nato nel 1785, e una figlia, nata nel 1786, che morì dopo un anno.
Fu uomo di profonda onestà, di gusti semplici e modesti. Desiderò sinceramente di migliorare le condizioni della Francia e di favorirne il progresso. Sebbene repugnasse alle audacie dei novatori, non fu intollerante (lo dimostrò l'editto del 1787 con il quale si rendevano i diritti civili ai non cattolici). Le sue qualità di buon padre di famiglia avrebbero fatto di lui un ottimo re costituzionale in momenti normali. Ma gettato nel tumulto di un'enorme crisi politica, sociale, morale, quando non bastava più difendere passivamente le posizioni acquistate, e occorreva combattere e costruire, contrattaccare e conciliare, essere nello stesso tempo Luigi XIV ed Enrico IV, non seppe che ricorrere a mezze misure, le quali allarmavano i privilegiati senza contentare i riformatori. Il suo carattere fiacco e apatico gl'impedì d'imporsi alla regina e di reprimere le cabale di corte. Di fronte alla pazza politica degli emigrati, bisogna concludere che o Luigi XVI non seppe dare loro direttive più sagge, o, se le diede, non fu ascoltato. Le sue più belle reazioni - la rivolta del credente contro i deereti anticattolici, lo sdegno del Francese accusato di ordini fratricidi, la dignità dell'innocente dinnanzi ai giudici e sul patibolo - sono piuttosto umane che regali.
Fonti: Øuvres de Louis XVI, Parigi 1864, voll. 2; Journal de Louis XVI, Parigi 1873; Comptes de Louis XVI, Parigi 1909; Soulavie, Mémoires historiques et politique du règne de Louis XVI, Parigi 1801, voll. 6.
Bibl.: J. Droz, Histoire du règne de Louis XVI, Parigi 1860, voll. 3; A. Houssaye, Louis XVI, Parigi 1891; M. Souriau, Louis XVI et la Révolution, Parigi 1893; G. Lenôtre, Le drame de Varennes, Parigi 1905; P. De Vaissière, La mort du roi, Parigi 1910; G. Lacouloumène, Procès de Louis XVI, Parigi 1927; C. Giardini, Varennes, La fuga di L. XVI, Milano 1932; id., I processi di L. XVI e Maria Antonietta, ivi 1932; M. Mazzucchelli, Il processo e la morte di L. XVI, Milano 1932. V. anche francia: Storia.