SUGANA, Luigi
– Nacque a Treviso il 20 marzo 1857. All’anagrafe, venne registrato come Luigi Balmontin. La madre, Carlotta Fanton, lo riconobbe il 12 ottobre 1872, mentre il padre Gerolamo Sugana (di nobile famiglia, che aveva donato allo Stato italiano la ferrovia monobinario da cui prese il nome l’omonima valle trentina) il 20 marzo 1876, quando aveva ormai 19 anni. Si fecero varie ipotesi su un simile ritardo, ma pare assodato che i genitori si sposarono poco prima del riconoscimento paterno, regolarizzando la loro relazione.
L’origine illegittima, tuttavia, segnò per sempre il carattere del ragazzo, minandone la sicurezza; a ciò si aggiunsero l’incostanza umorale della persona, un’asma devastante che gli impediva di dormire e una zoppia per una caduta trascurata che ne logorarono il fisico. Un aspetto non accattivante, del resto: figura tozza, gran barba rossiccia alla francescana, capigliatura incolta, coperta dal classico cappellaccio a cencio, sguardo delirante e teso a scrutare i passanti in cerca di appoggio nella camminata difficoltosa, un vocione caratterizzato dalla mancanza della erre, un abbigliamento trascurato di chi passa la notte fuori casa. Laureatosi in legge a Padova, senza mai esercitare, si spostò quindi a Bologna. Solo nel 1885 si stabilì a Venezia, distinguendosi in più campi, dal giornalismo all’oratoria in pubblico, pubblicando in opuscolo i vari discorsi (si vedano, ad esempio, quelli sulla morte di Umberto I nel 1900 o sulla riedificazione del campanile di S. Marco a Venezia, caduto nel 1902). Per anni si impegnò anche nell’antiquariato (un negozio sotto le Procuratie in piazza San Marco, testimoniato nelle didascalie teatrali che alludono a una ricchezza virtuale nel décor a gara con quello coevo dannunziano e altrettanto disastroso), sperperando l’agiatezza ricevuta in eredità attraverso iniziative finanziarie malaccorte.
Ben presto venne risucchiato dalla drammaturgia, producendo una cinquantina almeno di titoli tra commedie e drammi storici, bozzetti satirici, poemetti, schizzi, caricature, melodrammi, libretti, farse, ma anche magnifici disegni e decorazioni con cui illustrò abbozzi e copioni editi. Grazie a quest’ultima abilità, nel 1893 venne nominato segretario del Comitato per le feste dell’Esposizione internazionale d’arte (la nascente Biennale). Di qui la nomea di ‘conte in bolletta’ che scrive a getto continuo per il companatico. A Venezia, visse nei caffè del centro, intorno al campo San Luca, vicini ai teatri e alla stanzetta in affitto (sola compagna di questa matta solitudine per qualche tempo una scimmia), specie il Dante, dove gli era riservato un tavolo appartato, nel cui cassetto conservava in pratica l’insieme delle sue carte (poi con ordine prefettizio chiuso alla sua morte, per impedirne la dispersione). Nottambulo bohémien, dunque, protagonista di scherzi bonari in osteria e di invettive nelle platee ad applaudire e a fischiare, anche le proprie opere se respinte dalla sala.
Fretta, disordine, approssimazione connotano i suoi copioni, flessibili a seconda della risposta del pubblico, del parere degli attori, della difesa dalla censura preventiva, e adeguazioni ai diversi territori. Intere scene potevano essere in caso omesse, come specificato nei manoscritti stessi.
Fervente nazionalista, convinto della fusione armoniosa tra Serenissima e nuovo Stato italiano, Sugana professò nell’onnivora pubblicistica fervore monarchico, tenendosi lontano da ogni eccesso di radicalismo, clericali, crispini e socialisti. Stigmatizzò l’aumento delle spese militari (lui che in gioventù era stato tenente di fanteria), invocando in cambio pace e disarmo. In compenso, nel 1898 organizzò con reclutamento di volontari un movimento nel Veneto a favore della Grecia durante la guerra contro la Turchia.
Ebbe turbolenti rapporti con gli interpreti, specie con il grande caratterista e capocomico Emilio Zago, dal corpo minuscolo, che interpretò molte sue creature, nel ciclo storico in particolare il ‘fator galantomo’ e poi il balbuziente e scroccone maestro di piano Ongéla, e prima ancora l’Arlecchino delle Metamorfosi. E l’epistolario tra i due mostra da parte dell’autore un’indubbia passionalità, fungendo la troupe per lui da vera famiglia, con rancori laceranti magari per un appuntamento saltato, una litigiosità ogni volta pronta a rompere il sodalizio.
A dargli in vita grande fama fu l’‘esalogia’, ovvero sei drammi che chiamò scene o azioni, concepiti attraverso febbrili ricerche alla Biblioteca Marciana e sfogliando La Gazzetta uffiziale di Venezia.
Il progetto iniziale avrebbe dovuto concludersi nel semplice dittico Ultimi paruconi (termine ironico ricavato da un quadro di Pietro Longhi), al debutto nel 1893 a Milano, e I Francesi a Venezia, poi riuniti su consiglio di Renato Simoni in Passa la Serenissima, centrati sul 4 maggio 1797 con il fatale trapasso dei poteri dal doge e dal Maggior Consiglio alla Municipalità sotto l’irruzione dell’esercito napoleonico. A queste opere si debbono aggiungere Come le onde, di cui resta solo il soggetto, incentrato nel passaggio dal dominio napoleonico a quello austriaco, e che si spinge dal 1806 sino al 1821 con i cospiratori mazziniani della Giovane Italia e i primi martiri sotto gli Asburgo, e Un gran sogno, dedicato ai moti del 1848-49, creato all’inizio del 1898, al tempo del cinquantenario della rivoluzione, e varato al teatro Rossini il 18 ottobre dello stesso anno. Si prosegue con El fator galantuomo sul 1859, dall’esito trionfale come la tappa precedente. La serie si chiude con Casa vecia e paroni novi sul 1865-66, e con Casa restaurada sul 1897, ossia sui cent’anni dalla caduta della Repubblica. Un ciclo su una famiglia patrizia, con tre generazioni, sempre fissata nella medesima sala, nel palazzo Barbo a San Pantalon. Una scelta insolita, una saga storica in vernacolo, rispetto alla drammaturgia veneta del tempo, dal bozzettismo sentimental-crepuscolare di Riccardo Selvatico al verismo sfumato e sospeso tra bisticci e oscure tensioni di Giacinto Gallina. Autentica passione per la politica e la Grande Storia, la sua, se persino nelle farsacce arlecchinesche infilò patrizi di San Marco accanto alle maschere canoniche.
Ben presto su questi copioni, prolissi, con numero esorbitante di personaggi, persino sequenze in cui irrompe il popolo, scese l’indifferenza, con rarissime riemersioni nei circuiti amatoriali. Di questa nobiltà sanguigna, avviata a una decadenza inesorabile, analoga alla cornice istituzionale che per un millennio ne resse l’oligarchica impalcatura, vengono esibite le discendenze tra vari rami in lotta ideologica e patrimoniale, tra la parte debole collaborazionista, prima filofrancese e poi austriacante, e quella, all’opposto, fedele alla memoria della Serenissima, destinata a mescolarsi ai moti risorgimentali.
Ai bordi di questi ‘drammi a tesi’ su patriottismo e connivenza con il potere straniero, nella contrapposizione di tirate a volte retoriche e magniloquenti, si muovono fattori corrotti e ladri, in combutta con agenti stranieri e biscazzieri, ma anche fedeli servitori, specie Memi Strussia, all’inizio della saga «schincapene diciassettenne», sagoma uscita dai secondi zanni naïf e goffi, golosissimo di dolci, ma attento a ciò che si sta muovendo nel reale, con pronta battuta irriverente. E ovviamente codazzo di dame fatue, di servette, di ingenue, di conzateste, di cavalier serventi, ma anche barcaroli, estenuato omaggio a Carlo Goldoni, in un clima all’inizio da Smanie per la villeggiatura, tra rituali mattutini della cioccolata, e tensioni per le mode dei nei, mentre intorno crolla la Repubblica, schernita dai francesi. Processo che trasforma a mano a mano l’orizzonte politico e quello sociale, con l’affermazione delle novae gentes, avversate dal vecchio ceto. Tant’è vero che gli eredi del fattore corrotto sposeranno quelli dei Barbo. Di fatto, una sceneggiata, un’epopea nazional-popolare, prolettico sul tempo attuale dei serial televisivi (Sugana avrebbe voluto far allestire il tutto in una settimana, un testo per serata), che si avvale di sequenze melodrammatiche, colpi di scena bruschi e finali strappalagrime dall’empito musicale, come in Un gran sogno con l’arresto di Bepi patriota e le donne che lo piangono straziate. Si veda, tra le sequenze più palpitanti, il momento nei Francesi a Venezia, in cui il vecchio gentiluomo Zaneto accusa ingiustamente la nuora di aver ceduto alle attenzioni del cavalier servente, spia di Napoleone, salvo poi inginocchiarsi ai suoi piedi a chiedere perdono. O in Un gran sogno, la centenaria Barbara trasportata dalla sua stanza in soffitta, a onorare la bandiera con il leone glorioso di S. Marco, e a confondere epoche e persone per la grande emozione. Più avanti, nel secondo atto, Bepi ferito viene operato fuori scena, e intanto il fattore devoto distrae i congiunti con i burattini, scagliando su Pantalone e Arlecchino angoscia e rabbia. O ancora nel Fator galantomo, allorché Memi Strussia, sospettato di furti dal giovane Gigi intenzionato a licenziarlo (lui che anticipa per qualche verso Firs nel cechoviano Il giardino dei ciliegi), se la vede con la vecchia nobildonna Marina, e tra i due anziani scatta una solidarietà fatta di tenerezza e mutui ricordi del passato. In cento anni, mutano i personaggi, che lasciano agli eredi vezzi e tic, come pure cambiano gli oggetti d’arredo e gli abiti, tranne una vecchia poltrona rimasta la stessa tra la varie puntate. Gradevolissima la lingua, un dialetto fresco e vivace, miscelato al francese spesso storpiato in un processo di ipercorrettismo, o il croato che scempia il veneziano (un refolo dal teatro di Libero Pilotto).
Morì il 28 marzo 1904, a 46 anni, mentre assisteva all’Amleto di Ermete Zacconi, al teatro Goldoni, nell’intervallo tra il quarto e il quinto atto, colto da paralisi cardiaca.
Si spense nella vicina guardia medica, mentre una gran folla accorsa alla notizia stazionava al di fuori. Il giorno del funerale, in campo San Luca tutti i negozi si chiusero a lutto. Pare fosse infervorato con il sindaco Filippo Grimani nelle discussioni circa il suo progetto per il Bucintoro, l’imbarcazione dogale, ripristinando lo sposalizio del mare, e la bandiera dell’associazione Tarvisium-Venetiae che conciliava la sua doppia origine.
Opere. El barcarol venezian: bozzetto in dialetto veneziano, Treviso 1883; Arlecchino in mezzo ai turchi, Roma 1884; Arlecchino medico-botanico e chirurgo per forza, Roma 1884; Caleidoscopio, sfondi, spunti, profili, Treviso 1887; Venezia notturna. Studi, Venezia 1891; Gnente conferenza, ma quatro ciacole a cavalo del secolo da un tipo zuechin, Venezia 1895; Refugium peccatorum. Scene popolari. Opera, con musica di A. De Lorenzi Fabris e parole di L. Sugana, Venezia 1896; Il Santo. Opera mistica di Francesco Ghin. Leggenda di L. Sugana, Venezia 1898; La ricostruzione del Bucintoro. Orazione al sindaco di Venezia, Venezia 1900; Umberto a Napoli. Scene popolari, Venezia 1900; Fantasia storico-simbolica in un atto, in Rivista teatrale italiana, I (1901), 2, 5, pp. 200-216; Il campanile di San Marco per l’anima veneziana: conferenza, Venezia 1902. Postumi sono stati dati alle stampe: I Francesi a Venezia. Azione in un atto, in Strenna 1905. Opera pia ‘Regina Margherita’, Venezia 1905, pp. 7-28 ; Le donne curiose. Commedia musicale in tre atti tratta dall’omonima commedia di Carlo Goldoni da Luigi Sugana. Musica del Maestro Ermanno Wolf-Ferrari, Milano 1912.
Fonti e Bibl.: A Venezia, presso Casa Goldoni, si conserva una gran mole di manoscritti, nel fondo Luigi Sugana: un ammasso di fogli dalla grafia scarabocchiata e incisa da disegni, e copie di copisti, su cui si è a lungo esercitato il paziente lavoro di decifrazione di Biancamaria Mazzoleni, che ne ha curate alcune edizioni con introduzione critica, tra cui in particolare: Calle Fiubera ed altri inediti di L. S., Roma s.d.; Lettere di L. S. ad Emilio Zago, Roma 1983; Le fortunate metamorfosi di Arlecchino. Scherzi e commedie di L. S., Roma 1984; L. S. e gli ultimi parrucconi, Roma 1984 (comprende Ultimi paruconi, I Francesi a Venezia, Come le onde); Drammi storici di L. S., con prefazione di G. Pullini, Roma 1994 (comprende, oltre ad altri copioni, I Francesi a Venezia, Un gran sogno, El Fator galantomo); La saga dei Barbo (Casa vecia e paroni novi, Casa restaurada), con prefazione di G. Padoan, Roma 1997.
Si vedano anche: Z. Bosio, Il teatro dialettale veneziano e l’opera di L. S., Milano 1905; L. Pagano-Briganti, Figure femminili del teatro veneziano. Goldoni-S.-Selvatico e Gallina, Roma 1913; E. Zago, Mezzo secolo d’arte, Bologna 1927; A. Lazzari, Il conte L. S. e sua madre, in Le Tre Venezie, IV (1928), 2, pp. 31 s.; R. Michieli, Figure scomparse. Gigi Sugana, in Almanacco del Gazzettino, 1929, pp. 402-412; R. Simoni, Teatro di ieri. Ritratti e ricordi, Milano 1938, pp. 203-209; B. Mazzoleni, L. S., in Ateneo veneto, n.s., XX (1982), 1-2, pp. 73-92.