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SETTEMBRINI, Luigi

di Fausto NICOLINI - Enciclopedia Italiana (1936)
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SETTEMBRINI, Luigi

Fausto NICOLINI

Patriota e letterato, nato a Napoli il 17 aprile 1813; morto ivi il 3 novembre 1876. Trascorsa la prima infanzia a Caserta, dove dal padre, vecchio patriota del 1799, fu educato all'ideologismo illuministico-giacobinico, compì gli studî di umanità nel collegio di Maddaloni e una parte di quelli giuridici nell'università di Napoli, recandosi poi nel 1830 a Santa Maria Capua Vetere per esercitarvi la pratica forense. Ma, disgustato ben presto dei tribunali, tornava a Napoli, dove, mentre frequentava la scuola di B. Puoti e approfondiva con grandi letture le sue conoscenze nelle letterature classiche e particolarmente in quella italiana, s'adattava, per vivere, a far da ripetitore a giovinetti di buona famiglia. Nel 1835 ottenne la cattedra di eloquenza nel collegio di Catanzaro, dove non tardò a fondare, con Benedetto Musolino, una società segreta, i "Figliuoli della Giovine Italia", e a ordire, col candore quasi fanciullesco che lo caratterizzava, un'utopistica congiura, ben presto scoperta dalla polizia. Arrestato l'8 maggio 1839, e tradotto a Napoli, dove, dopo lunga attesa in varie carceri cittadine, fu finalmente giudicato, seppe con abile difesa, sebbene il procuratore generale avesse chiesto per lui 19 anni di ferri, strappare ai giudici sentenza assolutoria. Malgrado questa, non fu liberato se non quindici mesi dopo (14 ottobre 1841), senza avere nemmeno la licenza d'aprire uno studio privato: sicché dovette tornare all'antica precaria professione di ripetitore. Al tempo medesimo frequentava, di notte, quanti occulti ritrovi politici erano in Napoli, col risultato, non tanto d'imbeversi d'idee mazziniane, che anzi talora fraintese e che a ogni modo restarono su lui senza efficacia notevole, quanto di rafforzarsi nel suo culto quasi religioso per gli uomini del Novantanove e nel suo odio contro il Borbone. Da che, nell'animo suo, fattivamente entusiastico, un ribollire di sentimenti, che ebbero poi come un'esplosione nella passionale e, appunto perciò, esagerata e qualche volta ingiusta, Protesta del popolo delle Due Sicilie, pubblicata alla macchia sul cadere del 1847. La risonanza immensa che quell'opuscolo ebbe anche oltre i confini d'Italia, la grande attività della polizia napoletana per scoprirne l'autore e qualche sospetto cominciato a concepire contro di lui lo inducevano a rifugiarsi a Malta (3 gennaio 1848), salvo a tornare ben presto a Napoli (7 febbraio) qualche giorno dopo la concessione della costituzione. Per meno di due mesi (22 marzo-13 maggio) fu, chiamato da Carlo Poerio, capo ripartimento nel Ministero dell'istruzione; indi, non contento di dimettersi con una nobile lettera che i casi del 15 maggio gl'impedirono di pubblicare, ricusò via via così la pensione del terzo del soldo, come un lucroso posto nel Ministero delle finanze, offertogli da F. P. Ruggiero. Nel luglio 1848, insieme con Silvio Spaventa, Cesare Braico, Filippo Agresti e altri, fondò la "Grande Società dell'Unità italiana", della quale dal settembre di quell'anno tenne la presidenza. Nonostante il pertinace coraggio suo e di parecchi compagni, l'efficacia pratica di quella setta fu quasi nulla: anzi, per la facilità con cui egli procedeva a nuove aggregazioni e che faceva "venire i brividi" al consettario F. De Sanctis, vi s'intrufolarono non poche spie, le cui denunzie, già prima e ancora più dopo il definitivo scioglimento delle Camere napoletane (13 marzo 1849), provocarono la carcerazione di 42 indiziati, tra i quali lui, arrestato il 23 giugno 1849. Rinchiuso nelle carceri di Santa Maria Apparente, indi in Castel dell'Ovo (29 ottobre), per ultimo tra i ladri e assassini che popolavano gli orribili "criminali" della Vicaria (12 dicembre), riuscì a divulgare dalla prigione un'ardimentosa Difesa scritta da L. S. per gli uomini di buon senso (aprile 1850) e, poco dipoi, un opuscolo sull'orribile regime carcerario napoletano; così come ispirato a coraggio non minore fu il suo contegno lungo i sette mesi (1° giugno 1850-1° febbraio 1851) nei quali il processo dell'"Unità italiana" fu dibattuto innanzi alla Gran Corte speciale di Napoli, che dovette pure udire da lui (9 e 10 gennaio 1851) una seconda e più appassionata Difesa, data anch'essa alle stampe. Molto labili le prove giudiziarie della sua colpevolezza: tuttavia, quasi vendetta contro l'impunibile Protesta, lo si volle condannare a morte col terzo grado di pubblico esempio. Condotto nel cosiddetto "confortatoio" (1° febbraio 1851), scrisse alla sua "Gigia" (Raffaella Luigia Faucitano), che aveva sposata nel 1835, una lettera d'addio restata famosa per serenità, non prevedendo che, con decreto del 3 febbraio 1851, la pena sarebbe stata commutata nell'altra dell'ergastolo, da scontare nel penitenziario di Santo Stefano. Colà, dall'ottobre 1852, ebbe compagno di detenzione Silvio Spaventa; dal 1853 al 1858, con l'aiuto d'un semplice vocabolarietto tascabile, compì una traduzione italiana delle opere di Luciano, che, preceduta da un Discorso, scritto anch'esso in carcere (1858), pubblicò a Firenze nel 1861 in 3 volumi; e in quegli anni altresì, quasi senza libri, riprese taluni studî sulla storia della letteratura italiana, iniziati negli anni corsi fra il 1841 e il 1847. Non potuto attuare nel 1855 un disegno di fuga, concepito principalmente da Antonio Panizzi, allora direttore del British Museum di Londra; riuscito parimente impossibile, per il suo costante rifiuto di sottoscrivere una domanda di grazia, l'applicare anche a lui la commutazione dell'ergastolo nell'esilio, concessa in quel tempo a più centinaia di condannati politici napoletani; non rat.ficato, infine, dal governo argentino un trattato negoziato da quello napoletano nel 1856-57 e mirante a mandar lui e altri condetenuti a colonizzare le terre di quella repubblica; il S. lasciò Santo Stefano soltanto il 17 gennaio 1859, allorché, con altri sessantacinque "politici", tratti da varî ergastoli, venne imbarcato sul vapore Stromboli, che li trasportò a Cadice, donde il David Stuart avrebbe dovuto tradurli a New York. Sennonché, nel frattempo, giungeva a Cadice il figlio del S., Raffaele, ufficiale nella marina inglese, il quale, imbarcatosi, con falso nome e quale sguattero, sul David Stuart, costrinse, attraverso circostanze romanzesche, il capitano a sbarcare i prigionieri a Queenstown. Di là il S. proseguiva per Londra, donde nella primavera del 1860, si trasferiva a Torino, indi a Firenze, ove pubblicava (4 e 27 luglio 1860) due manifesti (Di ciò che hanno a fare gl'Italiani e Dell'annessione di Napoli al Regno d'Italia), nei quali, dichiarando di non volere i Borboni "neppure per servitori", esortava gl'Italiani del Mezzogiorno a unirsi alla restante Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. Un mese prima (giugno 1860) aveva avuto da Terenzio Mamiani la cattedra di letteratura latina e greca nell'università di Bologna, alla quale, peraltro, rinunziò non appena l'ingresso di Garibaldi a Napoli gli consentì di tornare nella sua città natale, che non lasciò più. Rifiutata la carica di diretore generale dei Lavori pubblici, offertagli dalla luogotenenza, accettava invece da questa l'altra d'ispettore generale dell'Istruzione pubblica (ragion per cui venne annullata nel 1861 la sua elezione a deputato); e, abolito poi quell'ufficio, prendeva possesso nel 1862 della cattedra di storia della letteratura italiana nell'università di Napoli, quasi al tempo stesso ch'entrava nella neonata Accademia di scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, e fondava, col De Sanctis, l'"Associazione unitaria costituzionale", di cui fu a lungo presidente, collaborando con assiduità a L'Italia, organo di quella, finché il De Sanctis, che lo dirigeva, non lo trasferì a Firenze (1866). Sennonché, tanto bisognoso dell'azione battagliera, pericolosa, rivoluzionaria, quanto aborrente da ogni sorta di compromessi, egli si venne sempre più allontanando dalla politica di rassodamento imposta dai tempi nuovi all'Italia già una; politica, del resto, alla quale, fallita altre due volte la sua candidatura a deputato (1865 e 1867), non avrebbe potuto partecipare se non come giornalista e consigliere comunale e provinciale, e soltanto dal 1873, già malandato in salute e precocemente invecchiato, in qualità di senatore. Per qualche tempo la questione politica e civile di Roma e del papato, una difesa sfortunata degli "studî privati" napoletani contro la legge unificatrice delle università italiane, e tentativi analoghi a favore di tradizioni locali del Mezzogiorno, che con grande dolore vedeva travolte dal livellamento unitarīo della nazione, gli porsero materia ad appassionate battaglie politiche, che condusse nella forma, connaturata alla sua indole, di predicazione illuministica. Poi, cessati o indeboliti quegli stimoli, non gli restò se non trasferire il suo animo di patriota e i suoi amori e odî politici negli studî letterarî.

Siffatta genesi hanno, per la maggior parte, i molti scritti del suo ultimo quindicennio di vita, che rivelarono in lui, accanto al cospiratore e all'uomo d'azione, e strettamente commisto a questo, il fine letterato: così fine che, sebbene formatosi negli anni corsi tra il 1830 e il 1848, seppe riuscire anche troppo perfetto (cioè non senza cascare talora in una qualche affettatura di semplicità) nello stile chiaro, spontaneo, facile, piano, popolare, a cui tendeva allora la letteratura della nuova Italia. Documenti minori di codesta altra forma della sua attività restano articoli e memorie inseriti nella Nuova Antologia, nella Rivista napoletana, nel Giornale napoletano e negli Atti della R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli; una non breve serie di opuscoli (p. es., Della lingua italiana, lettera all'on. ministro della P. I, deputato E. Broglio, pubblicata nel 1868 contro la famosa lettera del Manzoni sullo stesso argomento); prefazioni e discorsi proemiali a scritti altrui (p. es., Masuccio, i suoi tempi e il suo libro, che precede una sua edizione del Novellino di Masuccio Salernitano, messa a stampa nel 1874); e parecchi altri lavori di breve mole, riuniti poi negli Scritti vari, editi nel 1882 da F. Fiorentino, e ai quali servono da complemento l'Epistolario, a cura del medesimo Fiorentino (1883), e gli Scritti inediti, curati da F. Torraca (1909). Documenti maggiori: le Lezioni di letteratura italiana, pubblicate in 3 volumi dal 1866 al 1872; e le Ricordanze, cominciate a scrivere nel 1875, stese in forma definitiva soltanto sino al 1848 (il resto è in abbozzi e frammenti), pubblicate postume nel 1879-80 con prefazione del De Sanctis e riedite nel 1934 da A. Omodeo. Oggetto di vivaci ma mal poste critiche di B. Zumbini e di F. Montefredini, le Lezioni trovarono un difensore e, al tempo medesimo, un equo valutatore nel De Sanctis, che ne mise in risalto il carattere artistico e la passione che le animava, definendole quasi una seconda Protesta, che, ancora più efficace della prima, dà tutt'intero il S., così nel suo inesausto amore per l'Italia, guardata da lui con rapimento e tenerezza, come nel suo odio parimente inestinguibile contro "il birro, la spia, il prete". E, in effetti, le Lezioni sono un libro vivo: non profondo, al certo, dal punto di vista critico, ma, come non privo di felici analisi particolari, così lavorato su molta e diretta conoscenza delle opere di cui vi si discorre, su talune delle quali, dovute a scrittori dell'Italia meridionale, l'autore ebbe il merito di richiamare per primo l'attenzione. Analogamente, non è il caso di ricercare nelle Ricordanze vigoria di pensiero politico ovvero intensità di dramma interiore: vi si trova bensì, insieme con molti bozzetti, ritratti e aneddoti, resi con grande maestria d'arte, la manifestazione quanto mai sincera d'un'anima costantemente e quasi naturalmente limpida e sicura nella visione e nell'attuazione del bene.

Bibl.: Decisione della Gran Corte speciale di Napoli nella causa della setta della Unità italiana, Napoli 1851; [Mariano d'Ayala?], in Appunti e documenti sulla storia contemporanea compilati e raccolti dagli scrittori del soppresso giornale "Il Nazionale", Firenze 1851, p. 36 segg.; B. Zumbini, in Saggi critici, Napoli 1876, pp. 269-320; F. Montefredini, in Studi critici, ivi 1877, pp. 173-191; F. De Sanctis, S. e i suoi critici (1869), in Nuovi saggi critici, 2ª ed., ivi 1879, pp. 227-54; id., Parole in morte di L. S. (1876), ibid., pp. 439-45; F. Torraca, Notizie su la vita e gli scritti di L. S., Napoli 1877; B. Croce, Silvio Spaventa dal 1848 al 1861 (1898), 2ª ed., Bari 1924, passim; id., L. S. (1911), in Letteratura della nuova Italia, 3ª ed., ivi 1929, I, pp. 345-55; G. A. Borgese, Storia della critica romant. in Italia, 2ª ed., Milano 1920, p. 331 segg.; G. Paladino, B. Musolino, L. S., i "Figliuoli della Giovane Italia", in Rassegna storica del Risorgimento italiano (1923); id., Il processo per la setta l'Unità d'Italia e la reazione borbonica dopo il 1848, Firenze 1928; A. Omodeo, L. S., in Civiltà moderna, 1930, poi in Figure e passioni del Risorgimento, Palermo 1932.

Vedi anche
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