ROSSI, Luigi (Aloigi de Rossi, Aloysius de Rubeis). – Definito «Neapolitanus» nei documenti, nacque nel 1597/1598, forse a Torremaggiore in Capitanata (diocesi di San Severo)
, di dov’era originario il genitore, Donato. Ebbe per fratelli Giovanni Tommaso, Gioseppa, Dionisio, Giulio Cesare, Felice Antonio e Giovan Carlo.
Giovan Carlo, compositore, arpista e organista a sua volta, sposato con Francesca Campana, nacque nel 1617. Giunse a Roma verso il 1630, dove sostituì diverse volte il fratello Luigi nella carica di organista in S. Luigi dei Francesi. Il 6 gennaio 1637 i cantori della cappella pontificia eseguirono una sua messa. Dal 1661 al 1666 fu alla corte di Francia. Ereditò parte della biblioteca musicale e degli strumenti musicali del fratello. Si conservano alcune sue composizioni vocali da camera, di soggetto amoroso. Morì a Roma il 13 giugno 1692.
Secondo alcune annotazioni in un manoscritto di musiche vocali e per tastiera, forse in parte autografo (British Library, Add. 30491; facsimile a cura di A. Silbiger, New York 1987 e cfr. Newcomb 1984-1985), in giovane età Luigi Rossi si sarebbe stabilito a Napoli, dove avrebbe studiato con Giovanni de Macque (Jeanneret, 2009, pp. 175-179). Si presume che vi fosse giunto sotto il patrocinio dei Di Sangro, duchi di Torremaggiore e principi di San Severo. Nel periodo napoletano beneficiò anche della protezione di Luigi Gaetani duca di Traetto (morto nel 1612), lo stesso mecenate di Giovanni de Macque. Esperienze di gioventù in Napoli sono confermate da una sua lettera al marchese Enzo Bentivoglio, da Roma il 26 gennaio 1620, un contatto che può aver aiutato il compositore a introdursi negli ambienti romani (Fabris, 1999, p. 373); il legame con la famiglia ferrarese è confermato, molto tempo dopo, da una missiva dell’abate Giovanni Bentivoglio, che il 17 settembre 1655 si palesa autore di due componimenti musicati da Rossi, tra i quali il lamento Erminia sventurata, ove t’aggiri (Monaldini, 2001, p. 100). Dall’agosto del 1620 Rossi fu salariato come «sonatore» da Marcantonio Borghese, principe di Sulmona; rimase nella famiglia fino al settembre del 1636. Nel luglio del 1627 sposò Costanza da Ponte, celebre arpista al servizio di Camilla Orsini, moglie del suo mecenate. Nell’aprile del 1633 divenne organista in S. Luigi dei Francesi, mansione che mantenne fino alla morte (durante le numerose e lunghe assenze fu spesso sostituito dal fratello Giovan Carlo). L’incarico è stato interpretato come un progressivo allontanamento dalla protezione dei Borghese, filospagnoli, per avvicinarsi alla sfera filofrancese, proprio quando il cardinal nipote Antonio Barberini divenne comprotettore di Francia (Murata, 1992); nondimeno, nel febbraio del 1635 Rossi compose e diresse la musica per le Quarant’ore, officiate nella cappella di famiglia dei Borghese in S. Maria Maggiore. Nello stesso anno Camilla Orsini raccomandò Rossi e la moglie alla corte medicea, dove furono ospitati da maggio a novembre; il musicista tenne poi dei contatti fiorentini fino alla morte. Dal settembre del 1636 Rossi non compare più nei libri paga dei Borghese; e in una lettera al cardinal Giovan Carlo de’ Medici, nel dicembre dello stesso anno, egli stesso affermò di non avere legami di protezione. Parlò inoltre dei progetti relativi alla stesura di un’opera in musica per la corte fiorentina: non se ne ha però altra notizia (Mamone, 2003, p. 63).
Il 22 febbraio 1642 andò in scena a palazzo Barberini alle Quattro Fontane la sua prima opera, un dramma di Giulio Rospigliosi intitolato Lealtà con Valore nell’Argomento a stampa, Il palazzo incantato overo La guerriera amante oppure Il palagio d’Atlante nei manoscritti della partitura (facsimili: Biblioteca apostolica Vaticana, Chigi Q.V.51, edito a cura di H.M. Brown, New York 1977; Bologna, Museo della Musica, BB.255, edito a cura di G. Vecchi, Sala Bolognese 1983). Il grandioso spettacolo fu lodato, ma ricevette anche qualche critica, dettata forse da puntigli politici, rivalità tra i cantanti e problemi relativi alla messinscena (affidata ad Andrea Sacchi).
Nel novembre del 1641 Rossi, a causa di un’indisposizione momentanea, fece testamento: si definì musicus di Antonio Barberini. E infatti dal gennaio seguente fino alla morte figurò regolarmente nei libri paga dei ‘famigliari’ del porporato. Morto Urbano VIII nel luglio del 1644, i Barberini, messi in stato di accusa dal nuovo papa, il filospagnolo Innocenzo X Pamphili, cercarono protezione presso la corte francese retta dal cardinale Giulio Mazzarino. Rossi, al seguito del cardinale Antonio, giunse a Parigi nel giugno del 1646, partecipò ai divertimenti musicali di corte e fu incaricato di comporre un’opera teatrale. Dell’Orfeo, «tragicomedia per musica» di Francesco Buti inscenata nel Palais Royal il 2 marzo 1647, gli spettatori apprezzarono la musica, mentre il dramma, per quanto lo spettacolo fosse stato concepito per assecondare il gusto francese, fu criticato; anche gli enormi costi dell’allestimento furono oggetto di sarcasmi e biasimi. L’opera, la prima composta ad hoc per Parigi, esercitò comunque una notevole influenza sui compositori francesi coevi e successivi – non escluso il fiorentino Jean-Baptiste Lully – e venne ricordata nelle cronache musicali francesi fino a fine Settecento (Ruffatti, 2006, pp. 144-151). Nel luglio del 1647 Rossi tornò a Roma: la moglie, che non lo aveva seguito in Francia, era morta il 27 novembre 1646. Redatto un nuovo testamento il 9 dicembre 1647, per espressa volontà della regina madre Anna d’Austria tornò in Francia, dove giunse ai primi del 1648. Da una lettera del 19 ottobre 1648 risulta che dalla Francia Rossi mandò delle musiche a Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano (Roma, Archivio storico capitolino, Archivio Orsini, Serie I, b. 312 n. 122). Questa seconda residenza Oltralpe coincise con la Fronda, in un contesto politico assai teso, e fu contrappuntato da qualche parentesi, come la visita fatta al cardinale Antonio Barberini nel settembre del 1649 durante una villeggiatura nel sud-est della Francia. Rossi rimase in Francia almeno fino al marzo del 1651, com’è testimoniato da una lettera di Rospigliosi da Madrid al nunzio papale a Parigi (Murata, 1979, p. 135). Dopo questa data le notizie scarseggiano: nel maggio del 1652 è attestato un viaggio a Firenze per incontrare un suo fratello (Fabris, 2013, p. 83), il che conferma i contatti con la corte fiorentina. Morì a Roma il 19 febbraio 1653 «sonando il cimbalo», come annotò in una lettera Salvator Rosa (Salvator Rosa. Lettere, 2003).
Sulla sua sepoltura in S. Maria in Via Lata il fratello Giovan Carlo fece apporre una lapide (Prunières, 1913, p. 147). Oltre alle opere già citate, a Rossi sono attribuite 307 composizioni vocali da camera, concepite per il passatempo musicale quotidiano dei suoi committenti. Modesta e prevalentemente tardiva la tradizione a stampa, in una dozzina di edizioni collettive pubblicate a Rotterdam, Londra e Parigi tra il 1656 e il 1708; in vita, solo una manciata di composizioni apparve in due collettanee promosse in Roma da Vincenzo Bianchi (Raccolta d’arie spirituali, 1640) e Florido de Silvestris (Ariette di musica, 1646). Copiosa invece la tradizione manoscritta: tra i 197 codici che contengono musiche di Rossi, in prevalenza compilati dopo il 1653, si riconoscono alcuni autografi: i manoscritti Barb. lat. 4146, 4374 e 4175 (cc. 59v-96v, 102v-105r) della Biblioteca apostolica Vaticana; 33.4.19 (cc. 5r-7r) del Conservatorio di Napoli; Vm7 10 (cc. 16v-18r) della Bibliothèque nationale de France; e 2482 (cc. 59v-62r) della Casanatense di Roma. Queste partiture comprendono pezzi da una a quattro voci su rime italiane, principalmente di soggetto amoroso (vuoi languido vuoi, più raramente, scherzoso), morale o spirituale. Nei generi poetico-musicali si distinguono le forme chiuse, come le numerosissime ariette brevi, spesso strofiche, intessute di versi misurati (come i senari di La bella più bella), e le forme aperte o multisezionali (come in Or ch’in notturna pace), laddove i versi sciolti, corrispondenti a episodi di natura discorsiva e recitativa, sono accostati ai versi misurati intonati come canzonette melodiche o ariette a più voci. Spesso i lamenti (come Con occhi belli e fieri, lamento di Zaida mora, versi di Fabio Della Cornia) seguono dappresso le convenzioni poetico-musicali del Lamento d’Arianna di Claudio Monteverdi. Tra gli autori dei versi ci sono Antonio Abati, Sebastiano Baldini, Francesco Balducci, Domenico Benigni, Giovanni Bentivoglio, Francesco Buti, Fulvio Di Costanzo principe di Colle d’Anchise, Francesco Melosio, Pietro Monesio, Luigi Ficeni, Giulio Rospigliosi, Andrea Salvadori, Stefano Vai. Fonti perlopiù tardive, compilate fuori d’Italia, conservano infine otto mottetti latini e tre composizioni per tastiera. Luigi Rossi fu considerato tra i sommi musicisti romani del primo Seicento. La sua fortuna è attestata assai presto. La canzonetta Io ero pargoletta, versi di Salvadori, è inclusa in due manoscritti miscellanei (Bologna, Museo della Musica, Q.49; ms. Lobkowicz II.La.2, già nel castello di Roudnice, ora nel castello di Nelahozeves) redatti da una stessa mano, toscana, verso il 1632-35, proprio quando Rossi fu in visita alla corte medicea. Nel gennaio del 1640 Pietro della Valle indicò Or che la notte, del silenzio amica, versi di Balducci, come un esempio di stile grave. Nell’agosto del 1641 Ottaviano Castelli spedì a Richelieu delle musiche di Rossi (forse i codici Rés. Vm7 59-101 e Rés. Vm7 102-150 della Bibliothèque nationale de France), tra le quali il lamento della regina di Svezia, Ferito un cavaliero (rime di Della Cornia), sulla morte di Gustavo Adolfo nella battaglia di Lützen il 16 novembre 1632. Da Roma il 4 giugno 1644 Atto Melani chiese al principe Mattias de’ Medici di poter studiare con Rossi, considerandolo uno dei massimi virtuosi dell’epoca (Mamone, 2013, p. 109). Nel settembre del 1645 la cantante Leonora Baroni inviò delle cantate di Rossi a Cristina di Francia, reggente di Savoia. Nei Discorsi e regole sopra la musica (ca. 1650) Severo Bonini lo annoverò tra i «novelli cigni» d’Italia, accanto a Francesco Cavalli. Tra il 1652 e il 1654 le cantate del «signor Luigi» giunsero in Svezia alla corte di Cristina per mano di Alessandro Cecconi e Vincenzo Albrici, e qualche anno dopo entrarono nella biblioteca della famiglia Düben (oggi nella Biblioteca universitaria di Uppsala). Dopo la morte, la fortuna delle opere di Rossi continuò in Italia e all’estero, attestata dalle già citate collettanee a stampa e da numerose raccolte manoscritte che circolarono in tutt’Europa fino a fine Settecento. Manoscritti redatti tra metà Seicento e inizio Settecento si trovano nelle biblioteche musicali di Roma, Napoli, Bologna, Modena e Venezia, e all’Isola Bella. In Francia la recezione fu particolarmente vivace: la sua musica da camera figurava (o veniva menzionata) nella biblioteca personale del sovrano, nei concerti privati della nobiltà, negli spettacoli dell’Académie royale de musique, nel bagaglio di cantanti francesi di prima sfera legati alla corte e all’Académie, nelle stampe musicali, nei giornali, nei testi delle querelles sulla musica italiana, nei pamphlets satirici, nei componimenti in rima che glossavano gli spettacoli di corte. Il nome di Rossi giunse fino al secolo dei lumi, invocato come uno dei modelli italiani insigni; Voltaire lo collocò nell’olimpo musicale a fianco di Lully nell’elencare i musicisti inclusi tra gli «Artistes célèbres» (Le Siècle de Louis XIV, Paris 1751). In Inghilterra le arie e cantate di Rossi ebbero notevole eco a Londra e Oxford tra la Restaurazione e i primi del Settecento. Vi è qualche testimonianza anche di una fortuna nei Paesi tedeschi. Diversi autori romani di cantate inserirono frammenti delle sue musiche nelle proprie composizioni. Antonio Francesco Tenaglia nella cantata Che volete ch’io canti? cita il Lamento della regina di Svezia. In Aspettate, aspettate! Adesso, adesso canto, rime di Sebastiano Baldini musicate da Antonio Cesti (ca. 1660), si fa il nome «di quel uom cotanto raro / che d’un re portava il nome», alludendo al legame di Rossi con la corte francese. A fine secolo Rossi, Carissimi e Cesti sono definiti «i tre maggiori lumi della nostra professione» da Giacomo Antonio Perti, nella dedica delle sue Cantate morali e spirituali op. 1, Bologna 1688.
Gli oratori Giuseppe e Gioseppe venduto (Francesco Buti, a cura di L. Bianconi, 2015, pp. 393-412, 421-431) e alcune cantate spirituali, oggi in auge presso gli esecutori di musica ‘barocca’, riposano su attribuzioni dubbie o erronee.
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