ROSSI, Luigi
(Gino). – Nacque a Venezia al n. 3396 di calle degli Orbi (parrocchia di S. Samuele) il 6 giugno 1884 da Stanislao e da Teresa Vianello (Scotton - Stringa, 1998, p. 141).
Il padre era factotum di Enrico di Borbone-Parma, conte di Bardi, che nel palazzo Vendramin Calergi aveva allestito un’enorme collezione di arte orientale (poi Museo d’arte orientale con sede a Ca’ Pesaro); la madre, con cui l’artista visse in seguito nella povertà, era di umili origini.
La famiglia organizzò per l’unico figlio una formazione scolastica di prim’ordine (collegio degli scolopi a Firenze e liceo Foscarini a Venezia), che però il giovane interruppe a quattordici anni per dedicarsi alla pittura. Seguì lezioni private dal pittore russo, residente a Venezia, Vladimir Schereschewsky, presente alle prime biennali veneziane con opere d’impronta sociale, venate però da un forte accento spirituale (alcune di esse conservate nel Museo di Ca’ Pesaro, Venezia).
I pochi dati certi della giovinezza dell’artista sono i seguenti: nel 1901, a quarant’anni, morì improvvisamente il padre e due anni dopo, il 31 ottobre 1903, Rossi, «benestante», sposò, a Mantova, Bice Levi Minzi, diciottenne pittrice, di condizione «agiata», come risulta dall’atto di matrimonio (Scotton, 1987a); entrambi minorenni, accomunati dalla passione per l’arte. Questa prima fase culminò nel 1905, quando il giovane ottenne uno studio da pittore all’ultimo piano di Ca’ Pesaro, il palazzo messo a disposizione del Comune dal lascito di Felicita Bevilacqua La Masa, al fine di promuovere, con spazi e mostre di giovani artisti, le «arti e industrie veneziane»; studio che però ben presto egli abbandonò (Scotton, 1987a).
L’assenza del giovane artista a Venezia tra il 1905 e il 1906 fa pensare che a questa data risalga un viaggio nei Paesi Bassi e forse in Francia di cui restano tracce in alcuni titoli di dipinti. La conoscenza fin dall’infanzia della ceramica orientale, decorata in modo sintetico e compendiario, innestata sulla passione per la pittura postimpressionista d’impronta ‘sintetista’, portò Rossi a privilegiare le fonti dei primitivi, studiati in collezioni come il Museo Guimet a Parigi e prima ancora durante il viaggio al nord. Ne risultò già nelle prime opere note uno stile molto personale, con stesure à plat di grande rigore, protese a risultati icastici, di massimo controllo e tenuta formale.
Nel luglio del 1908 presero il via le mostre giovanili di Ca’ Pesaro, dirette da Nino Barbantini, e Rossi vi partecipò fin dalla prima edizione con opere disperse, una delle quali intitolata Donne di Parigi; da questa data fino al 1925 l’artista vi fu presente, con l’eccezione del 1912, costantemente, anche quando le lunghe permanenze in Bretagna e a Parigi lo trattenevano lontano da Venezia. Era infatti l’amico pittore Ernesto Dal Gian (nato a Venezia nel 1886 e morto in prigionia a Koenigsbrück, in Germania, nel 1918), residente a S. Stae, nei pressi di Ca’ Pesaro, a provvedere alla consegna e al ritiro delle opere alle mostre, quando non vi provvedeva la madre stessa dell’artista (Prete, 2009).
Il gusto per i ‘primitivi’ e per l’area postimpressionista veniva da esperienze vissute direttamente in Francia e non certo da conoscenze ottenute alle biennali, dove comunque poteva aver funzionato da stimolo il caso di Charles Cottet, uno dei bretoni più noti allora nel mondo espositivo europeo e presente alle prime Biennali veneziane di fine Ottocento (con opere al Museo di Ca’ Pesaro). Ma è la conoscenza diretta delle opere dei Nabis e di Gauguin a spingerci a ipotizzare un viaggio a Parigi nel 1907, e di conseguenza la probabile visita al Salon d’Automne di quell’anno, dove era organizzata la grande retrospettiva di Gauguin (Messina, 1998).
Attraverso esplorazioni note solo in parte, il pittore si orientò verso la pittura sintetista bretone (Emile Bernard, Paul Gauguin, Paul Serusier), e in Bretagna infatti risulta attivo già nel corso del 1909, con le prime opere notevoli, testimonianze di un raggiunto stile: Primavera in Bretagna e Michel Carion marinaio (Treviso, Museo Bailo); la prima, per quanto debitrice di un dipinto di Paul Gauguin come Paesaggio bretone (Stoccolma, Museo nazionale), ricca di accensioni fauve; la seconda, sicuramente esposta alla mostra di Ca’ Pesaro del 1909, esempio di una frontalità che assume carattere programmatico; entrambe maturi documenti dell’assimilazione del linguaggio della scuola bretone nelle due costanti del suo primo periodo, figura e paesaggio.
Rossi reagì alle incomprensioni intensificando i viaggi in Francia, come dimostrano le lettere spedite all’amico Dal Gian, che permettono di chiarire come, rientrato a Venezia all’inizio del 1910, egli trascorse alcune settimane a Burano per tornare subito in Bretagna, dopo aver consegnato all’amico pittore i tre dipinti da esporre alla mostra di Ca’ Pesaro di primavera: Ragazza in turchino (poi nota come Fanciulla del fiore), Il muto e Case a Burano (coll. private; Menegazzi, 1984, scheda 17). Rossi, quindi, non vide l’esposizione del 1910, che Barbantini in seguito avrebbe giudicato fondamentale per le mostre giovanili da lui dirette, essendo l’artista tornato a Venezia solo a fine anno, da Pont l’Abbé e da Le Guilvinec. Risale dunque al 1910-11 la conoscenza di Rossi con Arturo Martini, con cui s’instaurò un reciproco scambio e dialogo protrattosi fino al primo dopoguerra, con frequenti incontri a Treviso all’Osteria alla Colonna, dove si ritrovavano pittori come Arturo Malossi, Ascanio Pavan, Bepi Fabiano. Fu in seguito a questi eventi che a Burano si formò una colonia di artisti formata da Rossi, Bice Levi Minzi, Umberto Moggioli e la moglie Anna, Martini, Luigi Scopinich con la moglie Elsa Trefurth e in seguito Pio Semeghini; un gruppo che ha contribuito, tra realtà e leggenda, a dare figura alle tante attese e speranze dei giovani artisti del secondo decennio del Novecento.
Il 1911 fu contrassegnato dall’importante personale a Ca’ Pesaro, con dieci dipinti tra cui spiccavano La buona pesca, Barche in porto, Mestizia e Il vecchio villaggio (Menegazzi, 1984, scheda 29), tutti già indipendenti dal gusto gauguiniano e invece sensibili ai modi di Paul Serusier e anche di Henri Matisse.
Iniziarono in quel periodo a formarsi le prime collezioni, grazie all’impegno della Fraglia veneziana appositamente fondata per sostenere il lavoro dei giovani artisti; oltre a Barbantini acquistarono dipinti di Rossi, tra gli altri, Omero Soppelsa, l’editore raffinato che non negava mai aiuti economici ai giovani promettenti, Gino Fogolari, sovrintendente alle Gallerie dell’Accademia, l’ingegnere Giuseppe Fusinato, e in seguito Giorgio Levi e Alhaique Vivante.
In questa fase si registrò da parte di Rossi e di Martini anche un avvicinamento al futurismo, fatto di scambi epistolari e di contatti basati su presupposti ribellistici e giovanilisti più che su vere e proprie intese di poetica; lo dimostra il fatto che, pur essendo in contatto diretto con Umberto Boccioni e presenti alla serata futurista al teatro Garibaldi di Treviso del 1911, dove addirittura fecero da scorta ai protagonisti, non seguì da parte loro un’adesione esplicita al movimento d’avanguardia. Incomprensioni, insofferenze per il clima veneziano, volontà continua di aggiornamento fecero sì che nel 1912 Rossi tornasse di nuovo in Francia, anche a Parigi, dove con Bice Levi Minzi e con Martini ritrovò Fabiano, ben introdotto nel mondo delle riviste illustrate di caricatura, e dove i tre ebbero la possibilità di esporre al Salon d’Automne grazie ai buoni uffici di Medardo Rosso.
Nel 1913 Rossi si separò dalla moglie e si trasferì nella zona del Montello, a Ciano, una località in provincia di Treviso, dove portò a termine dipinti come Paesaggio asolano (Treviso, Museo Bailo), Grande descrizione asolana (coll. priv.; Menegazzi, 1984, scheda 69) e Descrizione asolana n. 2 (Verona, Museo di Palazzo Forti, ora Fondazione Domus), allora poco noti ma ritenuti dall’artista (Lettere, a cura di L. Rossi Bortolatto, 1974, p. 117) tipici della sua ‘seconda epoca’ e destinati in seguito a segnare una svolta nella pittura di paesaggio. Mentre otteneva risultati importanti in pittura, la sua situazione economica subì un generale tracollo; visse con la madre, rimasta vedova una seconda volta e priva anch’essa di risorse, e con la compagna di quegli anni, Giovanna Bieletto, conosciuta a Burano. In questa situazione critica si tenne la mostra di Ca’ Pesaro del 1913, in cui la personale di Rossi ebbe un peso assai rilevante; i dieci dipinti esposti rivelavano un espressionismo molto accentuato e una gestualità libera da schemi e ricca di umori: La riviera di Menez-Home, Bretagna, L’idiota, La donnina allegra. Finalmente l’artista ebbe la soddisfazione di leggere apprezzamenti da parte della critica (Damerini, 1913) e di vedere il sostegno di amici artisti come Felice Casorati, che gli acquistò il Pescatore (poi noto con il titolo di Bevitore), e collezionisti come Giulio Righini, che acquisì L’uomo col canarino (ora dono Claudia Gianferrari al FAI, Milano, Villa Necchi).
Rossi reagì alle difficoltà tenendo i contatti sia con l’ambiente lagunare (Mostra dei rifiutati alla Biennale, Venezia-Lido, 1914) sia con Roma, dove le mostre della Secessione e della galleria Sprovieri lo videro inserito nel contesto internazionale e anche futurista. Dopo una lunga permanenza a Firenze nell’autunno del 1914, effettuò alla fine dell’anno l’ultimo suo viaggio in Francia assieme a Martini (Lettere, cit., p. 47). Chiamato alle armi, rientrò in Italia all’inizio del 1915, e nel clima interventista si avvicinò di nuovo ai futuristi e partecipò alla Mostra d’arte trivigiana, organizzata da Martini a Treviso, e all’effimera vicenda della rivista veneziana I Pazzi, il numero unico ‘futurista’ nel quale comparve un suo disegno d’impostazione costruttiva. Nel 1916 venne assegnato alla X Compagnia dell’VIII reggimento bersaglieri, prima ad Arzignano (Vicenza) e poi a San Pietro Incariano, nel Veronese, dove, in attesa di essere mandato al fronte, riuscì a organizzare un’importante mostra personale con il nucleo di opere prestategli da Barbantini (Lorenzoni, 1997). Mandato al fronte, fu fatto prigioniero dagli austriaci verso la fine del 1917 e deportato nel campo di concentramento di Restatt, dove fu sottoposto a lavori umilianti e patì la fame. Rilasciato il 5 novembre 1918, venne internato a Maranello (Modena); poté poi trasferirsi all’Aquila, dove la madre era sfollata, e rientrò a Ciano a fine anno trovando la casa bombardata e i suoi beni distrutti. Iniziò quindi la tormentata vicenda del rimborso dei danni di guerra, che lo occupò a lungo.
Da quel momento visse con la madre, con cui era in costante conflitto, prima a Noventa Padovana e poi di nuovo nel Montello, a Crocetta. Nonostante l’esperienza traumatica vissuta, riprese i contatti con Barbantini e con Martini, in vista della riapertura delle mostre di Ca’ Pesaro, e con Casorati, che prima da Verona e poi da Torino continuò a considerarlo un punto di riferimento. Immerso sia pure a distanza nell’ambiente veneziano, partecipò alle discussioni che vedevano divisi gli artisti di Ca’ Pesaro, e fece parte della giuria di accettazione. Il suo contributo alla mostra del 1919 si risolse in una personale con sette dipinti, tutti eseguiti ante guerra, e alcuni disegni. L’anno successivo fu la volta della scissione capesarina che portò alla mostra dei ‘dissidenti’ nella prima galleria d’arte privata di Venezia, la Geri Boralevi (1920).
Vivendo a Noventa Padovana, si recava spesso nella vicina Padova, dove frequentò l’ambiente del Museo, diretto da Andrea Moschetti; ma ben altra importanza ebbe l’amicizia con Dario De Tuoni, il giovane triestino in contatto con l’ambiente delle avanguardie d’Oltralpe, che lo informava sulle novità dalla Francia (fu lui a passargli i primi numeri della rivista L’Esprit nouveau); le lettere del pittore da lui pubblicate (De Tuoni, 1959) sono documenti fondamentali. A Padova, inoltre, rivide Medardo Rosso, in quel periodo a Venezia, impegnato nella polemica con il Museo del Luxembourg.
Nel 1921, sempre a Padova, dove dipinse alcune vedute in chiave postcubista, Rossi venne premiato, ma con un’opera precedente, alla II Mostra nazionale artistica, un successo guastato dalla incomprensione di Barbantini, che non approvava quello che può definirsi il ‘terzo periodo’ di Rossi, caratterizzato da opere di severo impianto costruttivo.
Pur tra enormi difficoltà economiche (lavori saltuari, spostamenti in bicicletta), Rossi partecipò al rilancio delle mostre di Ca’ Pesaro coinvolgendo gli artisti trevigiani. Importanti gli interventi polemici pubblicati nella stampa di Treviso (Stringa, 1998), da cui si ricava un profilo inedito dell’artista che, nonostante tutto, riuscì a essere ironico, polemico al punto giusto, sicuro di poter indicare una strada alternativa sia al novecentismo sarfattiano sia al clima magico-realista veneziano, di ascendenza tedesca. A questo scopo Rossi aderì, in contatto con Carlo Carrà, alla nascente Corporazione delle arti plastiche e all’omonima rivista pubblicata a Milano.
Risalgono ai primi anni Venti i dipinti più importanti del dopoguerra: Fanciulla che legge (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), Case in collina (Venezia, Museo di Ca’ Pesaro), Natura morta con brocca (coll. privata; Menegazzi, 1984, scheda 107) sono opere che l’artista chiamava Composizioni o Costruzioni di natura morta (tutte di collezioni private) nelle quali l’omaggio a Cézanne si lega alla rivoluzione cubista per appaesarsi in soluzioni saldamente costruttive, sulla linea, ancora una volta francese, tracciata dal gruppo ruotante attorno alla rivista di Amédée Ozenfant e Charles-Édouard Jeanneret (Del Puppo, 1995), mantenendo quindi le dovute distanze dall’esperienza italiana di Valori plastici.
Mentre la produzione pittorica segnava il passo, aumentarono le difficoltà economiche; nel 1923 Rossi ricevette per un breve periodo un mensile da Barbantini, e in seguito si concretizzò una situazione finora poco nota: ebbe l’opportunità di svolgere attività didattica presso una società operaia a Crocetta del Montello, non lontano da Ciano, dove si era trasferito in un’abitazione di fortuna. In quella occasione Rossi presentò un curriculum vitae (Narduzzo, 2002, p. 216) dal quale si ricavano alcuni spunti biografici inediti. In questi anni vissuti nelle colline ebbe il sostegno di Nino Springolo, il pittore trevigiano che lo ospitò spesso e gli infuse coraggio, recensendo anche le opere recenti (Springolo, 1924).
Pur essendo provato dalla denutrizione e dalle tensioni, Rossi collaborò tra il 1923 e il 1924 alla fondazione della Corporazione nazionale delle arti plastiche e polemizzò con l’arretrato ambiente culturale trevigiano. Nel 1925, dopo aver esposto alla mostra Bevilacqua La Masa al Lido di Venezia, si rifiutò di partecipare alla prima Mostra del Novecento italiano a cui era stato invitato da Margherita Sarfatti. Nella primavera del 1926 le sue condizioni psichiche si aggravarono; il 13 giugno, con un espediente, venne prelevato dalla casa di Crocetta del Montello e internato nell’ospedale psichiatrico di Mogliano, poi a Venezia, nell’isola di S. Clemente, e infine a Sant’Artemio a Treviso, dove morì il 16 dicembre 1947 (Mazzotti, 1974, p. 101).
Da quel giorno cominciò l’attività di sostegno e di valorizzazione della sua opera da parte degli amici vecchi e nuovi e dei responsabili delle collezioni pubbliche: Barbantini, Giuseppe Mazzotti, Benno Geiger, Giovanni Comisso, Giuseppe Marchiori, Guido Perocco, Palma Bucarelli, Luigi Menegazzi, Eugenio Manzato, Flavia Scotton. Notevole anche l’impegno della veronese galleria dello Scudo, diretta da Massimo Di Carlo, che conserva parte dell’archivio Barbantini.
Cominciò quindi un itinerario espositivo che ha avuto la XV e la XVI Biennale di Venezia come primo marginale risarcimento (Barbantini riuscì a inserire due opere dell’artista prima della reclusione nel 1926, e altre due nel 1928). Una svolta si ebbe a partire dal 1933 con la IX Mostra d’arte trevigiana organizzata da Mazzotti, quando venne effettuato da parte del re un acquisto ai fini del sostentamento del pittore; rilevanti i primi interventi di Marchiori e di Barbantini (1933), che pubblicò il primo gruppo fondamentale di lettere (1946, poi Barbantini, 1953, e Rossi Bortolatto, 1974). La retrospettiva alla XXIV Biennale del 1948 sanzionò la statura dell’artista veneziano, molto apprezzato dai rappresentanti più in vista delle neoavanguardie (Renato Birolli, Giuseppe Santomaso, Emilio Vedova). La pubblicazione del primo catalogo dei dipinti (Geiger, 1949) e del successivo con scelta anche di opere grafiche (Menegazzi, 1984) non ha purtroppo bloccato la diffusione dei falsi, tuttora fiorente.
Opere nei musei italiani: Fanciulla alla finestra (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna); Douarnenez, Burano, Maternità, Donna seduta, Case in collina e nove opere di grafica dell’ultimo periodo (Venezia, Museo di Ca’ Pesaro, dono Barbantini); Primavera in Bretagna, Paesaggio asolano, Michel Carion marinaio, La donnina allegra, Padova: il Santo, I tre pesci (Treviso, Museo Bailo); Paesaggio nordico con barche a vela, Il bruto, Burano, Paesaggio di Burano, Barene a Burano, Paesaggio asolano n° 2, Ritratto di signora, Composizione, Poemetto della sera (Verona, Fondazione Domus); Testa di pescatore (Roma, Palazzo del Quirinale); L’uomo dal berretto e Canale in Bretagna (Milano, Galleria d’arte moderna).
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