PULCI, Luigi
Poeta, fratello di Luca (v.), nato il 15 agosto 1432. Maggiorenne alla morte del padre, la sua prima dichiarazione pubblica, resa con Luca agli ufficiali del catasto, è sulla povertà in cui s'era ridotta la già illustre e benestante famiglia. Suppliva in parte il favore ch'essa godeva nella casa di Cosimo de' Medici e dei suoi successori; anzi Luigi nutrì per Lorenzo il Magnifico, che era nato 17 anni dopo di lui, un'affezione tenerissima, cordialmente ricambiata. Quando Luca e Bernardo nel '60 aprirono banco in Calimala, Luigi era presso messer Francesco di Matteo Castellani, come uomo di fiducia in varie incombenze, e compagno e commensale, anche in villa ('59 e '60). E quando Luca col fallimento mise in pericolo la roba dei fratelli, Luigi solo per il personale intervento del Magnifico poté rientrare in Firenze. Nel '67: vivente ancora Piero di Cosimo, il P. ebbe una missione a Pisa, pare da Lorenzo; ma dalle lettere scritte di lì, come da altre scritte in analoghe occasioni, non s'intende bene di che si tratti. Vi si parla confidenzialmente e di versi e d'altre fantasie, come se lo scrivente non avesse altro genio e gusto che di comporre in rima; questa deve essere stata la vera e grande felicità di Luigi nelle strettezze della vita, sin dai primi anni. Altra missione ebbe presso il signore di Camerino nel '70, quando Lorenzo col fratello Giuliano era a capo del governo; più importante quella a Napoli presso gli Aragonesi, mentre ferveva l'agitazione per una impresa contro i Turchi. Allora compose una canzone per esortare quel re alla guerra santa; e non mancava di prendersi giuoco dei cittadini componendo un sonetto nel dialetto locale; come farà anche a Milano l'anno dopo. Nel '73 sposò Lucrezia degli Albizzi, col favore di Lorenzo, ed entrò in relazione con Roberto Sanseverino conte di Caiazzo, relazione durata poi sino agli ultimi suoi giorni. Roberto era uno dei più ricercati capitani nelle guerre d'Italia, e, per l'amicizia con Lorenzo, L. P. serviva benissimo a mantenere attivi i rapporti fra i due. Ma egli amava di starsene quando poteva in Firenze, e rifiutò (1481) per questo l'ufficio di capitano di Val di Lugano, feudo che il Sanseverino ebbe con altri dal duca di Milano. Luigi però non poté sottrarsi al dovere di stare presso al conte durante il servizio di questo al soldo dei Veneziani, e così avvenne che egli nel 1484 si trovasse a Padova, dove morì tra l'ottobre e il novembre. Pare che non fosse sepolto in terra consacrata a cagione della fama di empietà che anche a Padova doveva essere arrivata, possibilmente con molte esagerazioni. Lasciava quattro figli cui aveva posto i nomi a lui cari di Roberto, Iacopo, Luca e Lorenzo.
La sua grande opera, il Morgante, cominciata a comporre qualche anno dopo il 1462, fu pubblicata intera a Firenze nel 1483, dopo la morte di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico, la quale aveva esortato il poeta a comporla. Ma parti di essa erano conosciute assai prima, precisamente i canti di Morgante e Margutte sino alla morte di quello, dei quali fu fatta una stampa, ora perduta, nel 1480; onde il poema prese il nome diventato popolare di Morgante, che dall'autore fu conservato, sebbene nelle sue intenzioni fosse d'intitolarlo I fatti di Carlo Magno. Nel 1482 ce n'erano già due edizioni, una di Firenze e una di Venezia, in soli 23 canti, e perciò l'edizione definitiva, con 5 nuovi lunghissimi canti la cui composizione era durata molto tempo, portò il titolo di Morgante Maggiore. Volle il P. glorificare Carlomagno rifacendo un rozzo poema, il cosiddetto Orlando, d'ignoto autore fiorentino, pervenutoci in frammenti sino al punto al quale arriva il 23° del Morgante. Nonostante l'annunzio che il P. poneva qui dei fatti successivi, sorse tra i filologi l'opinione che anch'egli volesse fermarsi dove si ferma per caso il frammento predetto e che poi riprendesse traendo da altro romanzo la continuazione. Il vero è che egli si era proposto di arrivare precisamente al compimento con la morte di Orlando a Roncisvalle, la distruzione di Saragozza, capitale del re saraceno Marsilio, e il supplizio del traditore Gano di Maganza; né di tale compimento doveva mancare quel poema ora frammentario, perché così di quello come del Morgante il soggetto è costituito dalle grandi imprese di Orlando paladino nei paesi degl'infedeli, dove egli va errando come cavaliere di ventura al soldo di sovrani in guerra, a causa delle persecuzioni di Gano, istigatore di Carlomagno non solo contro Orlando ma anche contro Rinaldo. Il poema frammentario non faceva intervenire Rinaldo alla battaglia di Roncisvalle, ma lo lasciava, secondo la tradizione, arrivare a Gerusalemme per andare incontro ad altra sorte; il P. invece ha posto Rinaldo a fianco di Orlando, pensando che egli soltanto avrebbe potuto risollevare le sorti dell'impero di Carlo, battere Marsilio, espugnar Saragozza e far la vendetta, poiché gli altri paladini sono descritti nel poema come inetti a tanta impresa. Ma più profonda differenza risulta tra il rozzo frammento e il Morgante se si considera che il P. mirò alla glorificazione di Carlomagno, come strumento della Provvidenza divina, che volle la sua cecità e la persecuzione di Orlando e Rinaldo, affinché costoro operassero nei paesi del paganesimo la diffusione della fede cristiana e della civiltà e moralità occidentale, e ne derivasse la vittoria del Sacro Romano Impero mediante il valore personale e il culto della giustizia. Iddio opera il bene anche indirettamente, ponendo la sua elezione in personaggi atti a raggiungere gli alti fini suoi; e così una doppia biografia di Carlomagno, leggendaria e storica, corona in ultimo il racconto dei fatti.
Questo alto intendimento regge il P. nel trasformare la materia del romanzo popolare, onde potrebbe dirsi che il Morgante tenda a diventare poema eroico, se la forma plateale, anzi triviale e plebea, che gli è caratteristica, potesse essere eroicità espressa. Tuttavia la forma del Morgante è penetrata d'arte e di cultura accolta dalla tradizione letteraria antica e moderna. La lingua non rifugge dall'uso vernacolo, e talora se ne compiace, ma ha pur tanto di nobile da non urtare i lettori educati a quella dei grandi esemplari letterarî della nazione. Dei romanzi di materia cavalleresca diffusi in Italia, in poesia e in prosa, dal Veneto alla Toscana, i quali già si erano assimilati la tradizionale materia dei Carolingi, guerreschi, e dei Bretoni, avventurosi, insieme congiunta e fusa, il Morgante serba personaggi coi loro caratteri e fatti leggendarî e mostri e giganti e tiranni malvagi e rubatori di strada e fiere pestilenziali e incantesimi e il mondo pagano contrapposto al cristiano e casi straordinarî e amori e riconoscimenti e duelli e tempeste e battaglie campali; ma tutto è volto e indirizzato sempre secondo il bisogno dei fini preordinati del P.
C'è inoltre un elemento affatto nuovo, quale è il riflettersi in esso di persone e cose dei tempi del poeta, principalmente il risentimento per i progressi dei Turchi in Europa, l'accenno all'uccisione di Galeazzo Maria Sforza, la glorificazione di Firenze, beneficata da Carlomagno con Venezia, la lode dei Medici, il ricordo degli amici, tra cui primeggiò il Poliziano; infine lo sdegno dell'autore pei suoi critici, che si erano venuti esercitando contro le parti man mano pubblicate, e ancora la coscienza che egli ha dell'arte sua e delle propria originalità.
I personaggi suoi hanno una vivacità e verità mirabili, sono creature possenti e originali, che s'imprimono stabilmente nell'animo del lettore: Orlando magnanimo, savio, sempre disposto a perdonare; generoso, s'innalza ad altezza eroica quando ha conosciuto che il suo martirio è voluto da Dio, e adopera forze sovrumane perché una tale volontà si adempia; Rinaldo, audace e impetuoso, ha pure un cuor d'oro, si lascia facilmente intenerire, ma è fiero e terribile contro il nemico e sfida pericoli inauditi; egli può volare dall'Egitto alla Francia a cavallo del suo Rabicano posseduto dal diavolo Astarotte. La scena della colazione di Rinaldo e Ricciardetto invisibili nella reggia di Saragozza è delle cose più belle della poesia italiana; Astolfo, il Veglio della Montagna, Aldighiero, Malagigi son degni di stare nella famiglia ariostesca. Le donne sono non meno splendide per singolarità d'affetti: Meridiana, Luciana, Antea, la sensuale e ardimentosa imperatrice di Babilonia. Se il P. non fu grande inventore d'intrecci, creò nei suoi personaggi figure vive. Morgante, il gigante buono e possente, divoratore di belve per giuoco, espugnatore delle mura di Babilonia, che cavalca la balena e la uccide col battaglio e muore pel morso del granchiolino, non ha confronti. Margutte, il guitto ladro, lussurioso e ghiottone, si riscontra col Sosia servitore, assai meno col Falco e pirata, di Luca P.; ma li vince per forza comica. Superba invenzione è quella dell'intervento di Rinaldo a Roncisvalle per opera del diavolo Astarotte; essa è dovuta al Poliziano, come dichiara lo stesso P., ma sua è la figura del demonio teologo. In essa non vi è nulla di contrario alla fede, perché secondo riconoscono i sacri scrittori, il demonio essendo in origine creatura angelica, perfetta intelligenza, ha scienza universale; il comico è tutto nella situazione; ma nell'economia del poema, la dimostrazione di Astarotte serve a definire la figura del reato di Gano, simile a quello di Giuda. Quando il nostro poeta presenta comicamente San Pietro, non usa irriverenza, ma una forma bonaria adatta al tono grossolano e plebeo del racconto. Né, per analoghe ragioni, le sue pie invocazioni nei preludî dei canti hanno alcunché di schernevole, come si crede; eppure le accuse cominciarono ben presto, perché Luigi usava freschezza e non ostentava devozione.
Non c'è più dubbio che Luigi sia autore della Giostra, poemetto in ottava rima, in cui si celebra la vittoria riportata dal giovine Lorenzo in una giostra del 1469. Esso ha il principale pregio del brio e della vivacità della descrizione che attenua la monotonia della lunga enumerazione degl'intervenuti; manca interamente d'invenzione, se si paragona al leggiadro lavoro col quale il Poliziano imprese il suo analogo componimento. Il P. nel 1474 non l'aveva ancora finito; e pare che nell'elencazione (la quale ricorda la giostra descritta dal Boccaccio nella Teseide), introducesse personaggi non intervenuti realmente e di varî paesi a maggiore esaltazione della prodezza di Lorenzo.
A gara con Lorenzo, che cantò nella Nencia da Barberino l'amore del villano Vallera, egli compose la Beca di Dicomano, cantando l'amore di un rozzo montanaro, Nuto, con un rude realismo che ritrae la mentalità alpestre. Non c'è ombra della sublimazione che avveniva negli amori pastorali delle ecloghe virgiliane; ché anzi qui tutto è realtà bassa e materiale. La Beca è un po' piccina, zoppica alquanto, ha una macchiolina nell'occhio, peli intorno alla bocca; e Nuto non le fa complimenti.
Delle Frottole non è da far conto; e quanto agli Strambotti è molto dubbio se siano veramente di Luigi. Molti sonetti egli compose, assai più di quelli pervenutici in un Libro di sonetti, che son tutti di contrasti o invettive e sdegni, la maggior parte contro Matteo Franco, uno dei cappellani di casa Medici. È indubitato che costui cercasse arditamente di farlo cadere in disgrazia; e mentre con qualche lettera si adoperava a ciò, assaliva direttamente il P. con scherni e insolenze. Si comincia tra i due con scherzi e punture di spillo, ma si arriva al turpiloquio e all'indecenza e all'assalto violento, che finisce con urtare il lettore, già intollerante dell'oscuro fare burchiellesco. Altre invettive si trovano contro Bartolomeo Scala e lo stesso Marsilio Ficino, il quale si sfoga a sua volta in lettere piene di dispregio. Il P. odiava quella sottigliezza e arroganza filosofica, avvezzo a veder le cose in modo chiaro e pratico; si lasciò sfuggire un sonetto In principio era buio e buio fia, che levò clamore per l'incredulità che rivelava; e un altro sulla sede dell'anima nel corpo, che finiva col paragonare a un panino gravido. Non vi sono gli estremi per tacciarlo di empietà, ma egli rimediò con una Confessione in terza rima, che è una cosa molto seria. Ricca di riminiscenze dantesche, ben fondata sui testi sacri, esprime pentimento per non aver sempre cantato di Maria Vergine, da lui invocata come protettrice nel Morgante. Così smentisce le accuse, espone e dimostra la materia del Credo, descrive la vita della Madre di Dio, i miracoli e la passione di Gesù, la resurrezione sino alla fondazione della Chiesa.
Ediz.: Le frottole, a cura di G. Volpi (Firenze 1912); Sonetti di Matteo Franco e di L. Pulci, assieme con la Confessione, Stanze in lode della Beca e altre rime del medesimo Pulci (Lucca 1759); Il libro dei sonetti, a cura di G. Dolci (Milano 1932); Strambotti, a cura di A. Zenatti (Firenze 1887 e 1894; e cfr. Rass. bibliogr. d. lett. ital., 1894, p. 89 segg.). Per il Morgante, la migliore, sebbene non del tutto soddisfacente, edizione è di G. B. Wenston (Bari 1930, voll. 2); notevole quella di Napoli [Firenze], Morgante Maggiore, 1732. Cfr. inoltre quella a cura di G. Volpi (Firenze 1914, voll. 3); e le Stanze scelte (ivi 1927).
Bibl.: Lettere di L. P. a Lorenzo il Magnifico e ad altri, a cura di S. Bongi, Lucca 1868; 2ª ed., 1886; G. Volpi, L. P.: studio biografico, in Giorn. stor. della letter. ital., XXII (1893), p. i segg.; C. Carnesecchi, Per la biografia di L. P., in Arch. stor. ital., s. 5ª, XVII (1896), p. 371 segg.; C. Pellegrini, L. P., l'uomo e l'artista, Pisa 1912 (Annali della R. Scuola normale superiore, XXV); V. Rossi, Il Quattrocento, 2ª ed., Milano 1933, pp. 353 segg., 419 segg.; P. Rajna, La materia del Morgante in un ignoto poema cavalleresco, in Propugnatore, II, i (1869), p. 23 segg.; A. Della Torre, Storia dell'Accademia platonica, Firenze 1902, p. 820 segg.; A. Momigliano, L'indole e il riso di L. P., Rocca S. Casciano 1907; G. Volpi, La Divina Commedia nel Morgante, in Giorn. dantesco, XI (1903), p. 170 segg.; G. Brognoligo, ibid., XII (1904), p. 17 segg.; N. Zingarelli, La composizione del Morgante di L. P., in Rendiconti del R. Istituto lombardo, LXV (1932), fasc. 11-15; e anche l'introduzione all'edizione dell'Orlando Furioso, Milano 1934, p. xxvi segg.; R. Truffi, Giostre e cantori di giostre Rocca S. Casciano 1911. Sulla religiosità del P., E. Walser, Lebens- und Glaubensprobleme aus dem Zeitalter der Renaissance. Die Religion des L. P., Marburgo 1926.