PULCI, Luigi
PULCI, Luigi. ‒ Discendente di una nobile famiglia fiorentina ormai in decadenza, nacque a Firenze il 15 agosto 1432 da Iacopo di Francesco e Brigida de’ Bardi.
Il padre ebbe diverse cariche pubbliche, anche se di modesto rilievo, e riuscì a mantenere solo pochi degli antichi possessi, a Firenze e a San Giuliano a Settimo. La madre, appartenente all’illustre casato dei Bardi, trasmise al marito, e poi, alla morte di questi (1451), ai figli, alcuni beni in Mugello che costituirono la modesta fonte di sussistenza di Pulci (il mulino al Palagio e il podere della Cavallina).
Dalla portata al Catasto del 1451 risulta che né Luigi, né i fratelli Luca e Bernardo, svolgevano alcun mestiere, non possedevano case a Firenze e, avendo debiti con il Comune, già da sei anni si trovavano a Specchio. Nel corso degli anni Cinquanta, Luca tentò un’avventura come cambiatore a Roma, presso il banco degli Arrighi, e poi a Firenze con Bernardo, ma ebbe scarsissima fortuna e la portata al Catasto del 1458 fotografa una situazione niente affatto diversa, con una lunga lista di creditori.
Poco si conosce della gioventù di Pulci: fino al suo ingresso nella sfera medicea la sola documentazione a lui relativa si lega al nome di Francesco Matteo Castellani (1418-1494), patrizio e cavaliere fiorentino del quale Luigi divenne cliente probabilmente verso la fine degli anni Cinquanta. Pulci, che in questo periodo abitava in Oltrarno in via dei Bardi, svolgeva per Castellani servizi di varia natura, ma trovò anche modo di arricchire la propria cultura: il 2 gennaio 1460 prese in prestito dal patrono un Virgilio, restituito il 21 dicembre 1462, «per andare a udire messer Bartolomeo da Colle» e il 21 maggio del 1460 un Dottrinale «per studiare l’arte metrica»; ma non sembra improbabile che potesse accedere ad altri volumi che sappiamo essere passati per la casa di Castellani (il Corbaccio di Giovanni Boccaccio, i poemetti dello Za, la Cronica di Giovanni Villani, per limitarsi solo ai testi volgari).
Recentemente, con la scoperta di un frammentario zibaldone letterario appartenuto a Castellani, si è potuto documentare un rapporto anche di natura culturale fra i due personaggi (lo stesso Castellani, scolaro di Francesco Filelfo, si cimentò nella composizione di poesia latina e volgare): conserviamo alcuni sonetti diretti a Francesco o scritti da Pulci su sua commissione (tale dovette essere il sonetto-viatico scoperto da Domenico De Robertis Per quel che antica fama ci raporta, indirizzato a Lorenzo, ma scritto su commissione di Castellani).
Va detto che l’opera di Pulci, che pure si svolse tutta in volgare, mostra tracce palesi della lettura di alcuni classici (Virgilio, come si è visto, fu letto in latino, ma dai testi pulciani emerge anche una grande confidenza con l’opera di Ovidio, autore tesaurizzato dal fratello Luca); un oggetto apparentemente stravagante come il Vocabolista, sorta di glossario di termini difficili, per lo più grecismi e latinismi, derivati in buona parte dalla lettura dei classici, fornisce un’immagine piuttosto fedele della formazione pulciana e delle sue velleità umanistiche.
Non si sa quando e in che modo avvenisse il passaggio di Pulci al servizio dei Medici, anche se il citato sonetto Per quel che antica fama e una serie di altri indizi farebbero pensare a una mediazione di Castellani (che pure era saldamente legato, anche per vincoli familiari, all’opposizione al regime mediceo). Se la più antica testimonianza di rapporti diretti con la famiglia egemone conduce a Lucrezia Tornabuoni, colta madre di Lorenzo, che intorno al 1461 affidò a Pulci l’incarico di scrivere un poema sulle gesta di Carlo Magno, è con il giovane Lorenzo che Pulci instaurò un rapporto di profonda amicizia e confidenza, almeno a partire dalla metà degli anni Sessanta. Il monumento letterario che ci parla di quel sodalizio sono le Lettere pulciane: pur redatte per finalità pratiche e non pensate per una pubblicazione, queste lettere costituiscono una preziosa fonte di informazione sulla biografia pulciana e permettono di mettere a fuoco la natura delle piccole missioni affidate a Pulci dall’amico-patrono, anche per far fronte alle sue frequenti e sfacciate richieste, e il particolarissimo rapporto che si instaurò fra i due. Anche la letteratura ha una parte notevole in questi scritti (non per niente le lettere sono spesso accompagnate da poesie, o parlano di testi da comporre o da recitare o citano letture comuni ai due corrispondenti). Pulci è un elemento imprescindibile della ‘brigata’ di giovani aristocratici che circonda Lorenzo e che con lui condivide gli svaghi rurali (per lo più nell’amato Mugello) e i ritrovi cittadini, come la frequentazione della Compagnia dei Magi. È in questo periodo che Pulci compone veri e propri scritti su commissione, come la Giostra, poemetto in ottave che conobbe una lunghissima gestazione, celebrante la giostra vinta da Lorenzo nel 1469. Un interessante documento appartenente a questa stagione è il codice Parmense 2508 della Biblioteca Palatina di Parma, copia dei Trionfi petrarcheschi e delle egloghe di Francesco Arzocchi esemplato da Pulci in una bella grafia umanistica e probabilmente destinato a Lorenzo giovinetto.
Proprio gli anni in cui è più vivo il rapporto con il Medici sono tra i più difficili dell’esistenza pulciana: il fallimento del banco dei fratelli significò il bando da Firenze (1465) e la possibilità per i creditori di rivalersi sul patrimonio di Luigi. Nel marzo dell’anno successivo la crisi sembrò risolta, anche grazie al decisivo aiuto di Lorenzo, ma per diverso tempo la situazione economica dei tre fratelli restò precaria. Luca fu quello che patirà le maggiori conseguenze, ma anche Luigi ancora nel 1473 dichiarava di essere a Specchio e il fatto che non ricoprì mai alcuna carica pubblica suggerisce che l’inibizione dovette durare a lungo (per ironia della sorte, fu estratto pochi giorni dopo la sua morte, e di nuovo nell’agosto dell’anno successivo). Da quel momento in poi, forse anche per far fronte alle necessità economiche dell’amico, Lorenzo gli assegnò diverse missioni semiufficiali, in cui non è sempre chiaro quanto la sua attività riguardasse la sfera pubblica o quella privata di Lorenzo. Tra il 1467 e il 1468 fu più volte a Pisa; alla fine del 1470 a Foligno, a Camerino da Giulio Cesare da Varano per conto di Lorenzo e per una sua impresa commerciale (in una lettera si dichiara «mercatante in grosso»). Dalle Marche si spostò all’inizio del 1471 a Napoli, dove si trattenne per più mesi, presso Ferdinando I d’Aragona e Alfonso di Calabria; l’anno dopo fu ancora a Camerino e a Foligno e raggiunse poi Roma, unendosi al seguito di Clarice Orsini, moglie di Lorenzo. Nel 1473 fu a Bologna e poi a Milano e Venezia, l’anno successivo di nuovo a Pisa e Bologna: aveva rinsaldato l’amicizia con il condottiero Roberto da Sanseverino (1417-1487), conte di Caiazzo, che probabilmente aveva conosciuto durante la missione a Napoli (se non addirittura nel 1469, quando Roberto fu giudice della giostra vinta da Lorenzo), e con cui mantenne un lungo sodalizio fino alla morte.
Le recenti ricognizioni sulla poesia pulciana hanno mostrato come una parte preponderante della produzione sonettistica di Pulci consista di testi polemici o scritti in vituperio di un avversario; questa predisposizione per la poesia di maldicenza è pubblicamente sancita dal ritratto di Pulci compreso nella laurenziana Uccellagione di starne (ott. 40). Relativamente celebri sono i sonetti scritti contro il cancelliere della Signoria Bartolomeo Scala, le cui lezioni virgiliane furono frequentate da Pulci a inizio anni Sessanta. L’elezione di Scala (24 aprile 1465), figlio di un mugnaio, a quel prestigiosissimo incarico scatenò la furia satirica di Pulci, che già lo aveva attaccato in alcuni sonetti: divertentissimo documento dell’indignazione pulciana è la lettera a Lorenzo del 27 aprile, tutta giocata sul tema della farina, rivelatasi inopinato mezzo di promozione sociale.
Diverso il discorso che riguarda Matteo Franco e Marsilio Ficino. Le due dispute, di cui restano tuttora incerti i limiti cronologici e gli sviluppi puntuali, vennero di fatto a intrecciarsi e contribuirono entrambe, nonostante la differente caratura dei due antagonisti, a rendere sempre più precaria la posizione di Pulci nell’ambiente fiorentino. Se lo scontro con il giovane prete e cliente mediceo Matteo Franco, collocabile negli anni centrali dell’ottavo decennio del secolo, fu una polemica tutt’altro che fittizia, ma tutto sommato dallo scarso impatto (ci si giocava tutt’al più il ruolo di poeta comico più à la page nel circolo laurenziano), l’altrettanto violenta – e grosso modo coeva – polemica con Ficino ebbe una risonanza maggiore, motivata non tanto dal prestigio dell’avversario, quanto dal progressivo ma radicale mutamento della politica culturale laurenziana, che comportò una stupefacente ascesa del filosofo di Careggi. I tempi stavano rapidamente cambiando, e a tutto svantaggio di Pulci. A complicare le cose intervenne il grave episodio rappresentato dalla composizione, da parte di Pulci, di alcuni sonetti ‘eretici’ che parodizzavano alcuni dogmi (soprattutto In principio era buio, e buio fia, ma anche Costor che fan sì gran disputazione, forse scritto in collaborazione con Benedetto Dei, che prende di mira le dottrine neoplatoniche sull’immortalità dell’anima) o certe pratiche religiose (il fanatismo dei pellegrini, la fede nei miracoli raccontati nella Scrittura, il credito riscosso dai predicatori); e non dovette certo contribuire a smentire la sua fama di miscredente la lunga consuetudine con le arti magiche. Lo scandalo seguito alla circolazione di questi testi espose Pulci alla pubblica riprensione e obbligò i Medici a intervenire, prendendo le distanze. Anche nella polemica contro Ficino, che reagì pubblicamente agli attacchi, ci fu un diretto intervento di Lorenzo, sollecitato dal filosofo, per costringere Pulci a desistere dalle sue provocazioni. Nonostante questi episodi, non è corretto parlare di esilio di Pulci e di una sua emarginazione determinata da questi fatti; soprattutto non si può parlare di una sua caduta in disgrazia presso i Medici. Altre furono le ragioni che lo condussero lontano dal suo amico e patrono.
Pulci si trovava sempre più di frequente fuori di Firenze, in particolare dopo la crisi degli anni 1465-66, fondamentalmente per ragioni di natura economica; e questo nonostante che tra la fine del 1473 e l’inizio dell’anno successivo egli prendesse in sposa Lucrezia degli Albizzi, da cui ebbe quattro figli: Roberto, Iacopo, Luca e Lorenzo. I suoi rapporti con Roberto da Sanseverino e con il figlio Gaspare divennero sempre più stretti a partire dagli ultimi mesi del 1472, quando di fatto Pulci cominciò ad agire come suo inviato (nel dicembre lo troviamo aggregato al suo seguito), curando in particolare i suoi rapporti con Firenze e con Lorenzo (Roberto e i suoi figli furono a lungo al soldo del duca di Milano e della Repubblica di Firenze). Anche per questo i rapporti con Lorenzo continuarono e Pulci ricoprì un ruolo di mediazione assai delicato. Tra il 1474 e il 1479 si trovò spesso in Lombardia, dove frequentò alcuni amici fiorentini ben inseriti nel contesto milanese: Piero Vespucci, Benedetto Dei, cronista, grande viaggiatore e informatore politico, e il poeta Bernardo Bellincioni. Nel 1481 gli fu offerto l’ufficio di capitano di giustizia in Val di Lugana, ma qualche impedimento intervenuto non gli permise di ricoprire l’incarico. Dopo un periodo vissuto presumibilmente tra Firenze e la Cavallina (autunno 1481-primavera 1483), mentre perdurava l’eco di antiche e nuove polemiche (fu bersaglio, fra l’altro, degli attacchi di Girolamo Savonarola) e vedeva la luce l’edizione definitiva del Morgante, Pulci riprese i viaggi nel Nord Italia e nell’agosto del 1484 ottenne da Sanseverino l’incarico di procuratore dei suoi interessi a Firenze, garantito da una pensione annua di cinquanta o sessanta ducati.
Questa nuova, migliore condizione e la possibilità di restare più tempo a Firenze sembravano aprire una stagione nuova, più serena, nella sua esistenza; ma, cedendo alle insistenze del suo signore di seguirlo nella trionfale impresa in Veneto (sono gli anni della guerra di Ferrara), trovò la morte probabilmente all’inizio dell’autunno. È incerto se entrasse a Venezia con Sanseverino o se morisse qualche giorno prima a Padova (in una lettera del condottiero del 13 ottobre 1484 si dice che egli «già molti giorni passò di questa vita»). Fonti tarde raccontano che fu sepolto a Padova in terra sconsacrata a causa della sua fama di eretico.
Si conserva un solo ritratto di Pulci, all’interno dell’affresco di Filippino Lippi raffigurante la resurrezione del figlio di Teofilo nella cappella Brancacci della chiesa di S. Maria del Carmine di Firenze (è invece caduta, dopo gli studi di Stefano Carrai, l’identificazione con Pulci del personaggio ritratto nell’Approvazione della regola di san Francesco di Domenico Ghirlandaio nella cappella Sassetti della chiesa di S. Trinita).
L’opera di maggior fortuna è senza dubbio il Morgante, poema in ottave scritto nel corso di più di un ventennio, ma scisso in due parti fortemente divaricate per tempi di composizione e ispirazione. I primi 23 cantari, usciti a stampa nel 1478 (ma dell’edizione non è sopravvissuto nessun esemplare), raccontano le gesta dei paladini di Carlo Magno seguendo un canovaccio predefinito (il rapporto con l’Orlando laurenziano, indubitabile, è ancora oggetto di discussione). Il poema segue le peripezie dei paladini, i canonici scontri con i pagani, le trame amorose che li coinvolgono, ma questa parte dell’opera è giustamente famosa per le modalità della narrazione, che è come filtrata dal caleidoscopio burchiellesco e ravvivata da un’inesausta inventività linguistica, dominata dal gusto per l’iperbole e per il paradosso, dove «le parole finiscono col fare spettacolo da sole» (De Robertis, 1966, p. 475); gli stessi paladini assumono vesti quotidiane e le convenzioni della poesia epica sono spesso parodizzate, anche se non sono mancati gli studiosi che hanno letto l’opera in chiave allegorico-morale. L’eroe eponimo, eletto a protagonista a furor di popolo, è un gigante, armato del battaglio di una campana; le sue stupefacenti imprese attirano l’attenzione del lettore soprattutto nei due cantari (XVIII-XIX) in cui esso trova un degno compare nel semigigante Margutte, vero virtuoso della delinquenza e dell’inganno. Gli ultimi cantari (XXIV-XXVIII), pubblicati solo a partire dall’edizione del 1483 (Firenze, Francesco di Dino), invece, virano decisamente verso l’epica e conoscono una forte interferenza dell’esperienza biografica: la rotta di Roncisvalle, con la morte dei paladini, è narrata sulla scorta di altre fonti ed è modulata su un tono tragico e retoricamente teso. Dietro il velo di un’allegoria di non difficile decifrazione si scorge la fine di un mondo storicamente identificabile: il tradimento di Marsilio re di Spagna, che con Gano di Maganza rende possibile l’eccidio dei paladini, adombra la fosca figura di Marsilio Ficino, nemico personale di Pulci, ma anche pericolosamente legato ai mandanti della congiura dei Pazzi che il 26 aprile 1478, con il ferimento di Lorenzo e l’uccisione del fratello Giuliano, segnò la fine di un’epoca nella Firenze dei Medici.
Non solo dal Morgante emergono le numerose componenti della cultura pulciana: anche fuori dal poema la produzione di Pulci si segnala per una certa ampiezza di temi, forme e modi. Accanto all’ispirazione bucolica, vero marchio di fabbrica dei fratelli Pulci negli anni Sessanta, spicca il versante comico, che ha catalizzato l’attenzione della critica. La letteratura è inseparabile compagna di viaggio anche di Pulci maturo: i sonetti di parodia dialettale inviati dalle varie città in cui venne spedito (Milano, Napoli, Venezia, Siena), la novella del picchio senese e diverse lettere (notevoli quella che descrive la figlia del despota della Morea – una «cupola di Norcia», una «montagnia di sugna», un «berlingaccio» – e quella che racconta del crollo di un palco durante una predica a Foligno) costituiscono solo alcuni degli episodi di un’attività letteraria tutta volta all’esterno, rapsodica ma non improvvisata, affidata, quando si esprime in versi, per lo più alla misura breve del sonetto o del rispetto. E va anche tenuto a mente che l’attività pulciana non sta tutta nelle opere che di lui ci sono pervenute, non solo per le cospicue dispersioni, ma anche perché dietro a Pulci si intravede un gruppo di letterati che lavora gomito a gomito, un contesto in cui il momento della produzione e quello della fruizione dei testi sono difficilmente distinguibili, tanto da rendere problematica la questione della paternità dei componimenti, che spesso nascono dalla collaborazione fra più persone (l’esempio classico è quello della letteratura nenciale, cui Pulci partecipò con la sua Beca da Dicomano, ma anche gli strambotti presentano una situazione analoga, per non parlare dell’altro poema in ottave, il Ciriffo Calvaneo).
Una parte consistente della poesia pulciana è costituita da rime di corrispondenza, inviate a patroni e amici (Francesco Castellani, Lorenzo de’ Medici), ma soprattutto composte contro i molti avversari e detrattori; proprio le numerose polemiche che lo videro coinvolto portarono Pulci a comporre diversi testi apologetici: spiccano, per enfasi e rilievo, alcuni passi degli ultimi cantari del Morgante e la Confessione, lungo componimento in terzine scritto negli ultimi anni, in cui egli professa pubblicamente la sua fede e ritratta punto per punto alcuni suoi scritti (in particolare i sonetti di parodia religiosa).
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