PORRO LAMBERTENGHI, Luigi
PORRO LAMBERTENGHI, Luigi. – Nacque a Como il 12 luglio 1780 dal marchese Giorgio Porro Carcano, decurione patrizio della città e ciambellano dell’imperatore, e da Margherita Borromeo, sposata in seconde nozze.
Luigi studiò a Milano al collegio Longone o Collegio dei nobili. Si affacciò sulla scena pubblica assai giovane, prescelto il 23 brumaio anno X (14 novembre 1801) dalla Commissione straordinaria di governo della Repubblica Cisalpina fra i notabili del Dipartimento del Lario quale deputato ai Comizi di Lione. In realtà, al suo posto avrebbe dovuto andare Gian Pietro Porro, figlio di Giovambattista Porro e di Daria Passalacqua, ma per un errore di stampa risultò il nome di Luigi, col che partirono per la Consulta i due figli di Giorgio Porro, Luigi appunto e Carlo Innocenzo (primogenito, nato dalla prima moglie), nominato quest’ultimo in rappresentanza della guardia nazionale di Como.
Nel corso dei lavori della Consulta Luigi Porro tenne un ruolo defilato. Alla conclusione dei lavori, il suo nome venne compreso nelle nomine, ratificate il 26 gennaio 1802, al Collegio elettorale dei possidenti e al Corpo legislativo: si trattava delle destinazioni più ovvie e scontate, all’interno dei grandi consessi rappresentativi della nuova Repubblica Italiana che proprio in quella circostanza prendevano forma, e cui vennero in genere destinati quei delegati che non erano stati scelti per cariche di governo.
Negli anni della Repubblica e del Regno d’Italia, dal 1802 al 1814, Porro rimase sempre in quei corpi consiliari, senza mai cercare una collocazione nell’amministrazione. Evitò dunque un coinvolgimento in prima persona nella gestione degli affari di Stato, senza però per questo rifiutare ruoli da dignitario, meglio confacenti al suo status sociale. Sposatosi con la contessa Anna Serbelloni, esponente del patriziato milanese, costei venne compresa, con il Regno d’Italia e con l’arrivo a Milano del viceré Eugenio di Beauharnais e della consorte Amalia di Baviera, fra le dame di palazzo della viceregina e in ragione di ciò a Porro toccò il ruolo di paggio nella nuova corte.
Fin da allora fu evidente che pur non riconoscendosi nella filosofia dello Stato napoleonico, di cui percepiva in termini negativi il carattere autoritario e la dipendenza da un potere estero ritenuto dispotico, non fece da ciò seguire il rifiuto di quanto quel governo potesse offrire sul piano del riconoscimento di status. Soprattutto lo spingeva a frequentare la corte e l’alta società napoleonica il desiderio, in lui fortissimo, di costruire rapporti e relazioni estesi: atteggiamento che lo avrebbe accompagnato senza cedimenti per tutta la vita. Tuttavia, questo suo concedersi agli spazi sociali della corte napoleonica avrebbe anche dato luogo a considerazioni non benevole sul suo conto: Teresa Casati, la moglie dell’amico a lui più vicino, Federico Confalonieri, scrisse in una lettera al marito del 26 agosto 1814: «egli striscia come sai ha sempre fatto sotto l’altro governo» (Carteggio del conte Federico Confalonieri, 1910-1913, I, p. 236). Come consorte di una dama di palazzo, Porro fu insignito dell’ordine della Corona di ferro, del titolo di conte (12 ottobre 1810) e naturalmente, come quasi tutto l’establishment napoleonico, fu massone.
Il solo compito politico di rilievo che gli venne attribuito nella stagione napoleonica fu quello di relatore, nel 1807, per il Corpo legislativo, della proposta di legge relativa alla tassa del registro, il cui rifiuto da parte dell’assemblea determinò la scelta di Napoleone di non convocarla più.
Porro era dunque uomo sensibile alle dignità e incline ai rapporti sociali, ma insieme anche uomo d’azione, con senso degli affari, determinato e non privo di coraggio. Gli ultimi giorni del napoleonico Regno d’Italia lo videro, insieme al gruppo dei cosiddetti Italici puri, ergersi a protagonista. Per la cerchia di giovani aristocratici di cui era parte, che aveva proprio in Confalonieri e in lui stesso le punte di diamante, l’operazione in atto da parte di una componente importante del ceto di governo italico, sostenuta da Francesco Melzi d’Eril, per dare corso attraverso un pronunciamento del Senato a uno Stato italico autonomo con Eugenio di Beauharnais quale sovrano, fu visto come un intollerabile stratagemma per far sopravvivere uno Stato oppressivo al servizio di una potenza straniera.
A monte di questa posizione stava una contrapposizione generazionale fra i cinquantenni al potere dello Stato italico e i trentenni emergenti. Contrapposizione che si nutriva dello scontro ideologico e di sensibilità fra cultura classica e dissacratore gusto romantico; ma anche contrapposizione che trovava una radice forte nella presunzione, che l’aristocrazia patrizia milanese rivendicava appieno, di proporsi quale ceto egemone, capace di cavalcare i valori europei della modernità e di permearne per suo tramite la società.
Porro fu pertanto il secondo firmatario, dopo il generale Domenico Pino, della richiesta formale di convocazione dei Collegi elettorali, che venne inoltrata il 19 aprile 1814 al fine di contrapporre immediatamente alla volontà senatoria il pronunciamento di un altro corpo rappresentativo, nel caso in cui fosse passata la proposta a favore dell’ascesa al trono di Eugenio di Beauharnais.
Le vicende del 20 aprile 1814, con l’invasione del palazzo del Senato e l’incivile episodio del linciaggio del ministro delle Finanze Giuseppe Prina, hanno steso un’ombra pesante di responsabilità su Porro, Confalonieri, Pino e il gruppo degli Italici puri. Indipendentemente dal fatto, probabilmente non vero, che avessero avuto un ruolo attivo nel fare entrare in Milano la massa armata che si sarebbe resa responsabile dell’eccidio, resta che nella volontà di bloccare a ogni costo la nomina di Eugenio essi non esitarono a trovare una momentanea alleanza con esponenti dell’aristocrazia più reazionaria e visceralmente antifrancese.
Il giorno successivo, il 21 aprile, Porro fu designato dall’amministrazione milanese, che aveva provvisoriamente coperto il vuoto di potere dopo il colpo di Stato, quale suo rappresentante presso i comandi austriaci a Verona. Era segno di come fosse riconosciuto il ruolo politico degli Italici puri dopo la giornata del 20 aprile; ruolo confermato poi dalla missione parigina, per trattare con gli alleati, svolta da Confalonieri.
La proposta di cui Porro si faceva latore era descritta in una lettera a Confalonieri del 13 maggio 1814: «La considerazione che sottoposi a Bellegarde, e Nugent, che un bel regno di molto ardor nazionale, retto da un principe austriaco, e che rendeva grande il nostro paese per l’unione del Modenese, e la speranza del Piemonte, era per la casa d’Austria una più grande risorsa che delle provincie, che per lo più sono addormentate dall’amministrazione indolente de’ governatori oltramontani, e senza propri interessi. La forza di un bel regno unito per gli interessi, e legami di famiglia coll’Austria, e che in occasione di guerra le avrebbe potuto dare 30, o 40 mila baionette eccellenti, ed essere vero antemurale alla Francia, valeva ben più che la lombarda provincia, che a stento dava due reggimenti. Queste considerazioni piacquero» (Carteggio del conte Federico Confalonieri, 1910-1913, I, pp. 122 s.). Le cose andarono diversamente: Porro e gli aristocratici a lui vicini si trovarono di nuovo fuori dalla scena. Grandi furono lo sconcerto e la delusione di Confalonieri, reduce lui pure senza risultati dai colloqui parigini; la rinascita verso nuovi grandi progetti maturò attraverso i viaggi del 1818 a Ginevra, Parigi e Londra.
Porro ebbe un percorso formativo analogo, ma più marcatamente volto alla costruzione di un sistema di relazioni e di attività che avesse per centro Milano e la propria capacità aggregativa. Impressionante fu il vertiginoso succedersi dei suoi viaggi, fra il 1816 e il 1820, in giro per l’Italia e non solo. A quella data egli era ormai vedovo, essendo la giovane moglie morta nel 1813, in una situazione poco chiara che avrebbe dato il via a voci maligne circa un infelice tentativo di procurare un aborto del figlio concepito con l’amante Ludovico di Breme.
Tutta la vita di Porro fu a quel punto concentrata sull’azione, allo scopo di raggiungere quei risultati che sempre meglio stava mettendo a fuoco con l’amico Confalonieri. Si trattava, in una vorticosa successione di contatti, letture e scambi intellettuali, di farsi alfiere della realizzazione dei valori della modernità, quali si riconoscevano in quegli anni nei Paesi europei all’avanguardia, al fine di porre l’Italia al passo della civiltà europea. Porro, che non era un pensatore né uno scrittore, bensì un uomo d’azione e un grande organizzatore, si poneva di fronte a quel flusso ideologico non certo con spirito critico, ma quale interprete e attore. Ludovico di Breme diceva di lui, scrivendo il 31 luglio 1814 a Tomaso Valperga di Caluso: «Porro nuota sempre nel futuro e sprezza il presente, perché ha poca cognizione del passato» (Lettere, a cura di P. Camporesi, 1966, p. 243). Animato da questa spinta verso un idealizzato futuro, Porro restava al tempo stesso ancorato a un codice aristocratico conservatore, che lo portava a immaginare una collocazione politica della Lombardia in chiave pattizia, secondo una mentalità squisitamente d’antico regime: «Siamo dunque austriaci? – scriveva a Confalonieri, a Parigi, il 14 maggio 1814 – Siamolo almeno come lo sono le provincie, e regno ungaresi e boemi, a parte dei loro privilegi, diritti della nobiltà, esclusione di esteri alle cariche nazionali che fossero per essere addette al nostro regno» (Carteggio del conte Federico Confalonieri, 1910-1913, I, p. 124). Tuttavia dagli austriaci la sua azione sarebbe stata percepita come rivoluzionaria, degna dei provvedimenti repressivi più severi.
Dal 1816 al 1820 Porro dispiegò energia e sostanze per la causa. Il suo proposito era di creare un vasto movimento a sostegno delle nuove idee. La scelta fu quella di costruire un polo di riferimento nella piazza milanese. Rapidamente tutte le sue dimore furono destinate a centro di ‘neomecenatismo’: non solo la villa del Balbianello, sul lago di Como, ma anche la principesca dimora di Cassina Rizzardi, dove aveva sede la sua filanda sperimentale. Necessitando anche di una dimora di prestigio a Milano, nel 1817 acquistò da Giuseppe Lechi la casa in contrada Monte di Pietà, a pochissima distanza da palazzo Confalonieri, la stessa in cui nell’ottobre 1820 fu arrestato Silvio Pellico, che risiedeva stabilmente in casa Porro quale istitutore dei due figli, Giulio e Giacomo. La dimora milanese divenne luogo di ritrovo di intellettuali liberali e sempre lì regolarmente approdavano intellettuali stranieri. Come scriveva lo stesso Pellico, «in quella casa affluiva tutto ciò non solo, che avea di più colto la città, ma copia di ragguardevoli viaggiatori. Ivi conobbi la Staël, Schlegel, Davis, Byron, Hobbhouse, Brougham, e molti altri illustri di varie parti d’Europa» (B. Sanvisenti, Nei primi mesi della prigionia del Pellico, in Archivio storico lombardo, LIX (1932) p. 386).
Gli anni tra il 1816 e i moti del 1821, che determinarono la svolta senza ritorno nel rapporto con il governo austriaco, rappresentarono il periodo di più intensa realizzazione del programma nazional-liberale. Momenti topici delle ‘imprese’ modernizzatrici del gruppo furono: l’apprestamento di un battello a vapore per la navigazione sul Po, l’introduzione dell’illuminazione a gas a Milano (progetto poi realizzato solo nell’abitazione di Porro), l’attivazione di scuole di mutuo insegnamento sul modello lancasteriano (esperimento ben presto bloccato dal governo). Specifica opera di Porro fu l’applicazione del vapore nella gelsibachicoltura. In quegli anni gli esperimenti su come migliorare questo ramo produttivo divennero una sorta di passione diffusa negli ambienti illuminati della società. Egli vi si impegnò, creando a Cassina Rizzardi un polo d’avanguardia.
Tutto il gruppo, e Porro in prima fila, muoveva dunque seguendo le mille direttrici possibili di un progetto volto all’incivilimento della popolazione. Progetto del quale il gruppo di aristocratici si proponeva come attore, interprete ed esegeta, in aperta alterità con il governo e con le istituzioni statali, quindi senza più le forme di coinvolgimento e compartecipazione che avevano caratterizzato lo stesso spirito di tanti che si erano spesi all’interno delle istituzioni napoleoniche.
Questo atteggiamento di costante contrapposizione non poteva non tradursi in scontro politico con il governo austriaco. Su questo piano si ebbe la maggiore impresa del gruppo, promossa questa volta proprio da Porro, cioè la fondazione del Conciliatore. Pur essendo infatti parte della società che reggeva l’impresa del foglio scientifico-letterario anche Confalonieri, quest’ultimo rimase relativamente ai margini, mentre vero propugnatore e mecenate ne fu Porro: nella sua casa si era formato il cenacolo di giovani intellettuali (fra i quali Pietro Borsieri, di Breme, Giovanni Berchet, Pellico) che, condividendo gli ideali di liberalismo nazionale e romantico e il progetto di incivilimento della nazione, aveva deciso di fissarne il concreto disegno in un foglio periodico. Il Conciliatore sarebbe stato rapidamente riguardato dal governo come avversario da combattere: non solo era un foglio che si faceva portavoce delle istanze della modernizzazione e dell’utile generale, ma apriva in maniera netta a tutte le parole d’ordine del liberalismo, e lasciò comparire presto anche espressioni velatamente antiaustriache. Il Conciliatore fu perciò sottoposto a una censura spietata, a un certo punto coordinata di persona dal governatore Giulio Giuseppe Strassoldo. Dopo solo centodiciotto numeri, avendo avviato le pubblicazioni il 3 settembre 1818, le cessò il 17 ottobre 1819. Nonostante la brevità della sua vita, Il Conciliatore ebbe successo, e Porro avrebbe a più riprese dichiarato di ritenere questa impresa editoriale il vero simbolo del suo progetto: «io considero il Conciliatore come la più gran prova dell’intelligenza, e del coraggio politico dei nostri, e come la prova della conoscenza dei veri nostri Interessi», scrisse a Borsieri il 5 maggio 1839 dall’esilio marsigliese (R.U. Montini, Lettere di Luigi Porro Lambertenghi a Pietro Borsieri, in Rassegna storica del Risorgimento, XXXVII (1950), 1-4, pp. 365 s.).
Certo a causa dello scontro determinato dal Conciliatore, ma ancor più in ragione del radicalizzarsi della cifra politica della contrapposizione al governo, Porro nel 1820 si affiliò alla carboneria. Il canale fu probabilmente il rapporto di amicizia creatosi fra Pellico e Piero Maroncelli, che appunto era carbonaro e avrebbe convinto anche Porro ad aderire nell’agosto 1820. Ma al di là di ciò, fu il deterioramento della situazione, con la rivoluzione a Napoli nel 1820 e poi i moti del marzo 1821 in Piemonte, a sollecitare l’intervento repressivo da parte del governo austriaco. L’arresto di Maroncelli e poi di Pellico, nell’ottobre del 1820, rappresentò l’avvio di una estesa azione giudiziaria volta a sradicare l’opposizione politica. Porro ben presto ebbe notizia che il cerchio dei sospetti stava convergendo su lui, per cui in aprile riparò all’estero.
Era l’inizio di un lungo periodo d’esilio. Dapprima passato in Piemonte, dopo l’episodio di Novara si rifugiò a Ginevra, dove trovò protezione nella casa del procuratore generale Luigi Stefano Duval «che, eseguendo il mandato di estradizione, avrebbe dovuto arrestarlo e consegnarlo agli austriaci» (L. di Breme, Lettere, cit., p. 362, n. 4). Fu in seguito in Francia e quindi in Inghilterra, dove si unì al gruppo di esuli italiani colà riparato. Dal 17 febbraio al 30 settembre 1823 a Londra condivise con l’amico Santorre di Santarosa l’appartamento già di Ugo Foscolo in Marylebone Street, e quando Santarosa si spostò a Nottingham lo seguì. Con quest’ultimo condivise il progetto di sostegno alla guerra di liberazione greca e lo accompagnò quindi in Grecia: fra il 1824 e il 1825 Porro fu successivamente addetto al ministero degli Esteri del governo provvisorio, governatore di Atene e intendente generale dell’Esercito. Colpito da tifo, con grave rischio per la sua vita, abbandonò la Grecia e nel 1827 sbarcò a Marsiglia, dove si stabilì.
Intanto a Milano, a seguito del processo celebrato dopo la sua fuga, fu condannato a morte e la sentenza eseguita in effigie nel 1822. Gli furono anche sequestrati i beni, rendendo con ciò la sua vita di esule quanto meno economicamente complessa.
La Francia, e Marsiglia, furono ricovero di numerosi esuli italiani. Porro continuò a tessere legami e relazioni con gli altri esuli (una volta liberato dal carcere anche l’amico di sempre, Confalonieri, fu per vari periodi fra Marsiglia e Aix-en-Provence), partecipando alla costruzione di quel progetto di mediazione culturale con le esperienze liberali e nazionali di altri Paesi che avrebbe influito non poco sul Risorgimento italiano. Certo, l’ambiente degli esuli italiani a Marsiglia vide presto prevalere il radicalismo di Giuseppe Mazzini, che lì appunto fondò, nel 1831, la Giovine Italia, e Porro si trovò per molti versi marginalizzato.
Il suo modello di liberalismo restava ancorato agli anni eroici successivi alla caduta dello Stato napoleonico, quando si era dispiegato il progetto di modernizzazione nazionale cui con tanto impegno aveva partecipato. Progetto per lui sempre emblematicamente racchiuso nel Conciliatore, e naufragato per l’intempestiva esplosione dei moti: «Se il nostro movimento morale non avesse avuto la sfortuna d’esser turbato dai movimenti rivoluzionarij, che persone non atte agli affari hanno fatto scopiare nel nostro Paese, intempestivamente, 20 anni prima di quello, che dovevano essere fatti, avresti veduto, mio Caro, gli effetti di quell’unità letteraria, di cui erasi fatto quadro quel foglio, conquistandosi in pochi mesi tutte o quasi quelle vecchie notabilità della nostra letteratura, che ci corbellavano nei primi giorni» (R.U. Montini, Lettere di Luigi Porro Lambertenghi a Pietro Borsieri, cit., 5 maggio 1839, pp. 365 s.).
Finalmente amnistiato, Porro rientrò a Milano nel 1840. Riaprì il suo salotto, ma il tempo trascorso e i controlli della polizia non gli consentirono di porsi come centro di una nuova stagione di proposte. Tuttavia, nel 1848 ebbe ancora la forza di schierarsi: il Governo provvisorio milanese lo mandò quale proprio rappresentante in Francia e fu anche membro del Comitato di pubblica sicurezza.
Morì a Milano il 9 febbraio 1860.
Opere. Sul metodo di trarre la seta dai bozzoli per mezzo del vapore, Milano 1816 (memoria pubblicata sotto forma di opuscolo).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Processi politici, cart. 10 (vi si conserva documentazione relativa all’istruzione del processo del 1821). Sono state edite parziali raccolte di lettere: M. Lupo Gentile, L’esilio del conte L. P. L., in Italia. Rivista di storia e letteratura, III (1913), 3, pp. 191-195; G. Giulini, Una voce dall’esilio (dal carteggio inedito di L. P. L.), in La Lombardia nel Risorgimento italiano, VI-VII (1921-1922), 1, pp. 5-20; R.U. Montini, Lettere di L. P. L. a Pietro Borsieri, in Rassegna storica del Risorgimento, XXXVII (1950), 1-4, pp. 353-373. Numerose lettere di o a Luigi Porro Lambertenghi sono in alcuni grandi epistolari: Carteggio del conte Federico Confalonieri ed altri documenti spettanti alla sua biografia, a cura di G. Gallavresi, I-II, Milano 1910-1913, ad ind.; U. Foscolo, Epistolario, III, 1820-1827, a cura di F.S. Orlandini - E. Mayer, Firenze 1923, ad ind.; L. di Breme, Lettere, a cura di P. Camporesi, Torino 1966, ad indicem.
Non esiste una solida biografia di Luigi Porro Lambertenghi anche se in molte opere si fa cenno alla sua figura. Le notizie più accurate sono in: A. Romano, P. L., L., in Enciclopedia italiana, 1935, http://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-porro-lambertenghi_ (Enciclopedia_Italiana)/ (2 marzo 2016); U. Da Como, I comizi nazionali in Lione per la costituzione della Repubblica italiana, III, 1, Bologna 1938, p. 103. Si soffermano su specifici momenti della sua attività: A. Vannucci, I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, I, Milano 1887, pp. 402-415 e passim; A. Sandonà, Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg, Torino 1911, passim; B. Sanvisenti, La missione Porro presso le Alte Potenze nel 1814, in La Lombardia nel Risorgimento italiano, I (1914), 1-2, pp. 36-40; Id., L’atto di nascita del “Conciliatore”, in Archivio storico lombardo, LIV (1927), pp. 400-423; Id., Nei primi mesi della prigionia del Pellico, ibid., LIX (1932), pp. 383-391; A. Alberti, Elenchi di compromessi o sospettati politici (1820-1822), Roma 1936, passim; P. Bernardelli, L’Austria, Federico Confalonieri ed il primo tentativo di navigazione a vapore sul Po, in Rassegna storica del Risorgimento, LIX (1972), 4, pp. 514-530; M. Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari 2011, pp. 90, 170, 321 s. Anche studi non specificamente rivolti alla sua figura sono essenziali per cogliere il profilo culturale di Luigi Porro Lambertenghi: C. Mozzarelli, Sulle opinioni politiche di Federico Confalonieri, patrizio e gentiluomo, in Federico Confalonieri aristocratico progressista, a cura di G. Rumi, Milano-Bari 1987, pp. 47-67; F. Della Peruta, Confalonieri e la modernizzazione, ibid., pp. 80-105; M. Meriggi, Milano dalla Restaurazione al 1848: un panorama politico, in «La prima donna d’Italia». Cristina Trivulzio di Belgiojoso tra politica e giornalismo, a cura di M. Fugazza - K. Rörig, Milano 2010, pp. 17-26.