PESARO, Luigi
PESARO, Luigi (Alvise). – Nacque a Venezia il 23 luglio 1541, terzogenito del patrizio Marino, del ramo di S. Sofia.
Studiò filosofia nello Studio di Padova, avendo come maestri Bernardino Petrella, Iacopo Zabarella e Francesco Piccolomini (che egli stesso ricorda quale «excellentissimus praeceptor meus»). In data 11 marzo 1558, 15 novembre 1562 e 22 giugno 1564 figura tra i testimoni di tre addottoramenti. Fra i suoi condiscepoli fu Ippolito Aldobrandini, il futuro papa Clemente VIII, che lo avrebbe ricordato (Crasso, 1652, pp. 64 s.) con commossa ammirazione quando i nipoti Marino Jr e Girolamo Pesaro lo misero al corrente della morte prematura dello zio Alvise. A Padova Pesaro si addottorò in artibus, sostenendo con grande successo una pubblica discussione; del suo diploma di laurea non vi è però traccia negli archivi padovani, che per gli anni Sessanta si presentano lacunosi. Pesaro andò sempre fiero del titolo dottorale, al punto che fu l’ultimo a rispettare la tradizione che nella sala del Maggior Consiglio assegnava un posto ai patrizi che avevano conseguito il dottorato.
Ristretto appare il suo cursus honorum (fu tra i Dieci savi alle decime di Rialto). In effetti, il suo impegno maggiore riguardò l’insegnamento nella Scuola di Rialto quale pubblico lettore di filosofia, incarico che tenne dalla fine degli anni Sessanta, quando succedette a Francesco Da Ponte, fino al 1586; il 21 giugno 1586 fu nominato lettore di filosofia Antonio Gradenigo (Santinello, 1991, p. 66 n. 11). Risulta incerta la notizia che nel 1584 il Senato gli abbia affidato anche la direzione della Biblioteca Marciana.
Stando alle fonti, Pesaro morì a Venezia all’età di quarantacinque anni, dunque nel 1586, senza avere contratto matrimonio e senza lasciare figli. Il nipote Girolamo Pesaro fece dono della sua biblioteca privata ai frati cappuccini, ai quali la famiglia Pesaro era assai legata.
«Vultu fuit ille humili, atque mansueto – così lo ritrasse Nicolò Crasso –, sed scintillantibus, et vivacissimis oculis, ut anima illa ingens non in ore tantum, quasi porta, loquendo eloquentissimam, et bonis literis ad miraculum imbutam sese ostenderet, sed in oculis etiam, quasi fenestris, ut eos vocat Plato, subtilitatem, et vivacissimi ingenii acumen facile demonstraret» (1652, p. 73). Per una corretta messa a fuoco della figura di Pesaro sarebbe riduttivo porre l’accento sulla sua limitata attività politico-amministrativa, quasi che in lui l’insegnamento fosse un sottrarsi all’impegno pubblico.
Il fatto che nella Scuola di Rialto il lettorato di filosofia fosse tradizionalmente affidato a un patrizio è un indice del ruolo civile, oltre che culturale, svolto da tale istituzione. In effetti, furono proprio gli studi filosofici, condotti nella Scuola di Rialto e nello Studio patavino, a fornire le basi intellettuali a un’intera generazione di politici e amministratori veneziani (i cosiddetti giovani) che avrebbe poi inciso a fondo sulla vita politica e culturale della Serenissima a cavallo del 1600, in particolare durante la controversia per l’Interdetto.
Fra i maestri padovani di questi ‘giovani’ fu Francesco Piccolomini, aristotelico, ma anche appassionato lettore di Platone; e non a caso, fra gli allievi veneziani che egli menziona sul finire della sua Universa philosophia de moribus (Venezia 1583, p. 593D), spicca il nome di Pesaro: di lui, «olim auditor meus» e ora «philosophiae in amplissima sua patria praefectus», Piccolomini apprezza le elevate virtù morali, che unite alle doti intellettuali fanno sì che la filosofia diventi «vitae magistram ingenuorumque iuvenum parentem ac formatricem».
Pesaro proseguì dunque a Venezia l’azione educativa di Piccolomini, avendo fra i suoi allievi Andrea Morosini, Cristoforo Valier e il futuro doge Nicolò Contarini. La sua fama dovette essere diffusa, se nella lettera a Marco Antonio Priuli che Agostino Nani appose al De recta philosophandi ratione di Agostino Valier (Verona 1577, c. 3r) egli viene menzionato quale degno erede della folta schiera di pensatori veneziani attivi nella prima metà del secolo.
Oltre che all’insegnamento alla Scuola di Rialto, la fama di Pesaro è affidata a un’opera giovanile, frutto probabilmente delle conclusiones (il corrispettivo della moderna tesi di laurea) che venivano discusse pubblicamente al termine degli studi universitari e che talvolta venivano date alle stampe: De priscorum sapientum placitis, ac optimo philosophandi genere, sententiae et theoremata varia, ad ingenuas disciplinas pertinentia, ab Aloysio Pisaurio Marini filio patritio Veneto proposita, cum Patavii tum Venetiis publico congressu ad veritatis gloriam inter viros ingenuos discutienda (Padova, L. Pasquati, 1567).
Dedicata a Daniele Barbaro, «designato» patriarca di Aquileia e appassionato cultore di filosofia, l’opera intende offrire una raccolta di sentenze tratte dagli antichi filosofi, distribuiti in «sette» secondo il modello ispirato alle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Accanto al modello laerziano era naturalmente ben vivo nello Studio di Padova il modello aristotelico – si veda l’inizio della Metafisica e della Fisica –, che faceva precedere la trattazione teorica da una breve rassegna storica. Lo stesso Piccolomini appose ai suoi Libri ad scientiam de natura attinentes (Venezia 1596) un De philosophrum placitis… liber unus. A queste rassegne di natura storica era sottesa una prospettiva eclettica, che non ammetteva il monopolio esclusivo di una sola auctoritas in campo filosofico: se Piccolomini poneva sullo stesso piano le posizioni di Platone e di Aristotele e le riteneva non conciliabili fra loro, Pesaro affermava la superiorità dello Stagirita, ma avvertiva altresì l’esigenza di ripercorrere il cammino compiuto dall’intelletto umano nella ricerca della verità, dalle origini più remote (poste nella filosofia «barbarica» dei Caldei, degli Egizi e dei Persiani) sino a Platone e poi alla «Peripatetica sapientia», per superare la quale è necessario l’intervento della rivelazione divina. Questo percorso è ricostruito non con la semplice successione delle «scuole» filosofiche sorte dopo Socrate, bensì con la loro contrapposizione dottrinale: gli epicurei sono così opposti ai cinici, i cirenaici agli stoici, gli scettici ed eraclitei agli Accademici, fino ad Aristotele, alle cui dottrine è dedicato lo spazio maggiore. La contrapposizione è adottata pure all’interno di ogni scuola, in modo da distinguere anche graficamente i placita (ovvero le dottrine) degni di approvazione da quelli non accettabili sul piano speculativo e morale.
Il De priscorum sapientum placitis è citato dagli storici settecenteschi della filosofia (Christoph August Heumann, Johann Jacob Brucker, Appiano Buonafede) come uno dei primi esempi di historia philosophica in età moderna.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Mss., VI.85: M. Barbaro, Arbori de’ patritii veneti; N. Crasso, Pisaura gens, Venetiis 1652, pp. 73-76; G. Zabarella, Il Carosio overo origine regia et augusta della serenissima fameglia Pesari di Venetia…, Padova 1659, pp. 17, 60 s.; Giornale de’ letterati d’Italia, V (1711), pp. 378 s.; J. Morelli, Della pubblica libreria di San Marco in Venezia. Dissertazione storica, Venezia 1774, p. LXXXVIII; Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ab anno 1551 ad annum 1565, a cura di E. Dalla Francesca - E. Veronese, Padova 2001, pp. 298 (n. 749), 496 (n. 1215), 543 (n. 1319).
I. Tolomio, Il genere ‘historia philosophica’ tra Cinquecento e Seicento, in Storia delle storie generali della filosofia, a cura di G. Santinello, I, Brescia 1981, pp. 87 s., 95-97, 156-158; G. Santinello, Il de Priscorum sapientum placitis di L. P., in Id.,Tradizione e dissenso nella filosofia veneta fra Rinascimento e modernità, Padova 1991, pp. 64-90, 133, 153 s., 258.