PAPPACODA, Luigi
– Nacque il 20 settembre 1595, primogenito di Cesare e di Aurelia della Marra, signori di Pisciotta.
Rinunciò alla primogenitura a favore del fratello Federico e si trasferì a Roma, dove a 24 anni ottenne l’ufficio di referendario delle due Segnature. Allo stesso fratello Federico andò in moglie Porzia Mattei, figlia del marchese di Paganica e nipote dal cardinale Girolamo, per la stima che questi nutriva nei confronti di Pappacoda. Il percorso curiale, fermo all’incarico nella Segnatura, fu interrotto il 12 febbraio 1635 dalla nomina a vescovo della diocesi di Capaccio, resasi vacante per il trasferimento del titolare cardinal Francesco Maria Brancaccio a Viterbo. Per l’occasione Pappacoda fu fatto passare da chierico semplice agli ordini maggiori dallo stesso Brancaccio, acquisendosi testimonianza nel processo della Dataria «sulla frequenza ai sacramenti e sulla devozione» e sulla condizione di dottore in utroque (Archivio segreto Vaticano, Dataria apostolica, 14, cc. 43-60).
Per i quattro anni di episcopato caputaquense, al di là della notizia secondo la quale «fu pregato da’ Padri della Dottrina Cristiana, che confermasse la loro nascente Congregazione» (Volpi, 1752, p. 162), e del fatto che continuò ad abitare nel luogo natale di Pisciotta trasferendovi anche gli uffici della curia, Pappacoda «non si segnalò in alcun modo» (Volpe, 2004, p. 49).
Seguì la nomina a vescovo della diocesi di Lecce il 30 maggio 1639.
Secondo la Cronologia di Volpi Pappacoda avrebbe accolto di buon grado la nuova nomina «per togliere l’opinione sparsa da certi uni, di essere stata opera del Cardinal Brancaccio la promozione di Luigi a questo Vescovado in ricompenza dell’essere stato ricoverato da Federico Marchese di Pisciotta di lui fratello, mentre dallo sdegno del Vicerè si fuggiva; quando che Luigi era di tanto merito, che si disse essere stato già destinato alla porpora da Urbano VIII, ed essere stato anche il suo nome scritto nella lista di quei, che nella sesta promozione in concistoro doveano esser letti, ma che poscia ne fosse stato cancellato per la ragion politica di non accrescere più il numero de’ Cardinali Regnicoli» (1752, p. 163).
Al proprio insediamento Pappacoda ereditò una diocesi sulla quale assai scarsa era stata l’incidenza in senso tridentino del lunghissimo governo dei due immediati predecessori, Annibale Saraceno (1560-91) e Scipione Spina (1591-1639). A condizioni di evidente debolezza del potere vescovile e di persistente disordinata pletoricità di un clero secolare su molti versanti non disciplinato, si accompagnarono vistose nuove realtà che la città di Lecce registrò nel passaggio dalla condizione da città laicamente ‘fedelissima’ allo Stato spagnolo – ‘seconda città del Regno’ dopo la capitale –, a città-chiesa, in virtù soprattutto del progressivo quasi esplosivo incremento, tra Cinquecento e Seicento, delle case degli Ordini religiosi e del loro particolare attivismo, primo e più importante tra tutti, quello di gesuiti e teatini variamente impegnati a inquadrare i vari ceti cittadini in numerose confraternite laicali.
Su tale realtà il programma pastorale attuato dalla forte personalità del nuovo vescovo impresse un marchio indelebile. Con gli strumenti indicati dal Tridentino (minuziose e frequenti visite pastorali e oculata legislazione sinodale), a Pappacoda riuscì un’azione efficace in diverse direzioni: dal disciplinamento morale e dottrinale del clero (scegliendo tuttavia di non istituire il seminario) al contenimento e irreggimentazione dell’operato degli Ordini religiosi, dalla soluzione a vantaggio della cattedra vescovile dei contenziosi con il capitolo alla difesa della giurisdizione vescovile nei confronti delle autorità civili, infine alla più imponente e fastosa definizione architettonica barocca della città sempre più ville-église.
La sua autorità fu determinante in un momento di forte conflittualità allorquando, nel 1647, riuscì a sedare insieme con il clero i tumulti scoppiati in città. Negli anni successivi alla rivolta del 1647-48 l’ormai autorevole presenza di Pappacoda esercitò un peso determinante e risolutivo sul complesso mondo delle istituzioni regolari cittadine, nel quale primeggiavano per importanza le congregazioni dei gesuiti e dei teatini e si registravano quasi 500 unità tra frati e monaci dimoranti in 16 case e quasi 600 religiose sparse in sette monasteri. L’occasione più eclatante fu rappresentata dalla strategia adottata da Pappacoda per la definitiva affermazione del santo patrono.
Teatini e gesuiti erano riusciti a schierare su fronti contrapposti alcune delle più influenti famiglie aristocratiche e feudatarie della città. Agli inizi del Seicento, centro dello scontro tra le due famiglie religiose era stata la figura di s. Irene, il cui culto, sostenuto dai teatini, era stato messo in dubbio da alcuni padri gesuiti durante la predicazione quaresimale del 1603. Ne nacque uno scontro particolarmente acceso che si prolungò per tutta la metà del Seicento risolvendosi solo dopo un evento particolarmente straordinario per Lecce: lo scampato pericolo dalla peste nel 1656. I gesuiti e la popolazione ne attribuirono l’esito favorevole alla città a un miracolo compiuto dall’antico protomartire Oronzo sulla base del processo che Pappacoda aveva avviato e portato a termine dopo essersi personalmente impegnato nella raccolta di testimonianze e di miracoli attribuibili al santo, facendone formalizzare il patronato con decreto romano e consacrando accanto a Oronzo la presenza di Giusto e di Fortunato. Pur all’interno di un processo che nel corso di tutto il XVII secolo vide in molte città la comunità religiosa e il potere civile impegnati nella definizione del proprio santo patrono e che nel 1699 portò Lecce a essere, insieme con Napoli e Palermo, una delle città più santificate con ben diciotto altri patroni minus principales, l’affermazione della triade sacra di Oronzo, Giusto e Fortunato programmata e voluta da Pappacoda pose fine alle aspre dispute che avevano contrapposto gesuiti e teatini.
Non trascurando di ricordare che proprio la competizione tra gli Ordini religiosi per l’affermazione di un crescente prestigio visibile anche architettonicamente era stato già prima di Pappacoda motivo della fioritura barocca della città, furono precipui suoi interventi in materia di edilizia sacra il rifacimento ex novo della fabbrica della cattedrale e l’innalzamento dell’adiacente ma distaccato campanile, il restauro e l’ampliamento dell’episcopio, la decorazione della cattedrale con pulpito, altari e tele. Per la fabbrica della cattedrale, ultimata nel 1670, e del campanile portato a termine dopo ventuno anni di lavori nel 1682, Pappacoda aveva concesso duecento carri di calce procurati gli anni precedenti per la paura della peste.
L’imprimatur al volto barocco della città fu opera di Giuseppe Zimbalo, detto lo Zingarello, tecnico di fiducia di Pappacoda, attivo dal 1646 fino alla morte nel 1710. «Paesana e non straniera», la singolare «persona» dell’architetto e scultore, incaricato nel 1659 del progetto di rifacimento della cattedrale, «haveva suono con il Prelato» (Fagiolo - Cazzato, 1986, p. 204), il quale poté così nella prolusione al sinodo del 1663 sollecitare i fedeli alla ricostruzione e alla rigenerazione interiore in analogia con i lavori in corso per la ricostruzione fisica del duomo.
Nel trentennio di governo della diocesi Pappacoda vigilò e intervenne anche su ogni possibile settore culturale da cui potesse discendere un impatto sulla religiosità dei fedeli. Autore nel 1650, in linea con lo spirito controriformistico, di una Instructio pro typographis, impressoribus et bibliopolis (in Laporta, 1995, pp.162 s.), ed egli stesso detentore della più grande biblioteca cittadina del tempo, consistente in circa 660 volumi, che prima di morire donò al nipote Federico, fu protettore della locale Accademia dei Trasformati. Come il predecessore Spina e i successori Antonio (poi papa Innocenzo XII), Michele e Fabrizio Pignatelli, Pappacoda seppe mobilitare efficacemente le risorse e le seduzioni dell’arte musicale: vigilò sull’educazione musicale del clero, favorendo peraltro l’impiego preferenziale di musicisti secolari o regolari; mantenne e potenziò il patrimonio organario nella diocesi; intensificò l’uso di musiche sacre e devote nelle celebrazioni ecclesiastiche cittadine, facendo della musica una vera e propria ancilla Episcopi.
Morì a Lecce il 17 dicembre 1670 «senza sacramenti poi che nessuno ardiva di dirgli che era vicina la morte […]. A dì 18 detto si fecero li funerali e alli 19 fu sepolto sotto alla Madonna della Scala […]; vi fu horatione funebre recitata dal padre Strozzi gesuita» (in Paone, 1995, p. 201).
Fonti e Bibl.: Archivio segreto Vaticano, Archivio Concistoriale, 33 A2, cc. 465-480; Dataria apostolica, 14, cc. 43-60; Lecce, Biblioteca provinciale, Mss., 37: N. Fatalò, Serie de’ vescovi di Lecce, cc. 165-169; Lettera pastorale di Monsignore L. P. vescovo di Lecce alla sua città e diocesi, Lecce 1656 (poi in C. Bozzi, I primi Martiri di Lecce Giusto, Oronzio e Fortunato, Lecce 1714, pp. 67-73); G. Volpi, Cronologia de’ vescovi pestani ora detti di Capaccio, Napoli 1752, pp. 161-163; U. De Blasi, Il Sinodo Diocesano di Mons. P., in Rivista diocesana di Lecce, XX (1963), pp. 177-179; L.G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Lecce 1964, passim; P. De Leo, Mons. L. P. nel terzo centenario della morte, in Rivista diocesana di Lecce, XXVII (1970), pp. 350-354; Documenti di storia ecclesiastica inseriti nel “Libro Rosso di Lecce”, a cura di M. Paone, in Contributi alla storia della chiesa di Lecce, Galatina 1981, pp. 119-143; M. Fagiolo - V. Cazzato, Lecce, Bari 1986, pp. 94-117; M.A Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 291-293; A. Laporta, “Le rivelazioni” di un mistico calabrese nella Lecce di metà Seicento, in Società, congiunture demografiche e religiosità in Terra d’Otranto nel XVII secolo, a cura di B. Pellegrino - M. Spedicato, Galatina 1990, pp. 441-456; M. Cazzato, Tempore pestis. Modi e morbi barocchi, ibid., pp. 308-360; M. Spedicato, Episcopato e processi di tridentinizzazione a Lecce nel XVII secolo, ibid., pp. 229–276; M. Paone, Lecce al tempo dei vescovi Scipione Spina e L. P., in La lupa sotto il leccio, Galatina 1995, pp. 170-206; M. Spedicato, La città e la chiesa, in Storia di Lecce dagli Spagnoli all’Unità, a cura di B. Pellegrino, Roma-Bari 1995, pp. 130-136, 146-149; L. Cosi, La musica nella “piccola Napoli”, ibid., pp. 671-710; M. Cazzato, La nascita di una città devota: Lecce al tempo del vescovo P. (1639-1670), inVescovi e città nell’epoca barocca, a cura di L. Cosi - M. Spedicato, I, Murcia, Santiago de Compostela, Praga, Napoli, Catania, L’Aquila, Lecce, Galatina 1995, pp. 151-229; G. Pisanò, La cultura a Lecce nell’età del P. (1639-1670), ibid., II, Una capitale di periferia: Lecce al tempo del P., Galatina 1995, pp. 95-137; A. Laporta, Per una storia delle accademie leccesi: i “Trasformati” nel Seicento, ibid., pp. 139-163; F. Volpe, La diocesi di Capaccio nell’età moderna, Napoli 2004, p. 49.