MINICHINI, Luigi
– Nacque a Nola il 18 marzo 1783, secondogenito di Antonio e di Angela Ambrosino.
Il padre, agiato possidente del posto, lo avviò, così come altri due dei suoi sei figli maschi, alla vita ecclesiastica. Entrato a quindici anni nel seminario cittadino, il M. vi completò gli studi fino al conseguimento del suddiaconato (1804). Probabili divergenze con il vescovo di Nola V. Torrusio sembra che fossero state all’origine della sua scelta di interrompere la carriera e di seguire gli studi di diritto in Napoli. Nel 1809 il M., essendosi unito alla cospirazione settaria che aveva sostenuto la fallita impresa anglo-borbonica contro il re Gioacchino Murat, dovette rifugiarsi in Inghilterra, dove forse fu affiliato alla massoneria. Rientrato due anni dopo in patria fu ordinato sacerdote presso la Congregazione dei padri dottrinari in Napoli e si dedicò all’insegnamento. Per le sue capacità educative fu inviato a Sorbio, in Irpinia, per fondarvi un nuovo istituto scolastico e, poi, a San Giovanni in Galdo, nel Molise, con l’incarico di rettore del locale collegio. Qui fu al centro di una vicenda poco chiara. Arrestato con l’accusa di aver avvelenato un anziano fratello laico a scopo di furto e di vendetta, il M. restò nelle carceri di Campobasso per circa due mesi. Si raccontò di un’intercessione della carboneria in suo favore. Nonostante i gravi indizi a carico, la corte criminale archiviò gli atti e lo rimise in libertà.
Espulso dalla Congregazione, tra il 1818 e il 1819 fece ritorno a Nola, nel cui circondario svolse intensa attività di propaganda carbonara. Suo stretto collaboratore fu il napoletano A. Montano, ex sottotenente del reggimento Corso espulso dall’esercito nel 1815, il quale, stabilitosi a Nola, conduceva un caffè che divenne in breve il ritrovo dei carbonari. Dopo avere indirizzato la sua azione di proselitismo verso l’elemento popolare e quello civile, costituito per lo più da borghesi, intellettuali o professionisti, il M. si diede anche ad affiliare militari, in particolare tra le file del reggimento «Borbone», all’epoca privo di un efficiente comando e perciò più sensibile agli appelli della carboneria specie sottufficiali e soldati.
Soprattutto dopo l’insurrezione spagnola dei primi giorni del 1820 e la positiva riuscita di quel moto nel marzo seguente, ai settari fu chiaro che il successo di ogni impresa sarebbe stato determinato dall’adesione dell’esercito. I tentativi che si susseguirono dall’aprile al giugno 1820, nei quali peraltro il M. non comparve, avevano previsto il pronunciamento di reparti militari e il diffondersi dell’insurrezione – mediante l’opera delle vendite carbonare – alle province di qua e di là dell’Appennino meridionale per costringere il sovrano a concedere la costituzione, non escludendo neppure l’eventualità di un sequestro di Ferdinando I e della sua famiglia. Il fallimento di tali tentativi, dovuto all’avventatezza delle iniziative, alle delazioni di alcuni complici e al pronto intervento della polizia, non impedì che i vertici della carboneria fissassero per il 4 luglio una successiva insurrezione. Indipendente dalla carboneria e dal suo programma restò, invece, il generale Guglielmo Pepe, ex ufficiale napoleonico, il quale, proponendosi di dirigere e controllare la rivoluzione per evitare che degenerasse in disordine, fin da giugno aveva avvicinato i comandi militari di Capitanata, Irpinia e Terra di Lavoro con l’intento di promuovere un moto costituzionale mediante l’impiego delle milizie di quelle province.
Prese le distanze da entrambi i progetti insurrezionali che, nonostante i contatti intercorsi tra i sostenitori delle due diverse strategie, marciavano ciascuno per proprio conto, il M. volle procedere con la massima segretezza, in assoluta autonomia dalla gerarchia carbonara. Allontanò da Nola i rappresentanti del Comitato centrale napoletano e ai reggimenti filocarbonari chiese, anziché una partecipazione attiva al moto, di non intervenire contro gli insorti come sarebbe stato ordinato loro dal ministero della Guerra. Pianificata dal M. nei dettagli, l’operazione fu assegnata a un esiguo gruppo di affiliati con elevata preparazione militare: squadre scelte di carbonari e reparti di cavalleria in reciproco appoggio avrebbero comunicato tra loro per mezzo di strumenti tecnici non convenzionali come le «folgori artificiali» (L. Minichini, Luglio 1820: cronaca di una rivoluzione, a cura di M. Themelly, Roma 1979, p. 95). Iniziato il moto per sua stessa decisione nella notte tra il 1° – giorno di S. Teobaldo, protettore della carboneria – e il 2 luglio, fu chiara subito l’influenza delle forze politiche che operavano dall’esterno. I militari riuniti intorno al tenente calabrese M. Morelli e al sottotenente napoletano G. Silvati, entrambi in forza al reggimento «Borbone» e schierati sulle posizioni moderate di Pepe, guidarono la marcia dei rivoltosi verso Avellino, sede del comando della 3a divisione, piuttosto che in direzione della Valle Caudina, come invece il M. aveva proposto nella prospettiva di rafforzare la componente carbonara del moto.
Alla testa dei suoi, con «occhiali e abito talare, armato di schioppio, montante un cavallo bianco della scuderia del quartiere» (Manfredi, 1932, p. 58), prima precedendo poi seguendo la cavalleria nella marcia, il M. raccolse poche adesioni dai paesi che attraversava, finché giunto a Monteforte radunò parecchi seguaci. Qui restò a presidiare la posizione con i militi del luogo, un distaccamento di truppe, un plotone di cavalleria, una brigata di gendarmeria e numerosi cittadini. Le forze maggiori investirono Avellino (3 luglio), dove le milizie provinciali al comando di un collaboratore di Pepe, il colonnello L. De Concilij, anziché sbarrare la strada agli insorti erano passate dalla parte dei carbonari; contestualmente il M. rimase a coordinare le operazioni tra Monteforte e La Schiava, lungo la cui strada inviò il fedele Montano ad appostarsi per difendere l’accesso al valico dall’avanzata del generale M. Carrascosa. A quel punto, a bloccare la controffensiva regia intervenne la concessione della costituzione da parte di Ferdinando I.
Guadagnate alla rivoluzione Salerno, Potenza, Foggia e Campobasso grazie alla progressiva disgregazione dell’esercito borbonico e all’insurrezione nelle province, il movimento aveva registrato anche l’adesione di Pepe che, in virtù degli accordi conclusi con la corte e il ministro L. de’ Medici, divenne comandante dell’esercito costituzionale incaricato di controllare la marcia carbonara sulla capitale. Nell’incontro con lui avuto al riguardo in Nola, il M., preso atto dei mutati rapporti di forza, accettò che l’ingresso dei carbonari a Napoli apparisse più come una sfilata che come un confronto politico-militare. Il moto, quindi, avviato e diretto dai carbonari, riuscì non a vantaggio della setta ma dei murattiani, meglio preparati al governo e inclini a costituire, anziché un regime democratico come auspicato dai settari, una monarchia liberale temperata.
Durante l’estate, il M. si mosse tra i centri del potere e gli ambienti della cospirazione. Respinto alle elezioni e incapace di imporsi all’assemblea generale carbonara, fu nominato membro del Consiglio di pubblica sicurezza per la città di Napoli. Nello svolgimento dell’incarico, sotto la presidenza dell’avvocato P. Borrelli, già segretario generale di polizia, poi giudice di corte d’appello nel periodo murattiano, si dedicò con zelo alla tutela dell’ordine pubblico. Oppose, per esempio, la forza ai manifestanti radunatisi dinanzi al palazzo reale per protestare contro l’insurrezione autonomista di Palermo, sventò le minacce che la carboneria armata aveva rivolto agli ex ministri L. de’ Medici e G. Zurlo, ora nuovamente ministro, in difesa dei quali aveva schierato le sue pattuglie. Compì, tuttavia, opera di persuasione carbonara per spingere all’azione i fratelli dello Stato pontificio, sia nelle Marche sia in Romagna, senza peraltro evitare che fosse sospettato di tradimento.
Nonostante il suo attivismo, il M. non fu capace di ancorarsi saldamente ai vertici dell’apparato statale, né di mantenere solidi rapporti con i gruppi carbonari, avviandosi verso un inevitabile isolamento. Eppure fu convinto della necessità di andare oltre il ristretto ambito in cui si erano chiuse le élites rivoluzionarie, ritenendo che il messaggio dei massoni e dei patrioti dovesse essere reso popolare. La sua attenzione per le masse, però, fu improntata a realismo, non essendoci in lui un astratto interesse sociale, ma soltanto un programma intellettuale e pedagogico volto a mantenere inalterati gli equilibri esistenti. Nel tentativo di rendere comprensibile alle masse la sua filosofia, si rivolse ai carbonari con gli argomenti del cattolicesimo popolare e superstizioso. Lungi dall’essere un leader rivoluzionario, il M. restò un capo cui l’immaginario popolare attribuì un notevole ascendente. L’abito talare e le armi che indossava rappresentavano i segni esteriori di un carisma particolare, alimentato dalla sua partecipazione ad azioni spericolate, come la cattura dell’aiutante di Carrascosa o l’attraversamento delle linee nemiche per persuadere i soldati a disertare.
Incalzato dalla ferma avversione della carboneria napoletana, il governo inviò il M. in Sicilia. Nell’isola girò le diverse province per diffondere la propaganda a favore dell’unione e in opposizione a quelle sette, influenti soprattutto a Palermo, che sostenevano l’indipendenza da Napoli, ottenendo onori e rafforzando il proprio prestigio. L’entusiasmo popolare che lo circondò in Sicilia rivelava come strati profondi della società dell’isola, nella capitale e nelle province, si sentissero rappresentati dal M., considerato il difensore della costituzione e, soprattutto, il vendicatore della rivoluzione tradita. Fu richiamato a Napoli nel gennaio del 1821, quando ormai il re era partito per Lubiana, giurando di difendere la costituzione.
Giunta a Napoli la notizia che le potenze avevano deciso di abbattere il regime costituzionale con le armi (9 febbraio) e dichiarata guerra all’Austria da parte del Parlamento (13 febbraio), numerosi cittadini chiesero di arruolarsi nei corpi franchi per concorrere alla difesa della patria. Tra questi un centinaio di abitanti delle province di Terra di Lavoro e di Avellino avanzarono una petizione domandando di costituire un corpo di volontari sotto il comando del Minichini. Si trattava, tuttavia, di un’aspettativa destinata ad andare delusa: la questione della guerriglia, mal vista sotto il profilo politico, fu affrontata in ritardo dal Parlamento che varò il decreto relativo all’organizzazione di reparti volontari soltanto il 13 marzo. Anche i progetti di una resistenza popolare teorizzati dalla carboneria erano svaniti dopo la dissoluzione dell’armata sconfitta dagli Austriaci presso Antrodoco (7 marzo) e lo sbandamento dell’esercito attestato con il Carrascosa a difesa della piazzaforte di Capua (20 marzo).
Consumatosi ormai il più completo disastro politico e militare, il M., benché accampato con diverse centinaia di uomini sulle colline intorno a Nola, quando le truppe austriache si avvicinarono alla città non si mosse. Giunto dal ministero l’annuncio che la sua autorità di comandante dei corpi franchi era cessata per la sopravvenuta occupazione austriaca (23 marzo), congedò i suoi uomini e andò a Napoli, dove tentò di fomentare alcuni movimenti insurrezionali al porto. Imbarcatosi per la Sicilia, sperò di potervi suscitare la riscossa fidando nel fervore della popolazione ma, fallito il proposito, partì per la Spagna.
Affidata ad A. Capece Minutolo principe di Canosa, la reazione colpì anche la famiglia del M., giacché i genitori insieme con i figli Raffaele, Fortunata, Michele e Filippo furono spediti immediatamente sotto scorta ad Avellino. Raffaele, arrestato con l’accusa di aver preso parte alla cospirazione, specialmente nel periodo precedente l’arrivo degli Austriaci, fu condannato alla reclusione e destinato a restare nel convento di Montevergine fino al 1825, quando il nuovo sovrano Francesco I lo graziò. Analoga sorte toccò all’altro fratello del M., l’avvocato Vincenzo, relegato nell’isola di Pantelleria per tre anni prima di ricevere l’amnistia concessagli da Francesco I.
Sbarcato a Barcellona il 25 apr. 1821, il M. si ritrovò insieme con numerosi altri settari in una città divenuta il centro di raccolta degli esuli di diversi paesi. I rifugiati stranieri, soccorsi inizialmente dalle Cortes, per motivi di ordine pubblico furono dislocati dal governo in varie città. Passato a Madrid, quando si avvide che il regime costituzionale, avversato dal clero, dalla casta militare, da vari elementi borghesi, dal sovrano e dai suoi fratelli, stava per essere soffocato definitivamente con l’intervento dell’esercito francese, il M. riparò a Gibilterra in attesa di salpare verso l’Inghilterra. Celebratosi, intanto, in patria il processo di Monteforte (24 genn. 1823) contro i rei contumaci, il M. fu condannato a morte; nelle diverse amnistie concesse in seguito ai prigionieri politici delle Due Sicilie la pena non fu mai modificata, né tantomeno annullata per grazia sovrana dai re successivi.
Dopo aver noleggiato un’imbarcazione, il M. approdò a Southampton il 24 marzo 1824 insieme con altri esuli e l’indomani raggiunse Londra, meta dei rifugiati che, come Pepe o R. Poerio, ottennero i sussidi distribuiti in loro favore dal Comitato italiano e, spesso, trovarono impiego come insegnanti di lingua.
Nel marzo del 1829, il M. si spostò a Birmingham, dove cercò di mantenere i contatti con i carbonari. Questa nuova fase dell’esilio fu caratterizzata da una breve ripresa dell’attività politica in concomitanza delle rivoluzioni di Francia e dell’Italia centrale nel 1830-31. Le informazioni fornite in proposito dall’ambasciata napoletana a Londra descrivevano però in maniera contraddittoria le vicende che il M. visse Oltremanica.
I rapporti dell’ambasciatore lo dipingevano come un uomo isolato, osteggiato dai suoi stessi fratelli in esilio. Recatosi nella capitale francese per seguire gli esiti della Rivoluzione di luglio, gli emigrati napoletani, per esempio, lo accusarono di aver sottratto, fuggendo da Napoli, ingenti somme dalle casse dei carbonari, senza aver dato nulla ai compagni. Gli informatori ventilarono che ricevesse regolarmente delle rimesse di denaro da Napoli e nel contempo segnalarono come vivesse insegnando l’italiano a diverse rispettabili famiglie; indicarono, inoltre, che fosse dedito alle lettere e alle scienze, ma rivelarono pure come si trovasse in uno stato deplorevole di mezzi di sussistenza e in condizioni di pessima salute, tali da non promettergli «lunga vita, e meno ancora di muoversi e di cambiare domicilio» (rapporto del conte G. Ludolf, 3 giugno 1834, cit. in Manfredi, 1932, p. 137). L’ambasciata aveva comunicato anche che il M. aveva abiurato la religione cattolica, facendosi «ricevere nella protestante» (rapporto del conte Ludolf, 20 apr. 1834, ibid., p. 136). In seguito si sarebbe saputo che aveva continuato a firmare con il titolo di abate almeno fino al 1840.
A quella data, stabilitosi a Londra in attesa di un passaporto per il più mite clima di Barcellona, aveva cercato di pubblicare una cronaca della rivoluzione del 1820, da lui scritta alcuni anni prima, al fine di trarne un conveniente guadagno. Sprovvisto dell’importo necessario (100 lire italiane) per la stampa, aveva chiesto un sussidio economico all’esule piemontese C.A. Bianco conte di Saint Jorioz, che da Bruxelles impiegava volentieri le proprie residue sostanze soccorrendo gli emigrati italiani in ristrettezze. Ma il ministro di polizia napoletano, avvisato dei propositi del M., nel timore che la pubblicazione rivelasse notizie compromettenti per la monarchia borbonica, dispose l’acquisto del manoscritto. Il regio incaricato d’affari in Londra, G. Di Regina, affidò l’operazione a un proprio agente che, fingendo di agire per conto di compratori di Bruxelles disposti a stampare l’opera in Belgio, riuscì abilmente nell’impresa. Riscosse le 120 sterline concordate quale prezzo della sua cronaca, il M., nonostante gli amici lo avessero esortato a restare ancora per qualche tempo a Londra, si trasferì negli Stati Uniti. Dal gennaio 1841 fu a Filadelfia, mantenendosi con le lezioni di italiano; sposò una signora inglese dalla quale ebbe diversi figli. Morì a Filadelfia nel 1861.
Fonti e Bibl.: M. Manfredi, L. M. e la carboneria a Nola, Firenze 1932; V. D’Amico, Processo di veneficio contro L. M. da Nola presso la corte criminale di Campobasso: 1818-1819, in Samnium, XII (1939), pp. 46-55; P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962, ad ind.; M. Manfredi, Una lettera dall’America dell’abate M. sugli avvenimenti napoletani del 1848, in Samnium, XXXVII (1964), pp. 227-229; A. Stassano, Cronaca. Memorie storiche del Regno di Napoli dal 1798 al 1821, a cura di R. Marino - M. Themelly, pref. di P. Alatri, Napoli 1996, pp. 358, 415.
R. Parrella