MASI, Luigi
– Nacque a Petrignano di Assisi il 24 ott. 1814 da Giovanni, medico condotto di orientamenti liberali, e da Laura Antonietti. Fu tenuto a battesimo da un fratello della madre, Michele, padre nel 1829 di quella Colomba Antonietti che sarebbe morta a Roma il 13 giugno 1849 combattendo per la difesa della Repubblica.
Dopo un breve tirocinio a Perugia nel campo della farmaceutica, fu avviato agli studi di medicina che completò laureandosi a Roma il 13 febbr. 1840; intanto però aveva sviluppato altri interessi, soprattutto storico-letterari, rivelando una non comune attitudine come improvvisatore in versi. Fu in questo settore che sin dalla giovane età il M. riversò, con una sensibilità che a più di un contemporaneo parve «donnesca», i suoi primi slanci patriottici, risvegliati in lui dalla frequentazione di C.L. Bonaparte principe di Canino al cui servizio aveva cominciato a lavorare come precettore dei figli e di cui era successivamente divenuto segretario.
Il profilo più convincente della personalità del M. fu quello tracciato a molti anni di distanza da M. Minghetti che lo ricordò come un «giovine umbro di varia cultura ma tutta leggiera, studioso di scienze naturali, e insieme improvvisatore di poesie, ardente di amor patrio […]; avendo mostrato uno straordinario valor militare in tutte le fazioni nelle quali ebbe parte, aveva poi una soavità di cuore femminile e una carità operosissima che lo spingeva a cercare ovunque la miseria per alleviarla e consolarla» (Miei ricordi, I, Torino 1888, p. 204). Va detto che molto erano servite a formarlo le esperienze come collaboratore di alcuni periodici romani, iniziate con L’Artigianello di O. Gigli, un settimanale pubblicato a Roma tra il 1845 e il 1847 molto attento alla condizione dei giovani, e proseguite tra il 1847 e il 1848 con un altro settimanale, Il Popolare, e con un quindicinale di attualità, Il Viminale.
Politicamente sembra che, malgrado il suo attivismo, il M. non appartenesse ad alcuna organizzazione in particolare; e tuttavia, al seguito di C.L. Bonaparte, presenziò a molti congressi scientifici, ultimi quelli di Napoli (1845), dove chiese che si facesse in onore di G.B. Vico un po’ di spazio anche alla storia, di Genova (1846), dove improvvisò un’infiammata declamazione di stampo indipendentista e unitario, e di Venezia (1847), dove comparve insieme con Bonaparte, entrambi in uniforme della guardia civica romana: per tutta risposta la polizia austriaca li scortò alla frontiera e li espulse dallo Stato.
Il punto di svolta per il M. si era avuto nel 1846 con l’elezione al papato di Pio IX: i toni innovativi dei primi atti del nuovo pontefice avevano colpito la fantasia del giovane rafforzando i suoi entusiasmi patriottici e inducendolo a entrare in contatto con personaggi da tempo inseriti nella cospirazione (P. Sterbini, F. De Boni) o come il M. speranzosi che il riformismo papale, fungendo da stimolo e raccordo per gli altri sovrani, potesse, con la costruzione di una lega di Stati che escludesse l’Austria, avviare a soluzione il problema della nazionalità. In questo senso chi gli era più vicino era il toscano G. Montanelli, ora attestato su posizioni giobertiane e anche lui molto interessato a enfatizzare a scopo patriottico il mito del papa liberale.
Protagonista di numerose fra le manifestazioni che, a partire dal luglio del 1846, furono organizzate per sostenere lo sforzo riformatore di Pio IX contro l’azione frenante dei gesuiti e della parte più conservatrice della gerarchia, il M. si distinse anche perché in grado di avanzare proposte di reale rottura: fondamentale per la formazione di un’opinione pubblica più matura e partecipe risultò infatti la nascita, annunciata con un manifesto-programma il 12 dic. 1846, del settimanale (e più tardi quotidiano) Il Contemporaneo, da lui lanciato, finanziato (e per qualche tempo anche diretto) d’intesa con L. Potenziani, C. Gazzola e F. Torre. Alcuni mesi dopo partì sempre dal M. la richiesta della guardia civica, istituita da Pio IX il 5 luglio 1847 e servita d’esempio ad altri sovrani italiani: il M. vi rivestì sin dall’inizio il grado di capitano guadagnando una grande popolarità; ma quando, alla fine del 1848, sembrò che potesse aspirare a comandarla, molti tra gli ufficiali superiori gli si coalizzarono contro costringendolo a rinunciare, probabilmente perché era convinzione diffusa che alla testa della guardia civica dovesse essere posto un membro dell’aristocrazia e non un uomo come il M. notoriamente appoggiato dai circoli.
In mano a lui Il Contemporaneo si impose non solo come il portavoce del liberalismo capitolino nella fase della sua massima espansione ma anche come un luogo di discussione aperto ai contributi provenienti dall’esterno: sfuggendo spesso alle maglie della censura accolse articoli di Montanelli, V. Gioberti e C. Balbo, assecondando una linea di moderatismo che, almeno nell’interpretazione che ne dava il M., era pronto perfino a radicalizzarsi nel momento in cui il riformismo papale avesse mostrato di volersi arrestare sulla strada intrapresa. In verità per il M. e per i suoi amici ciò a cui si doveva spingere Pio IX, e che avrebbe dato un senso alla sua politica, era la rottura con l’Austria in funzione di un trascinamento collettivo al conflitto finale. Questa linea fu definita della «agitazione amorosa» e il M. ne fu considerato uno degli esponenti più persuasivi, soprattutto dalle masse cittadine (anche quelle di Firenze, Livorno, Ferrara, ove con Bonaparte si recò nel 1847), che grazie a lui furono educate piuttosto che fanatizzate: glielo avrebbe riconosciuto anche uno storico ultraconservatore come G. Spada: «è da ascriversi a merito di questo abilissimo agitatore, se stante la gentilezza dei suoi modi e la sua affascinante eloquenza, la rivoluzione pacifica non trasmodasse, e il popolo non desse in eccessi» (Spada, II, p. 9).
Finalmente nella primavera del 1848 la guerra scoppiò e Pio IX decise di inviare un contingente nel Veneto: il M. ne fece parte come aiutante maggiore del generale A. Ferrari. Partito da Roma con il grado di capitano, fu presto promosso maggiore e poi colonnello e, dopo aver partecipato agli scontri di Cornuda e Treviso, alla difesa di Vicenza comandò il 1° reggimento leggero del corpo di spedizione. Caduta Vicenza, il contingente pontificio riprese la via del ritorno; il M., però, decise di spostarsi a Venezia e vi rimase fino a quando a Roma, con l’uccisione di Pellegrino Rossi, si determinò la crisi del potere papale. Fece ritorno in patria solo al momento della convocazione della Costituente romana, e sempre come comandante di un reggimento volontari. Alla fine di gennaio fu eletto deputato nel collegio di Macerata: partecipò così alla seduta dell’8 febbr. 1849 in cui si decise di dar vita alla Repubblica e fu anzi, quel giorno, risoluto nell’invocare con un intervento asciutto l’avvento del nuovo regime e nel sostenere, in replica a T. Mamiani, l’urgenza di farla finita con il potere temporale. Tuttavia, malgrado fosse stato nominato vicepresidente dell’Assemblea, la sua partecipazione ai lavori fu condizionata dall’esigenza di provvedere rapidamente all’istruzione e all’addestramento dei circa 2000 volontari arruolati nel reggimento posto ai suoi ordini, integrato presto da un contingente della guardia civica e trasformato così nella II delle quattro brigate componenti l’esercito repubblicano.
Con tali truppe il M., schierato il 30 aprile a ridosso delle mura vaticane, e precisamente nel tratto compreso tra porta Cavalleggeri e porta Angelica, respinse vittoriosamente gli assalti francesi e subito dopo fu chiamato a far parte, con G. Garibaldi e B. Galletti, dell’esercito inviato a metà maggio verso la frontiera meridionale dello Stato per impedire ai soldati napoletani di invadere il territorio della Repubblica. Dopo i combattimenti di Palestrina e Velletri, mentre Garibaldi era richiamato a Roma, il M. era destinato a Frosinone con il compito di impedire un eventuale ritorno in forza dei Borbonici. Ma quando, terminata la tregua concordata per consentire a F. de Lesseps di portare a termine la sua missione, ripresero i combattimenti sotto le mura di Roma, il M. e i suoi uomini furono precipitosamente fatti tornare l’8 giugno: in tempo, tuttavia, per impegnare il suo reggimento a villa Corsini e poi ai Parioli, e vedere quindi i Francesi entrare vittoriosi in Roma.
Costretto all’esilio, riparò in Francia, fermandosi per qualche anno a Parigi, e poi in Piemonte. L’inattività forzata lo spinse a riprendere gli studi, specialmente quelli militari, e a progettare la fondazione di una colonia italiana in Messico, ma rinunciò dopo che la nave che doveva servire al trasporto dei coloni (e di cui aveva finanziato la costruzione) andò distrutta in un incendio. Tornò allora a Parigi, cercando di mantenersi estraneo alle dispute ideologiche che a metà anni Cinquanta dividevano l’emigrazione italiana in mazziniani unitari e federalisti alla Montanelli: se ci riuscì lo dovette proprio al suo carattere conciliante e portato più a restare fuori della mischia che a schierarsi.
Allo scoppio della guerra del 1859 si precipitò in Italia e il 21 giugno 1859 fu messo a capo del 1° reggimento colonne mobili di Romagna, passando poco dopo al comando del 25° fanteria (successivamente 47° fanteria della brigata Ferrara) impegnato a presidiare nell’estate del 1859 le Legazioni.
Sebbene G. Mazzini lo ritenesse ancora disponibile per avventure rivoluzionarie, il M. era sempre più orientato verso una carriera nell’esercito regolare, né da questo proposito lo distolse il provvedimento di messa in disponibilità che lo colpì il 24 maggio 1860 per non aver saputo prevenire e quindi reprimere l’indisciplina di cui avevano dato prova i suoi uomini concependo un assalto al territorio pontificio. Va detto, in proposito, che ai suoi ordini egli aveva pur sempre formazioni volontarie, male equipaggiate, talvolta prive di uniforme, e spesso indifferenti agli obblighi diplomatici del Regno sardo. Che però avesse attitudine al comando e capacità di fare eseguire gli ordini il M. lo dimostrò nell’autunno del 1860 quando, su consiglio di F.A. Gualterio, C. Benso conte di Cavour gli affidò uno dei corpi volontari da impiegare in appoggio alle truppe regie durante la campagna delle Marche e dell’Umbria. Nacquero così i Cacciatori del Tevere.
Preso il comando del corpo il 9 settembre, il M. occupò dapprima Città della Pieve, quindi Orvieto. Sua prima preoccupazione fu quella di creare e presiedere in entrambe le città giunte provvisorie in nome di Vittorio Emanuele II. Successivamente puntò su Montefiascone, ove entrò il 18 settembre, su Viterbo (20 settembre) e su Civita Castellana, ma, mentre già pensava di avvicinarsi a Roma, una risoluta azione diplomatica francese lo costrinse a ripiegare su Orvieto. Lì i Cacciatori del Tevere rimasero fino al 21 genn. 1861, quando furono spostati verso il confine abruzzese per contrastare le scorribande della guerriglia filoborbonica. Il 15 maggio 1862, con regio decreto, il corpo fu riconosciuto formalmente e inquadrato nell’esercito regolare; senonché, avendo i volontari cominciato a far ritorno alle loro case, l’11 ag. 1863 se ne decretò lo scioglimento. Il M., promosso maggior generale e insignito con la croce di ufficiale dell’Ordine militare di Savoia, ottenne il comando della brigata Umbria con la quale avrebbe tre anni dopo partecipato alla guerra per la liberazione del Veneto.
Nel settembre del 1866 fu inviato a Palermo con il compito di reprimere l’insurrezione separatista scoppiata in città. Il suo intervento fu rapidamente risolutivo: gliene diede atto la motivazione con cui il 31 genn. 1867 gli fu conferita la medaglia d’oro che lo premiava per avere conquistato «col fuoco e colla baionetta case e barricate».
Il 20 sett. 1870 il M., pur non facendo parte del corpo d’esercito di R. Cadorna, entrò in Roma al seguito delle truppe regie. Era infatti stato chiamato da Palermo per affidargli il comando della piazza di Roma.
Probabilmente si era tenuto conto della conoscenza che aveva dell’ambiente romano e delle relazioni che vi aveva conservato, ma fu proprio il timore che potesse cadere sotto l’influenza degli elementi più radicali, come M. Montecchi, o del segretario D. Silvagni a far nascere nei suoi confronti qualche diffidenza da parte dello stesso Cadorna e degli inviati del governo. Una certa tolleranza verso la stampa nel ricordo di antichi vincoli di colleganza parve sospetta, e fece dimenticare il tratto garbato con cui il M. aveva saputo placare il fastidio degli ecclesiastici privati dei loro palazzi, o l’esito positivo dei primi provvedimenti da lui presi e notificati alla città con una serie di manifesti, in particolare quello che imponeva ai cittadini la consegna alle autorità di tutte le armi sottratte ai soldati pontifici.
Presto tornò in Sicilia dove il 4 dic. 1870 gli era stato assegnato il comando della divisione militare di Palermo. Probabilmente l’unico frutto della sua breve missione romana fu l’elezione alla XI legislatura del Parlamento nel collegio di Poggio Mirteto.
Il M. morì a Palermo il 31 maggio 1872.
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