MARSILI, Luigi.
– Nacque nel 1342 a Firenze da Bernardo, che morì nel 1348, quando era tra i priori della Repubblica. La famiglia, benestante e di antica tradizione guelfa, aveva le case nel quartiere di S. Spirito Oltrarno. Dopo la morte di Bernardo dell’educazione del M. si occuparono la madre e gli zii paterni.
Particolare affetto lo legò, tra questi ultimi, a Filippo, personalità di spicco della vita pubblica fiorentina, ricordato con tenera devozione in una lettera del 6 dic. 1378 a Guido Del Palagio.
Fu forse proprio Filippo, in ogni caso un familiare (consanguineus), colui che nel 1350 o all’inizio del 1351 lo accompagnò a Padova per fare la conoscenza di Francesco Petrarca.
L’incontro è affettuosamente rievocato in una epistola (Seniles, XV 6), che Petrarca spedì al M. molti anni dopo, sul finire del 1373: il poeta ricorda come, non appena vide il suo giovane ospite, sentisse sorgere spontaneamente dentro di sé un sentimento di benevolenza nei suoi confronti, unitamente alla percezione della sua futura grandezza.
Oltre a documentare la nascita di un lungo e costante magistero, la lettera contiene l’unica testimonianza nota circa la fanciullezza del Marsili. La prima menzione di lui in documenti ufficiali occorre infatti solo alla fine degli anni Cinquanta e lo mostra già nei panni di frate agostiniano. Si tratta di due note del registro del priore generale dell’Ordine agostiniano Gregorio da Rimini: la prima, datata 21 luglio 1358, lo assegna come studente al convento di Rimini; la seconda, del 6 agosto, lo assegna invece al convento fiorentino, dichiarando nulla la precedente disposizione. Quando, precisamente, il M. abbia fatto ingresso nell’Ordine è difficile dire. Probabilmente assai giovane, forse già nel 1356 o nel 1357, intorno comunque ai quattordici anni (l’età minima allora richiesta, di norma, per esservi ammessi), secondo quanto lascia supporre un passo della citata epistola petrarchesca, nel quale si allude a una vocazione maturata precocemente («Tu […] mane primo altum iter durae religionis ingressus es»: Opera omnia, p. 372). Quel che è certo è che al termine del 1358, concluso il noviziato, il M. prese i voti e si avviò agli studi filosofici. Le tracce della sua vicenda biografica si perdono nuovamente fino al 13 giugno 1371, quando fu tra i partecipanti a un’adunanza generale nel convento fiorentino: nessun titolo particolare accompagna ancora il suo nome, se non quello generico di frater (Arbesmann, p. 86). Sul finire del 1373 risulta essere presso lo Studio di Padova, dove è presumibile che i suoi superiori lo avessero mandato all’inizio dell’anno accademico, in settembre, nella prospettiva di un perfezionamento a Parigi. Al 26 dicembre di quell’anno è datata infatti la lettera che spedì da Padova all’amico Guido Del Palagio, magnate fiorentino.
Nella lettera, la prima delle sei rimaste a documentare la corrispondenza con Guido Del Palagio, il M. rappresenta se stesso come tutto rivolto alle questioni spirituali e alla meditazione sulla morte, cui lo induce lo spettacolo, triste e istruttivo a un tempo, delle miserie della vita terrena, insidiata da mali di ogni sorta («le spesse mortalitate, le fami non rade […] e le guerre continue»: Lettere, 1991, p. 474). Contro il mondo e le sue seduzioni, egli cerca conforto nell’«ozio letterato», perché «in quello si ragiona e parla dell’altra vita; che se fosse conosciuta da molti come ella non è, sarebbe non solo non temuto il termine di questa vita, ma ardentemente desiderato» (ibid.). Sullo stesso tono scrive un’altra lettera a Guido Del Palagio nel medesimo periodo; dopo aver deplorato la bassezza delle lusinghe terrene, il M. invita a tenere alti i cuori, affinché essi non «ascoltino li sussurri e le lusinghe di queste cose vili e basse» (ibid., p. 472).
Dei nove mesi trascorsi a Padova non si hanno notizie precise. È noto però che il M. ebbe modo di incontrare, in più di un’occasione, il Petrarca, con il quale l’intesa fu profonda. Comune a entrambi era infatti la pratica di un ideale ascetico che non rinunciava allo studio delle lettere, bensì ricercava in queste uno strumento di elevazione spirituale.
Nella lettera citata (Seniles, XV 6), Petrarca ammoniva l’amico a non trascurare la «notitia litterarum», argomentando che ogni scienza, se coltivata nel nome di Cristo, è frutto della sapienza divina e a questa obbedisce. E nel dir così rinviava il giovane discepolo alla meditazione degli esempi di Agostino e di Lattanzio, ai quali la conoscenza della lettere profane aveva consentito di resistere più efficacemente alle «superstitiones paganorum». In conformità con tali nobili esempi, il M. veniva esortato a proseguire la lotta, già intrapresa dal Petrarca, contro l’averroismo, ritenuta dottrina nemica a Cristo e alla fede cattolica. Della benevolenza del Petrarca nei confronti del M. rende ulteriore testimonianza la lettera del 7 genn. 1374 (Seniles, XV 7), con la quale il poeta donava all’amico la copia delle Confessiones agostiniane ricevuta molti anni prima da Dionigi da Borgo Sansepolcro e che egli aveva tenuta sempre presso di sé.
Lo scambio intellettuale tra i due si estese anche alla sfera dell’erudizione antiquaria. In una glossa apposta all’esemplare di Svetonio da lui posseduto (l’attuale Oxford, Exeter College, Mss., 186), Petrarca annota infatti di essere riuscito a chiarire un punto oscuro della storia della dinastia giulio-claudia grazie a una moneta aurea procuratagli dal Marsili.
Attorno all’amicizia con il Petrarca si dispongono altri rapporti stretti dal M., documentati tuttavia in modo alquanto frammentario. È certo che egli fu in corrispondenza con Francescuolo da Brossano, genero del poeta e custode dei suoi scritti, e con Giovanni Boccaccio. Quest’ultimo, in un’epistola inviata al da Brossano poco dopo la morte di Petrarca, chiede copia di due lettere che, secondo quanto gli era stato riferito dal M., gli erano state sicuramente spedite dal poeta, ma che erano andate smarrite durante il tragitto.
Quando Petrarca morì, il 19 luglio 1374, il M. si trovava già a Parigi, dove si era recato nel giugno, al termine delle lezioni padovane, per conseguire il titolo di magister in teologia, e dove lo raggiunse una lettera di Guido Del Palagio, che lo informava della notizia. Rispose il 19 sett. 1374 ricordando con commozione l’amato maestro, capace, con la sua sola presenza, di «sospignere ogni animo verso camino di vertù» e deplorando lo scarso rispetto manifestato alla figura di lui dal popolo fiorentino (Lettere, 1991, p. 477).
Per quanto tempo il M. sia rimasto a Parigi è difficile stabilire; certo fin quando non ebbe la licenza di magister, che ottenne nel 1379. Lungo quest’arco cronologico si distribuisce il poco che resta dell’epistolario del M., costituito nella quasi totalità da lettere indirizzate all’amico Guido Del Palagio.
Spicca, tra queste, una lettera datata 20 ag. 1375, scritta dopo il ritorno da un breve viaggio compiuto a Bruges. Con una schiettezza e una durezza che mal si conciliano con il tono sorvegliato e austero di altri documenti, vi si esprime una fiera condanna della decisione del pontefice, Gregorio XI, di mantenere la sede papale ad Avignone. In accordo con la linea antipapale della politica fiorentina di quegli anni, il M. deplora il fasto del clero «limoggino», per eguagliare il quale non basterebbero, egli dice, tutto l’oro di Creso, tutta la bellezza che Cesare regalò a Roma e tutta quella che vi fu distrutta da Nerone. Le chiese di Roma, al contrario, giacciono derelitte e in rovina, senza che questo tocchi l’animo del pontefice. Bene fanno perciò i preti tedeschi, scrive il M., a opporsi alle eccessive ingerenze della Curia papale e a difendere le loro posizioni: «Ma li tedeschi sono sì savi, che i loro preti non sono di Limoggia, ma tutti della Magna, e tutti ubbediscono quanto pare loro convenevole, e non più» (Lettere, 1991, p. 190). Giudizi, come si vede, assai netti, sui quali certo avrà influito anche la lezione del Petrarca antiavignonese e che valsero a questo documento e al suo autore una discreta fortuna tra gli anticlericali del nostro Risorgimento. Ma più che un’istanza anticlericale, di fatto impensabile, la posizione del M. rispecchiava la politica antipapale allora intrapresa dalla Repubblica fiorentina. E con l’amministrazione della sua città il M. dovette mantenere, anche da Parigi, rapporti assai stretti, se nel giugno 1376 ricevette gli ambasciatori fiorentini Onofrio di Barna de’ Rossi e Donato Barbadori, a Parigi con il compito di tentare una mediazione con la S. Sede.
Al versante civile dell’umanesimo del M., anch’esso in fondo, come quello contemplativo e antimondano, di ascendenza petrarchesca, appartengono altresì i due commenti alle canzoni del Petrarca Italia mia e O aspettata in ciel, ascrivibili entrambi (ma il secondo con maggior sicurezza) agli anni parigini. I due commenti offrono un’interpretazione analitica del testo e contengono ragguagli sui contenuti e sulla genesi dei componimenti. Notevole è, per esempio, nella chiosa a O aspettata in ciel – scritta per salutare la crociata invocata da Filippo VI di Francia nel 1332-33 –, la sicurezza con la quale il M. identifica con l’arcivescovo Pierre Roger, il futuro Clemente VI, il messo francese inviato al papa da Filippo per promuovere la crociata. Di un certo rilievo, accanto all’esposizione dei temi, le osservazioni di carattere linguistico, stilistico e retorico, soprattutto nel commento a Italia mia, che denotano una lettura attenta alla tessitura formale delle canzoni. Né mancano digressioni geografiche, mitologiche (per esempio sul mito di Orfeo, nel commento a O aspettata in ciel), o sentenze dal tono moraleggiante.
Le lacune nella documentazione ufficiale relativa all’Ordine agostiniano per i venticinque anni successivi al 1358 impediscono di seguire nel dettaglio la carriera universitaria del M. fino alla cattedra. Probabilmente egli discusse la tesi nell’anno accademico 1375-76, quindi venne presentato per il titolo di magister in teologia (il che presuppone che a Parigi egli fosse giunto già in possesso del grado di lector). Lo attesta una lettera, scritta da Coluccio Salutati, buon amico del M., che il 16 apr. 1377 la Repubblica fiorentina fece giungere al cardinale Giacomo Orsini, affinché questi appoggiasse la candidatura del M., il quale – così si diceva nell’epistola – sebbene avesse svolto regolarmente e con onestà i suoi studi, non era stato ancora promosso a causa della severità di certuni, i quali, evidentemente, erano soliti «virtuosis […] honoris debitos denegare» (Casari, pp. 59 s.). L’espressione è generica e non consente di identificare chi si opponesse, in concreto, alla promozione del M., che forse scontava in questo modo l’atteggiamento patriottico tenuto nel conflitto tra Firenze e la S. Sede. La lettera al cardinal Orsini non sortì, come pare, gli effetti sperati; né esito migliore, del resto, aveva ottenuto l’iniziativa direttamente intrapresa dal M. il 24 febbraio quando, deciso a rimuovere gli ostacoli che si opponevano alla sua promozione, si era rivolto personalmente al re Carlo V.
La lettera, concepita secondo le regole canoniche della supplica, si apre con l’esaltazione delle virtù e delle qualità del monarca francese. Segue il ricordo dell’amicizia tra la dinastia angioina e i guelfi fiorentini, i quali, banditi da Firenze dopo la rotta di Montaperti, proprio grazie a Carlo I d’Angiò poterono essere riammessi in città. Fra costoro, ricorda il M., si trovava il bisnonno Berlinghieri Marsili, che entrò al servizio del monarca francese. Il ricordo di tali fatti lo incoraggiava a rivolgersi al re per ottenere sostegno alla propria causa. In balia delle tempeste presenti – scrive il M., forse alludendo al conflitto in corso tra il Papato e Firenze – col rischio di naufragare sugli scogli della disperazione, egli invoca supplice il soccorso del re affinché, «salutifera navigatione», conduca la sua navicella «ad optate promotionis portum» (Lettere, 1991, pp. 487-489).
Malgrado tali sforzi, il M. dovette attendere il 1379 prima di ottenere il titolo di magister in sacra pagina, sintomo che le difficoltà sollevate intorno alla sua candidatura non erano irrilevanti. Ottenuta la promozione, fece ritorno a Firenze, ma probabilmente non subito. Non si può escludere che nel 1380 egli si trovasse a Bologna, ammesso che sia lui il frate Ludovico da Firenze di cui si parla in un documento del Collegio teologico bolognese, datato al 22 agosto (Spagnesi). In ogni caso non sembra che egli si trovasse a Firenze fino all’aprile del 1381, giacché in un atto rogato per S. Spirito dal notaio Lapo Mazzei egli non è citato tra i frati presenti in convento (Brambilla, p. 159 n. 133). Sicuramente a Firenze egli si trovava invece nel luglio 1382, quando la città lo impegnò come oratore in una missione diplomatica a Bologna presso Luigi d’Angiò nell’ambito delle trattative per la successione al Regno di Napoli. Evidentemente era ben salda la fiducia della classe dirigente fiorentina nei suoi confronti, come del resto conferma la partecipazione, nel marzo dell’anno seguente, a un’altra missione diplomatica, collegata alla precedente, a Napoli presso Carlo III d’Angiò Durazzo.
Nella prima ambasceria al M. si accompagnarono Luigi Guicciardini e Guccio Nobili; nella seconda Donato Acciaiuoli e Biliotto di Sandro di Cenni Biliotti. Per la missione il M. ricevette un compenso di 3 fiorini d’oro al giorno per tutta la durata del viaggio.
L’immagine dell’asceta disgustato dalle lusinghe terrene, che emergeva dalle lettere del periodo padovano, sembra lasciare il posto ormai a quella di un religioso attivo ben calato nelle vicende politiche del suo tempo. Non sorprende perciò che il governo fiorentino in due diverse occasioni, rimasta vacante la cattedra vescovile, si adoperasse per proporre al pontefice, tra gli altri, il nome del M.: una volta nel 1385, con due lettere inviate a papa Clemente VII, la prima delle quali, datata al 3 ottobre, scritta da Salutati; una seconda nel 1390.
Il papa decise altrimenti, ma l’iniziativa del governo fiorentino in favore del M. è comunque significativa della stima e della benevolenza di cui godeva presso i suoi concittadini. Ciò è confermato dal caldo elogio che di lui fece Salutati, scrivendo al pontefice nell’ottobre 1375. La lettera scolpisce, in pochi tratti essenziali, l’immagine convenzionale del M. quale verrà conosciuta, apprezzata – e idealizzata – dagli umanisti della generazione successiva. Il frate vi è definito eccellente predicatore, fine esegeta, profondo conoscitore delle cose umane e divine, esempio di virtù e moderazione. Coluccio sottolinea inoltre il favore eccezionale di cui egli godeva presso il popolo fiorentino, che si accalcava per assistere alle sue prediche. Questa ultima affermazione, malgrado l’inevitabile e strumentale amplificazione retorica, sembra poggiare su un fondamento di verità. Nell’Oratio in funere Nicolai Nicoli (1437), per esempio, Poggio Bracciolini ricorda che moltissimi giovani ingegnosi e promettenti, tra i quali il Niccoli, erano soliti affollare la casa del M. per riceverne, «velut ad divinum oraculum», ammaestramenti e consigli. Così, il rimprovero che gli mosse in un sonetto Agnolo Torini, cioè di aver voluto istruire, con la parola, anche gli «ignoranti», ovvero le «donne» e gli «infanti», è probabile che rifletta, polemica a parte, un dato di per sé obiettivo. La profonda cultura, l’eccezionale virtù di costumi, la liberalità, la sapienza oratoria, sono tratti che le testimonianze umanistiche, dal Salutati a Giannozzo Manetti, sono concordi nel riconoscere al M.: particolare rilievo assumono, tali elementi, nella caratterizzazione che di lui offre Giovanni Gherardi nel Paradiso degli Alberti, ove il M., definito «teologo sommo e preclarissimo oratore», è introdotto a discutere e definire, in un consesso di dotti, le più sottili questioni filosofiche (il mito di Circe e i suoi significati), letterarie (i sensi delle Scritture), politiche (la migliore forma di governo, l’origine di Firenze).
Non meno intensa fu la partecipazione del M. alle vicende istituzionali dell’Ordine agostiniano. Negli anni 1384 e 1385, come documentano i registri generali dell’Ordine, egli fu provinciale della provincia di Pisa e in tale veste partecipò al capitolo generale, che si svolse a Esztergom, in Ungheria, nel maggio 1385. Due anni più tardi lo troviamo al centro di un’aspra polemica con Bartolomeo da Venezia, generale dell’Ordine. Il dissenso, sorto in pieno scisma d’Occidente, concerneva l’atto di fedeltà a papa Urbano VI, che il M., contro la volontà del suo superiore, si rifiutava di sottoscrivere, negando che tale dichiarazione potesse essergli estorta senza un preciso mandato papale. L’esito della controversia ci è ignoto. La vicenda si trascinò perlomeno fino al 1388, ma non sembra che vi siano state conseguenze per il M., che continuò a occupare una posizione di rilievo all’interno dell’Ordine.
Nuove tensioni tra il M. e i suoi confratelli si registrano nel 1388. In un’epistola che la Signoria inviò al generale dell’Ordine il 4 settembre si lamentano attacchi ingiustificati al M. da parte dell’ala più conservatrice dell’Ordine e si minaccia, nel caso che il priore non fosse intervenuto a sedare tali malumori, l’invio di un’ispezione pubblica. Bartolomeo da Venezia reagì prontamente, mandando a Firenze un proprio ispettore generale, Nicola da Cascia, il quale riuscì, deve supporsi, a comporre i dissidi, dato che non si hanno notizie di ulteriori contrasti.
La vicenda mette bene in luce quanto forte fosse il legame tra il M. e la Signoria, intervenuta direttamente nella contesa per assumere le difese del proprio protetto. E del resto che le cose stessero in questi termini si era reso evidente già nel novembre 1387, quando il governo fiorentino, essendo in città tre ambasciatori inviati da Clemente VII per sondare gli umori della città circa la eventuale convocazione di un concilio, si rivolse al M. per un parere sulla faccenda. Il M. suggerì di ascoltare i tre ambasciatori e di accettarne le proposte, nel caso questi davvero si fossero resi portatori di un messaggio di pace e di distensione da parte della Chiesa (come di fatto avvenne); in caso contrario Firenze avrebbe fatto bene a sciogliere l’ambasceria.
Sugli ultimi anni della vita del M. possediamo scarne notizie. È noto che nell’anno accademico 1391-92 egli lesse, presso lo Studio della città, il De civitate Dei di Agostino.
Contemporaneamente Filippo Villani teneva lezioni sulla Divina Commedia. Questa circostanza, associata alle reminiscenze dantesche nell’opera del M., ha spinto S. Bellomo a ipotizzare che proprio con il M. potrebbe identificarsi il destinatario dell’epistola nuncupatoria con cui si apre l’Expositio seu Comentum super Comoedia del Villani.
Lo stato di salute del M. cominciava nel frattempo a declinare. In una lettera di Salutati a Giovanni da San Miniato, datata 15 sett. 1393, lo si dice colpito da una malattia.
Il M. morì a Firenze il 24 ag. 1394, come testimonia il breve ma preciso riferimento contenuto in una lettera indirizzata quel giorno dal notaio Lapo Mazzei al mercante Francesco Datini: «oggi è morto maestro Luigi; in grazia di Dio si crede, e degli uomini è certo».
In contrasto con la straordinaria eloquenza che gli viene attribuita in modo concorde nelle testimonianze umanistiche, il M. produsse pochissimi scritti. La discrepanza è registrata da Salutati, che nella celebre lettera a Poggio sul confronto tra antichi e moderni osserva che la vasta cultura e l’eloquenza del M. si risolsero interamente nella predicazione e che, al pari di altri grandi maestri (Pitagora, Socrate, Cristo), egli non lasciò nulla di scritto: «sed non scripsit Ludovicus» (Epistolario, IV, 1). Oltre alla produzione epistolare e ai due commenti al Petrarca, del M. ci resta in effetti soltanto una Formula di confessione, classico testo di sussidio all’opera del predicatore, forse dedicato all’amico Guido Del Palagio. Dello scritto, che ci è noto in una duplice redazione, è stato di recente rinvenuto un nuovo testimone nel cod. miscellaneo 1174 dell’Archivio Datini di Prato, che si aggiunge ai tre già noti.
Gli scritti del M. sono pubblicati in: Lettere, a cura di O. Moroni, Napoli 1978; Giovanni dalle Celle - L. Marsili, Lettere, a cura di F. Giambonini, II, Firenze 1991, pp. 47-495, 554-561; G. Belloni, Due commenti di L. Marsili a Petrarca, in Studi Petrarcheschi, n.s., IV (1987), pp. 87-141; C. Vasoli, La «Regola per ben confessarsi» di L. M., in Rinascimento, IV (1953), pp. 39-44.
Fonti e Bibl.: F. Petrarca, Epistolae seniles, XV 6, XV 7, in Id., Opera omnia, Basileae 1581, pp. 732, 939; G. Manetti, Vita Nicolai Nicoli, in L. Mehus, Historia litteraria florentina, Florentiae 1759, p. LXXVI; A. Traversari, Latinae epistulae, a cura di P. Canneto - L. Mehus, Florentiae 1759, I, pp. CCLXXXIII-CCLXXXVI; C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, Roma 1891-1911, II, p. 469; IV, 1, pp. 138 s.; G. Boccaccio, Opere latine minori, a cura di A.F. Massera, Bari 1928, p. 227; G. Billanovich, Nella biblioteca del Petrarca, in Italia medioevale e umanistica, III (1960), tav. V 2; P. Bracciolini, Oratio in funere Nicolai Nicoli, in Id., Opera omnia, a cura di R. Fubini, Torino 1964, p. 271; G. Gherardi, Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389. Romanzo di Giovanni da Prato, a cura di A. Wesselofsky, I, 1, Bologna 1968, pp. 305-308; L. Mazzei, Lettere di un notaro a un mercante del secolo XIV con altre lettere e documenti, Prato 1979, p. 69; E. Spagnesi, Utiliter edoceri. Atti inediti degli ufficiali dello Studio fiorentino (1391-1396), Milano 1979, p. 42 n. 59; L. Bruni, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, a cura di S.U. Baldassarri, Firenze 1994, pp. 239 s.; F. Del Secolo, Un teologo dell’ultimo Trecento. L. M., Trani 1897; C. Casari, Notizie intorno a L. M., Lovere 1900; U. Mariani, Il Petrarca e gli agostiniani, Roma 1946, ad ind.; R. Arbesmann, Der Augustiner-Eremitenorden und der Beginn der humanistischen Bewegung, Würzburg 1965, pp. 73-119; E. Garin, Storia della filosofia italiana, I, Torino 1966, pp. 247 s., 280, 283-285; H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano, Firenze 1970, pp. 90, 108, 234, 266, 284, 351 s.; C. Piana, La facoltà teologica dell’Università di Firenze nel Quattro e nel Cinquecento, Grottaferrata 1977, pp. 208-211, 254-258; O. Moroni, Un ricordo di Petrarca nelle «Lettere» del Marsili, Roma 1985, pp. 243-251; G. Belloni, Due commenti di L. M. a Petrarca, in Studi petrarcheschi, n.s., IV (1987), pp. 94-103; S. Bellomo, L. M. tra Dante e Petrarca: un’ipotesi, ibid., V (1988), pp. 293-300; G. Micheli, La figura di L. M., precursore della civiltà umanistica a Firenze, Firenze 1992; S. Brambilla, Itinerari nella Firenze di fine Trecento, Milano 2002, pp. 107-224; Rep. font. hist. Medii Aevi, VII, pp. 465 s.