EREDIA (d'Eredia, d'Heredia), Luigi
Poeta e letterato palermitano, nacque nella seconda metà del sec. XVI da nobile famiglia.
Compì studi giuridici, grazie ai quali poté ricoprire incarichi politici e diplomatici, che lo portarono lontano dalla sua città (a Roma e in altre località del continente). Ed infatti nel sonetto XVIII delle Rime egli fa riferimento alla sua carriera di governatore di Reggio ("e piango di Calabria il più bel nido / ch'io ressi un tempo"; vv. 12 s.); e nel capitolo I allude invece al suo soggiorno a Lisbona ("mentre rimiro di bei fregi adorno / l'altero lume del famoso Tago"; vv. 65 s.), da dove "la memoria riede" con nostalgia alla donna amata e ai circoli letterari palermitani.
A. Mongitore (p. 18) esalta la profondità della sua dottrina platonica e soprattutto la sua abilità di rimatore vario e ricercato, in relazione con i grandi lirici del suo tempo come Marino, di cui è menzione nel sonetto X. Nonostante la povertà dei dati esterni, la figura dell'E. non è certo secondaria nel panorama letterario cittadino. E del vasto credito che egli godette a Palermo è testimonianza l'amicizia con Filippo Paruta e con B. Ventimiglia e la familiarità con A. Veneziano, il maggior poeta siciliano dell'epoca, la cui morte cantò in un sonetto, che ha il sapore della celebrazione ufficiale. E uomo di pubblico prestigio dovette certo essere l'E., che nel 1601 compose un'orazione funebre in occasione della scomparsa del viceré di Sicilia, duca di Maqueda, in cui tessé l'elogio dell'estinto, senza dimenticare di esaltare - come appunto doveva fare un ragguardevole esponente dell'establishment - la "vincitrice Spagna, Donna delle provincie, madre d'ingegni fecondi, maravigliosa nell'arte della pace e nelle imprese della guerra" (Oratione nelle esequie..., in Di Giovanni, p. 297). Perciò non fu insincero il rammarico dei contemporanei per la sua prematura fine; e forse non troppo enfatico appare l'elogio di G. Di Giovanni, che nel suo Palermo triunfante gli attribuisce il merito di aver ridato dignità alle muse indigene, mostrando "che non sono hora i Siciliani da sezzo" (p. 125).
L'E. fu poeta vario, capace di cimentarsi in generi letterari diversi; ma non gli mancò nemmeno l'inclinazione alla polemica letteraria, anche se egli fu mosso più da un fondo di patriottismo che da precise scelte di gusto. Nell'Apologia (Palermo 1603) egli si oppose alle innovazioni tecniche e contenutistiche di B. Guarini nel Pastor fido, soprattutto per difendere Teocrito e i doriesi poeti ciciliani e appoggiò queste fragili rivendicazioni municipalistiche con argomenti abbastanza pretestuosi "in cui al Diktat di Aristotele si unisce quello della Chiesa cattolica" (Sacco Messineo, Poesia e cultura…, p. 474). L'E., infatti, rimproverava al suo avversario la scelta di un argomento profano, l'assenza di verosimiglianza nello svolgimento della favola, e suffragava la sua linea "sicilianista" e antimoderna, sottolineando la differenza tra egloga antica e dramma pastorale. Ma nonostante le chiusure che appaiono in questo scritto verso il frenetico rinnovamento dei generi che si attuava in quegli anni, l'E. mostrò nella sua creazione poetica minori prudenze e inibizioni che nelle sue prese di posizione teorica.
Egli infatti fu autore di un poemetto in terzine in dialetto siciliano, La Surci-Giuranìa, riboccante di estro e di innovazioni, in cui satireggiò, alla maniera dell'omerica Batracomiomachia, l'accanita contesa tra due letterati palermitani, il Paruta e il Sirillo. L'E. appare già incline all'ibridazione dei generi e a ricavare effetti eroicomici dal contrasto patente tra la serietà epica e l'inevitabile "mediocrità" del dialetto, portato all'espressionismo parodistico nell'onomastica e nell'uso di certe forme idiomatiche. La descrizione della lotta tra rane e topi, pur tenendosi lontana dalla scurrilità e dal facile sberleffo, mostra la capacità dell'E. di utilizzare con una certa eleganza l'arma del riso, senza eccedere nell'assalto della parte avversata. E tuttavia, nonostante questa urbanità di tono, egli preferì assumere un nom de plume, quello di Battista Basile, che era stato un poeta burlesco popolare e che, come tale, era diventato il prestanome di chi "senza farsi conoscere amava di scherzare e satireggiare in versi siciliani" (Salomone Marino, Intorno alla Surci-Giuranìa, p. 381). Nel poemetto l'espediente serve a legittimare una scrittura sentita come di frontiera, anche se essa mantiene quella misura, che può dar luogo anche a squarci autobiografici, come quando l'E. si ritrae nei panni di una "giurana" pensosa e dalla "dolce lira", in versi non privi di autocompatimento nella loro virgiliana andatura: "Una giurana, ca li versi soi / suavi accorda à la sampugna ornata / cantandu l'opri di famusi heroi, / e ducissimamenti 'nnamurata, / cù suavi palori un cori spetra / si fussi duru chiù di 'na balata.... Illa cadiu comu virmighiu xhiuri / chi rumpi in truncu l'animusu ventu, / pirduta la billizza e lu sblenduri" (ibid. pp. 387 s.).
Ma questi versi alludono soprattutto alla vocazione lirica dell'E., che fu poeta d'amore, con una forte inclinazione al melodico e al patetico. La sua produzione, tuttavia, è rimasta a lungo in gran parte inedita; e solo nel 1875 S. Salomone Marino ha pubblicato a Bologna con il titolo di Rime una silloge che comprende trentuno sonetti, due capitoli, una canzone e Il pianto della Maddalena penitente. La vena elegiaca dell'E. trova nella convenzione del petrarchismo accenti e stilemi di misurata eleganza e di contenuta vivacità immaginativa. Nonostante egli dichiari nel citato sonetto X la sua devozione al Marino ("e purgo quasi in cristallino fiume / nei vostri versi ogni mio affetto impuro": vv. 7-8), egli non appare incline al lusso della nuova poesia barocca e fa sempre economia di concetti e di arditi traslati. Non certamente antitradizionale è il repertorio delle situazioni e dei luoghi poetici: si va dal lamento per la morte della donna amata (forse tal Giulia Caleppia) alla confessione del "dolce vaneggiar", al tema della partenza (sonetti XXIV-XXVIII), che introduce una nota sospirosa di vago sapore melodrammatico. Concentrata e seria, la musa lirica dell'E. si adatta ai moduli del Petrarca, riprendendone i giochi onomastici ("l'aura", "d'aure", ecc.) e la sua maniera più flebile e dolente ("stanche sarte"; "e già del viver mio mi avanza poco"; "chiari rai, ch'io mirar soglio spenti"). La presenza di componimenti estranei all'ispirazione amorosa (sonetti in morte di Filippo II e altri di argomento letterario) arricchisce la ridotta tastiera espressiva di questa poesia, che pare ristagnare in una zona di confine tra manierismo e barocco, più proclive alle eleganti variazioni sul tema che alla ricerca del peregrino e dell'ornato. Non sono troppo frequenti, ad esempio, le antitesi, le costruzioni chiastiche, le arguzie dell'ingegno e della parola; né si avverte in questi versi una propensione all'astruso e all'immaginoso; ché anzi la figura retorica che più spesso si incontra è la classica similitudine, piuttosto che la più studiata e, in seguito, abusata metafora. Un'impronta non lieve dell'atmosfera del tempo si avverte, comunque, in un certo andamento gnomico del dettato poetico. Così la commiserazione dell'umana debolezza e vanità ("Cieco ben è chi le tue pompe cura, / misero mondo, e la tua gioia frale"; sonetto III, vv. 1-2) Ci riporta alla caratteristica problematica controriformistica del peccato e della redenzione. E, tuttavia, sulle finalità religiose prevalgono gli accenti profani anche in scritti come Ilpianto della Maddalena penitente, un poemetto in ottave, dove il tema del pentimento e della fuga dal mondo non riesce a cancellare l'ispirazione intimamente madrigalesca e lirico-sentimentale dell'Eredia.
Che questa fosse la natura più autentica della sua poesia lo confermano anche i versi non entrati nella raccoltina allestita dal Salomone Marino. E questo vale sia per Il pianto di Lisiopastore, che ci porta nell'ambito della convenzione idillico-pastorale, peraltro già avvertibile nel tono e nell'onomastica di certe Rime, sia soprattutto per la raccolta Infidi lumi del 1603, dedicata a F. Valdina e Ventimiglia, che aveva scelto il verso del Tasso ("Specchi del cor fallaci infidi lumi"), che chiude tutti i componimenti. I venticinque madrigali a cinque voci furono "posti in musica da diversi autori ciciliani" (tra cui Antonio Il Verso) e lasciano intravvedere la consistenza della cultura musicale a Palermo in quel periodo; ed inoltre indicano la rinomanza della poesia dell'E. e i suoi legami con la grande letteratura del tempo. La sottigliezza dell'inventare lo portò in questi versi ad eleganti variazioni della parola-chiave "occhi", ripetutamente occorrente, mentre le più poetiche perifrasi "ardenti rai", "vago azzurro", "dolcissime faville", "bel guardo celeste", confermano la capacità del poeta di moltiplicare virtuosisticamente le risonanze del tema, replicandolo e variandolo con tutta una serie di ritorni di estrema grazia verbale. Era questa una prova di ingegno e di squisita abilità, ma che conservava sempre parsimonia di immagini e naturale misura. A questa vena lirico-melodica sono conformi non solo gli altri quindici madrigali per musica conservatici nella raccolta di Rime degli Accademici Accesi di Palermo, ma anche gli Intermedii dellaTrappolaria, che l'E. compose nel 1603 in occasione delle nozze di L. Lanza ed E. Barresi. In questa operina "da camera", di cui ci restano anche le didascalie di P. Donato, l'E. realizzò la parte poetica di un fastoso allestimento scenico, composto da cinque quadri allegorici inseriti come intermezzi tra i cinque atti della commedia di G. B. Della Porta. La rappresentazione, che nei primi due quadri ha per soggetto Il Tempo ed Hespero, prosegue, dopo il terzo (Proserpina), come un elogio della feracità della Sicilia (Cicilia) e dello splendore di Palermo (Oreto).
L'E. morì giovane a Palermo nel 1604, perché, come riferisce V. Di Giovanni (p. 401), "inciampò in un mal francese". Secondo L. Bianconi (p. IX), per rendere omaggio a questa immatura scomparsa A. Il Verso avrebbe composto il libro di madrigali del 1605, grato all'E. che lo aveva fatto "accedere direttamente" alla poesia del Marino.
Durante la sua vita furono pubblicate le seguenti opere: Oratione nell'esequie dell'ecc.mo principedon Ber. di Cardenas, duca diMacheda, Palermo 1602; Apologia nella quale si difendono Teocritoe i doriesi poeti cicilianidalle accuse di B. Guarino, Palermo 1603; Intermedii della Trappolaria, Palermo 1603; alcuni madrigali (tra cui gli Infidi lumi) sono contenuti nel volume Rime degli Accademici Accesi di Palermo (a cura di G. B. Caruso), Palermo-Venezia 1726, II, pp. 177-195; un'ampia scelta di liriche e l'Oratione sono contenute nel volume di V. Di Giovanni, Filologia e letteratura siciliana, Palermo 1879, II, pp. 125-137, 297-302; le Rime sono state pubblicate a cura di S. Salomone Marino, Bologna 1875; lo stesso studioso ha curato la edizione della Surci-Giuranìa (Intorno alla Surci-Giuranìadi L. d'Erèdia, in Archivio storico siciliano, s. 3, XVI [1891], pp. 370-391: rec. in Giorn. stor. della lett. ital., X [1892], t. XIX, pp. 468 s.).
Fonti e Bibl.: G. Di Giovanni, Palermo triunfante, Palermo 1600, p. 125; P. Carrera, Variorum epigrammatum libri tres, Venezia 1613, II, f. 80; V. Di Giovanni, Del Palermo restaurato [1615], a cura di G. Di Marzo, Bologna 1872, I, pp. 400 s.; A. Aprosio, Occhiale stritolato, Venezia 1642, c. 162; A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Panormi 1728, I, pp. 18 s.; G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia 1730, IV, p. 144; V. Auria, Teatro degli uomini letterati di Palermo, in Nuove Effemeridi siciliane, III (1876), pp. 186 s.; G. E. Ortolani, Biografia degli uomini illustri della Sicilia, Napoli 1819, III, ad Indicem; G. M. Mira, Bibliografia siciliana, Palermo 1875, I, p. 328; O. Tiby, I polifonistisiciliani del XVI e XVII secolo, Palermo 1969, pp. 19, 39; L. Bianconi, A. Il Verso. Madrigali a 3 e a 5 voci, Firenze 1978, p. IX; P. Mazzamuto, Lirica ed epica nel sec. XVI, in Storia della Sicilia, Palermo 1980, IV, pp. 330, 345 e passim; M. Sacco Messineo, Poesia e cultura nell'età barocca, ibid., p. 434 e passim.