DRAGONETTI, Luigi
Nato a L'Aquila il 1° ott. 1791 dal marchese Giambattista e da Mariangela Benedetti, nel 1800 fu mandato a Roma per compiere gli studi nel collegio "Nazareno". Terminati gli studi secondari, si recò a Napoli presso lo zio paterno Giacinto con il quale si applicò a studi di giurisprudenza.
Tornato in Abruzzo, si ritirò a Paganica, in una villa di sua proprietà, dove aveva una biblioteca ricca di 10.000 volumi, per dedicarsi con maggior concentrazione agli studi. Nel 1815 esordì nella vita pubblica celebrando in un discorso l'impresa di Gioacchino Murat in favore dell'indipendenza italiana e scrivendo un messaggio che egli stesso presentò a nome della sua città al re di Napoli che passava da Sulmona per recarsi a combattere l'esercito austriaco. Poco dopo divenne segretario della Società nazionale fondata a Napoli. Intanto, restaurata la monarchia borbonica, ebbe l'incarico di amministrare il liceo reale degli Abruzzi.
Nel 1816 sposò Laura De Torres e due anni dopo, per ampliare le sue conoscenze ed amicizie, viaggiò nello Stato pontificio e in Toscana. In questi anni maturò con sempre maggior convinzione la sua adesione a una forma di cattolicesimo liberale, di cui in Italia fu uno dei primi e più originali rappresentanti. Nel 1820 - in seguito ai moti costituzionali - fu eletto al Parlamento napoletano, dei cui lavori fu un autorevole animatore.
Notevoli i suoi interventi su alcune questioni di legittimità dell'azione del Parlamento e sulla migliore organizzazione di questo. In numerose occasioni denunciò gli abusi delle intendenze provinciali. Come membro della commissione Finanze rese noto lo spaventoso stato delle finanze pubbliche e giunse a proporre misure radicali - come quella di dare in pegno i capolavori del Museo Borbonico - per ottenere i fondi necessari a far fronte alla guerra. Il 2 novembre fu nominato segretario del Parlamento.
Quando l'8 dicembre pervenne all'Assemblea il messaggio del re, in cui questi chiedeva il consenso per la sua partecipazione al congresso di Lubiana, il D. lo giudicò incostituzionale e propose di considerarlo come non presentato; ciononostante affermò che "la partenza del nostro monarca può avvenire tutte le volte che egli si riprometta di andare a difendere quello Statuto che egli medesimo e noi abbiamo firmato con irretrattabile giuramento" (Atti del Parlamento delle Due Sicilie, II, p. 376).
Il 15 febbr. 1821, prendendo la parola dopo che Ferdinando I aveva chiesto l'intervento austriaco, espresse la convinzione che il re a Lubiana fosse stato costretto a quel passo da pressioni esterne: lo invitava perciò ad un immediato ritorno nel Regno per porsi alla testa del suo popolo. Quando poi le truppe austriache posero fine all'esperienza costituzionale, nel marzo fu uno dei finnatari della protesta redatta da G. Poerio contro l'invasione straniera e l'abolizione del regime liberale.
Finita questa esperienza, si ritirò nuovamente all'Aquila, dove riprese gli studi di filosofia, economia e letteratura. Seguace di T. Reid e dell'eclettismo francese, anche se con quella autonomia che distinse sempre il suo pensiero, discusse problemi filosofici con Ch. Didier e N. Tommaseo, con i quali fu in corrispondenza.
Molti gli amici letterati di questo periodo: oltre al Tommaseo, Francesco Saverio e Michele Baldacchini, M. Amari, B. Puoti, L. Tosti e D. Strocchi. Egli si schierò con i puristi e collaborò al Vocabolario universale della lingua italiana pubblicato a Napoli dal 1829 al 1840, considerando il processo di unificazione della lingua una tappa necessaria verso l'unità nazionale. Per la sua fama di studioso in quegli anni fu ascritto all'Accademia dei Georgofili, all'Atemina, all'Accademia dei Velati - di cui fu segretario -, alla Gioenia di Catania, all'Istituto archeologico di Roma e alla Società economica del'Aquila.
Intensi furono i suoi studi di economia (si ispirò, in modo particolare, alle teorie di J.-B. Say); in questo campo egli riteneva che ci si dovesse avvalere dell'ausilio di altre scienze, come la politica, la statistica e anche le scienze naturali, sostenendo peraltro che il fondamento dell'economia era sempre nella religione e nella morale. I suoi scritti economici videro la luce negli anni Trenta sul Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti e sul Gran Sasso d'Italia, che acquistò notorietà proprio grazie ai saggi del Dragonetti.
In essi il D. presentò lo sviluppo industriale come un progresso morale e intellettuale dell'umanità e, fortemente influenzato da teorie democratiche settecentesche, individuò lo scopo dell'economia "nel procurare il possesso delle cose godevoli in una quantità proporzionata ai bisogni della vita, per forma che vengono diffuse.quanto si può equabilmente e facilmente sul massimo numero degl'individui sociali" (L'industria considerata nelle sue attinenze con la pubblica amministrazione, p. 122). In quest'ottica affrontò il problema della distribuzione della ricchezza, che adeguatamente risolto avrebbe portato ad un superamento del problema della sovrapproduzione, nato dall'imposizione di un ordine innaturale per cui solo pochi potevano godere dei benefici del sistema industriale. Aumentando invece il numero dei consumatori non ci sarebbero più state crisi di sovrapproduzione e non sarebbe stato un problema nemmeno l'aumento progressivo della popolazione, che aveva portato Malthus a formulare delle teorie che il D. considerava immorali, un "oltraggio alla Provvidenza".
Egli ritenne che il sistema industriale fosse il mezzo migliore per garantire la pace sociale all'intemo di uno Stato e la "concordia fra i popoli della terra", per cui ogni governo avrebbe dovuto promuoverne lo sviluppo. Il D. fu però critico verso alcuni principi propugnati dagli economisti della scuola classica e in modo particolare verso quello della "libera concorrenza", che reputò "il più sicuro degli espedienti per nudrire l'abitudine degli odi, principalissima cagione dell'immoralità di un popolo" (ibid., p. 128). Questo principio aveva fatto sì che non venisse compresa "l'indole conciliatrice dell'industria", per cui molti studiosi avevano considerato "lo stato di un popolo industrioso essere necessariamente uno stato di ostilità". Il D. proponeva perciò di sostituire "al principio di libera concorrenza lo spirito di associazione, e si vedrà - affermava - di che sia potente l'industria in fatto di moralità e di concordia" (ibid.).
Nello scritto Sulla riforma della tariffa doganale, del 1838 (pubbl. nel 1845), espresse la convinzione che l'industria si sviluppi solo "dove e quando l'agricoltura abbia pressoché toccato già l'apice della sua prosperità" (p. 122). Infatti era con la produzione agricola che si dovevano accumulare quei capitali che poi sarebbero stati necessari allo sviluppo industriale. Nel Regno delle Due Sicilie, dove l'agricoltura era debole e non aveva capitali sufficienti nemmeno per le sue attività, egli riteneva quindi che non ci fossero le condizioni favorevoli allo sviluppo industriale. Il D. chiedeva perciò di abbandonare la politica protezionistica attuata dal governo per favorire quelle "poche e scadenti fabbriche le quali sono tutta la nostra ricchezza industriale" (ibid., p. 118), che creava grave danno all'agricoltura e all'erario dello Stato, visto che una tariffa doganale molto alta favoriva il contrabbando. Lo Stato avrebbe dovuto invece aiutare l'agricoltura, che da sola non poteva in alcun modo svilupparsi; una volta rafforzata quest'attività sarebbe stato un processo naturale poi la nascita delle industrie, le quali "venute alla luce in opportuno momento, nate senza sforzo. allevate senza violenza, nutrite nell'abbondanza ... pervengono ad uno stato di vigore che lor promette lunga vita e fiorente" (ibid., p. 122). Egli concludeva auspicando un accordo di tutti i governi per l'abolizione delle dogane, che non sarebbe stato "meno fecondo di utili conseguenze per la morale e pacifica palingenesi dell'umanità, di quello che si fu il trovato della stampa e l'abolizione della servitù della gleba" (ibid., p. 127).
La sua critica contro alcuni principi della economia classica sarà ripresa in uno scritto del 1847, Del pauperismo e delle libertà economiche, dove il D. individuava la colpa più grave dell'economia politica nel non aver cercato di risolvere il problema sociale e di aver limitato questa scienza al solo discorso sulla produzione della ricchezza. I risultati erano che "gl'interessi cozzan fra loro e con violenza si urtano in seno al disordine economico: la guerra industriale genera miseria e fa per ogni dove fermentare il lievito delle rivoluzioni". Questa scienza che si era proposta di realizzare la ricchezza "non ha prodotto in fin de' conti che la miseria".
Egli aveva visto nello sviluppo industriale la possibilità di un nuovo ordine sociale, più democratico e capace di migliorare le condizioni morali e civili dell'uomo; in realtà osservava che esso aveva prodotto "l'abrutimento fisico e morale dell'estrema miseria", lo sfruttamento del lavoro dei minori e delle donne e le assurde teorie di Malthus sulla popolazione. Causa di tutto questo era stata l'applicazione del principio del "lasciar fare", che egli criticava tenacemente appoggiandosi a Sismondi ma anche a Saint-Simon e a Fourier, pur rifiutando di questi ultimi le idee socialiste. Il D. riteneva che "la scienza, quale ora s'insegna dalla più parte degli economisti, difetti nelle sue basi, perché svincolata dalla morale, primo e necessario elemento d'ogni scienza che abbia per oggetto l'uomo e la società e sia d'altra parte incompleta, dacché unicamente considerando il fenomeno della ricchezza ha trascurato quello della miseria". Egli invece voleva rifarsi alla scuola economica italiana, che riteneva fondata sulla morale. Per il D. la teoria economica classica sbagliava nel considerare il lavoro come una "cosa" regolata dalla legge dell'offerta e della domanda, in base alla quale il lavoro costava sempre meno. Ma, si chiedeva il D., "non è egli una iniquità sociale ed un grave errore della scienza, la quale ne ha fatto una legge ed un canone, che la classe essenzialmente produttrice sia così taglieggiata e ridotta ad avere sempre più picciola parte del prodotto? E cio per sanzione scientifica, dacché la scienza in luogo di vedervi un disordine delle umane passioni, un sopruso della forza che prevale alla ragione, vi trova un principio regolatore e ne deduce un teorema!". Egli temeva che, in luogo del miglioramento sperato, tutto si potesse risolvere in un "retrogradare scientificamente fino alla schiavitù" ed affermava che la teoria di alcuni economisti "che sia una mercatanzia la vita dell'uomo, e per iscientifica convinzione il voglia, dottrinalmente riconosce la legittimità della schiavitù".
Il suo cattolicesimo lo aveva portato quindi a delle idee che, pur lontane dal socialismo, si caratterizzano per una volontà di risolvere la questione sociale in modo democratico.
Il 3 giugno 1831 un regio decreto lo nominava visitatore delle prigioni abruzzesi; egli percorse l'Abruzzo fino al gennaio 1832. Nel corso di queste visite intervenne in molte carceri migliorando la condizione dei detenuti. Alla fine scrisse una relazione in cui descriveva la precarietà della situazione carceraria; proponeva che i luoghi di detenzione fossero trasformati in case di lavoro, dove i detenuti potessero imparare un mestiere evitando così la recidiva e dando impulso all'economia della Stato. La relazione venne pero accolta con molta diffidenza da parte del governo, tanto che la sua esperienza pubblica ebbe termine e fu posto di nuovo sotto la sorveglianza della polizia.
Nel 1833 egli fondò a Napoli la Banca del Tavoliere di Puglia - di cui divenne direttore -, che avrebbe dovuto venire incontro alle esigenze di credito degli agricoltori e degli allevatori pugliesi, che per pagare tasse e contributi dovuti allo Stato erano spesso costretti ad indebitarsi con usurai locali; a finanziare l'iniziativa fu una società belga. Ma una grave malattia della moglie costrinse il D. a frequenti assenze da Napoli, cosicché alcuni collaboratori disonesti poterono approfittarne per sottrarre soldi dalle casse della banca, creando un notevole ammanco nel bilancio. Resasi pubblica la situazione, nel 1837 il governo nominò un commissario regio, che dopo una breve inchiesta dichiarò il fallimento dell'istituto bancario; il D. dovette rifondervi circa 200.000 franchi.
Tornato all'Aquila, nel 1841 fu accusato di aver preso parte a un moto rivoluzionario scoppiato nella città l'8 settembre. Sottoposto, insieme con più di cento concittadini, al giudizio di un tribunale militare, fu assolto dalle accuse più gravi, ma - per le sue idee - fu condannato al domicilio coatto a Montecassino, dove rimase dal 1842 al 1846.
In questo periodo - in cui subì gravi danni alla salute e al patrimonio familiare - non rimase del tutto inattivo e isolato. Studiò le pergamene dell'abbazia, tradusse Ilprofeta velato del Korassan di Thomas Moore e si rivelò anche un valido collaboratore per A. Dantier, che si era recato a Montecassino per scrivere la sua opera Imonasteri benedettini in Italia. Da Napoli riceveva i giornali e nello stesso monastero - che era uno dei centri del neoguelfismo meridionale - trovò dei monaci con idee liberali, come i padri L. Tosti e C. de Horatiis, che lo aiutarono a mantenere i contatti con l'esterno. In questo periodo ebbe anche qualche fugace simpatia per le idee mazziniane.
Nel 1846 fu liberato dal domicilio coatto a patto che lasciasse il Regno. Egli si recò a Roma, ove riprese l'attività politica. Erano gli anni dell'entusiasmo suscitato dall'elezione di Pio IX, il quale, ospite all'Aquila, da cardinale, della famiglia De Torres, ricevette in udienza privata il D. appena questi giunse nella capitale dello Stato pontificio.
Il D. si convinse più che mai che fosse possibile conciliare il cattolicesimo con il liberalismo. Molto vicino alle idee del Gioberti, frequentò M. d'Azeglio, F. Orioli, L. C. Farini e collaborò ai periodici L'Italia, La Concordia e IlContemporaneo. Conobbe in questo periodo una vasta popolarità, tanto da suscitare l'irritazione del governo napoletano che, nel 1847, chiese al papa di espellerlo dallo Stato. Questa richiesta creò però intorno al D. una solidarietà così forte, da impedire che si prendessero provvedimenti contro di lui.
Il 29 genn. 1848, appena Ferdinando II pubblicò il decreto che annunciava la concessione della costituzione, il D. si recò a Napoli insieme con Cristina Trivulzio Belgioioso. Nel nuovo clima egli fu nominato dal governo sovrintendente agli Archivi e consigliere di Stato. Subito attivo in campo politico, divenne presidente di un comitato per la riforma costituzionale, collaborò al giornale IlNazionale e, insieme con la Belgioioso, dalla fine di marzo organizzò volontari da mandare in Lombardia e nel Veneto insorti contro gli Austriaci.
Il 3 aprile, varato il governo Troya, fu nominato ministro degli Esteri e degli Affari ecclesiastici, incarico quest'ultimo che mantenne soltanto fino al 14 aprile. Subito dopo l'insediamento, sollecitato anche dalle pressanti richieste del governo piemontese, il D. organizzò un corpo di spedizione regolare per la partecipazione alla guerra di indipendenza. Di questo facevano parte due suoi figli, Giovanni e Alfonso, il secondo dei quali morirà nel 1849 per la tisi contratta nella laguna veneta. Nello stesso tempo il D. inviò a Roma una delegazione presieduta dal principe di Colubrano per partecipare al congresso che avrebbe dovuto realizzare una lega politica fra gli Stati italiani.
Intanto, indette le elezioni ed eletto deputato nel collegio dell'Aquila, egli fu tra i sostenitori della tesi secondo cui la Camera appena convocata doveva considerarsi come Assemblea costituente per intraprendere il lavoro di riforma della costituzione, concessa da Ferdinando II, che lasciava insoddisfatto un vasto schieramento politico. Quando il sovrano, in opposizione a questo disegno, fece occupare dalle truppe i punti strategici della città e sparare contro i cittadini insorti (15 maggio), il D. - recatosi a palazzo reale insieme con i ministri A. Scialoia e R. Conforti - tentò invano di raggiungere. una soluzione di compromesso. Congedati bruscamente da Ferdinando II, non rimase altro al D. che riferire l'accaduto al presidente del Consiglio C. Troya, il quale rassegnò le dimissioni. Chiusa la Camera e indette nuove elezioni per la metà di giugno, egli fu nuovamente eletto deputato. Ma anche la nuova Camera fu messa in condizione di non poter operare e, dopo una lunga sospensione dei lavori, nel marzo del 1849 il sovrano la sciolse e avviò la repressione.
Il D. - che era stato nominato delegato napoletano alla Costituente italiana e aveva mantenuto i contatti tra il governo costituzionale romano e i circoli napoletani - si era frattanto ritirato all'Aquila, dove partecipò all'attività cospirativa. Il 22 luglio 1849 fu arrestato e sottoposto a giudizio per una compromettente lettera a Carlo Poerio, riconosciuta poi falsa da due perizie calligrafiche. Fortunatamente la polizia non riuscì a raccogliere le prove della sua attività, ma egli fu tenuto egualmente in carcere fino al 1852, quando fu assolto dalla Corte criminale dal reato di cospirazione ma condannato all'esilio.
Destinato in America, come altri patrioti, sbarcò a Malta. dove - avuto un nuovo passaporto dal console sardo -s'imbarcò per la Francia, raggiungendo a Tolosa i figli Giulio e Giovanni, precedentemente esiliati. Poco tempo dopo, attratto dalla presenza di correnti cattolicoliberali e di numerosi amici che si erano lì trasferiti, passò con i figli a Parigi, dove risiedeva anche il fratello Giovanni.
Qui, oltre che con l'emigrazione meridionale, ebbe intensi contatti con Montanelli, Sirtori e, soprattutto, con Manin, dal quale però lo dividevano molte idee, essendo questi unitario e filosabaudo mentre il 13, sosteneva il federalismo e riteneva pericolosa l'egemonia piemontese. Ebbe anche rapporti con molti intellettuali francesi, tra cui J.-B.-H. Lacordaire, A. de Lamartine, F.-A.-M. Mignet.
Nel 1855 fece parte di quel gruppo di esiliati italiani che ridiede vigore al murattismo, facendosi fautore di un progetto che prevedeva la creazione nel Regno meridionale di una monarchia costituzionale con sovrano Carlo Luciano Murat, figlio del re Gioacchino, e la creazione di una confederazione degli Stati italiani. Ciò soddisfaceva due esigenze molto sentite dal D.: l'istituzione di una monarchia costituzionale e il mantenimento dell'autonomia del Regno delle Due Sicilie. Egli - che era già stato designato come ministro degli Esteri dell'ipotetico governo murattiano (R. Cotugno, La vita e i tempi di Giuseppe Massari, Trani 1931, p. 201) - cercò invano di guadagnare a questa soluzione F. De Sanctis e lo stesso Manin, i quali invece si dichiararono pubblicamente contrari, in quanto consideravano il murattismo ormai superato dagli avvenimenti.
Sempre a Parigi il D., ormai allontanatosi dalle idee neoguelfe perché profondamente deluso dal comportamento di Pio IX nel biennio 1848-49, scrisse due opuscoli sulla questione romana, pubblicati anonimi e senza luogo di stampa nel 1856 sotto Pegida del Partito nazionale.
Nel primo di questi, Alla Santità di Pio IX, egli sosteneva che la soluzione della questione romana, per la quale escludeva qualsiasi ricorso alla forza ma suggeriva di ottenere l'assenso di Pio IX, dovesse essere prioritaria ad ogni intervento di riforma dell'assetto istituzionale in Italia. Decise erano però le sue critiche alla legittimità del potere del papa sui territori dello Stato pontificio, sia perché riteneva prive di ogni fondamento la donazione di Costantino e quelle successive, sia perché non poteva essere considerato legittimo un governo basato sull'assolutismo e non sulla volontà del popolo e su libere istituzioni. Il D. proponeva la soppressione del potere temporale e la completa laicizzazione dell'amministrazione a Roma; al papa e alla S. Sede sarebbero rimasti l'immunità ed extraterritorialità nei territori della città leonina e "un sontuoso appannaggio". D'altra parte questa era una soluzione obbligata, dal momento che era precluso al papa il ritorno alla strada delle riforme, definitivamente bruciata nel 1848-49, quando egli si era acquistate "la profonda antipatia e nimistà de' popoli".
Nel secondo opuscolo, intitolato La Papauté à Jérusalem, veniva recensito l'omonimo scritto dell'abate J.-H. Michon, che si faceva fautore di uno spostamento della sede pontificia a Gerusalemme. Il D. giudicava bhe questa soluzione avrebbe permesso al papa di riconciliarsi con il popolo e alla diplomazia europea di eliminare il problema di uno Stato sorretto dalle armi straniere e in pessime condizioni economiche. Infine il D. proponeva di trovare i mezzi necessari per costruire la città papale a Gerusalemme con la cessione di Benevento e Pontecorvo al Regno delle Due Sicilie. Roma sarebbe rimasta, insieme con Gerusalemme, la prima Chiesa del mondo, con un patriarca latino riccamente dotato.
Negli anni dell'esilio il D. compì numerosi viaggi a Londra, Bruxelles e Nizza. Nel 1858 tornò in Italia fermandosi in Piemonte e in Liguria e, dopo l'annessione della Toscana al Regno di Sardegna, passò a Firenze. Qui fece parte della redazione del Risorgimento, al quale cercò di imprimere un indirizzo politico diverso da quello assunto dalla Nazione, che sosteneva Cavour e la causa unitaria. Anche allora rimase fermamente coerente con le sue idee federaliste e, non volendo "abdicare ad una certa gloriosa autonomia delle Due Sicilie", si schierò contro la linea politica che voleva l'Italia unita sotto l'egemonia piemontese. Egli fu quindi contrario alla spedizione di Garibaldi e sperò che l'esercito meridionale ne fermasse l'avanzata. Quando il 25 giugno 1860 Francesco II concesse la costituzione e l'amnistia, si illuse che fosse ancora possibile realizzare nel Mezzogiorno una monarchia costituzionale sotto la dinastia borbonica e mantenere l'autonomia del Regno: egli perciò non firmò la protesta contro i Borboni redatta il 4 luglio dagli esuli meridionali che si trovavano a Firenze.
Quando, verso la fine di agosto, cominciò a rendersi conto che ormai per i Borboni era finita, scrisse a Cavour per proporgli di creare a Napoli una reggenza da affidare al primogenito di Vittorio Emanuele II, cercando così di trovare un compromesso pur di assicurare al Meridione la sperata autonomia. A causa di questi orientamenti antiunitari il D. rimase completamente isolato, mentre il suo dissenso aumentò ancora quando seppe che Cavour aveva deciso l'occupazione delle Marche e dell'Umbria. Egli, pur essendo contrario al potere temporale, era convinto che questa decisione avrebbe allontanato la soluzione della questione romana, irrigidendo il papa e il clero il cui consenso considerava indispensabile.
Verso la metà di settembre del 1860 s'imbarcò a Livorno per ritornare a Napoli, dove fu ascoltato dal Consiglio di luogotenenza e fu di nuovo nominato sovrintendente degli Archivi e consigliere di Stato. Indette le elezione per l'VIII legislatura (27 genn. - 3 febbr. 1861) egli venne eletto deputato nella circoscrizione di San Demetrio ma, nominato il 20 gennaio precedente senatore, non entrò nella nuova Camera dei deputati.
In Senato il D. si schierò all'opposizione sui temi riguardanti la politica ecclesiastica e il Mezzogiorno. Egli propose di creare, insieme con Torino, altre tre "concapitali", Napoli, Palermo e Roma, dove avrebbero dovuto esserci una reggenza, una sezione del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e della Suprema Corte di giustizia; la corte e il Parlamento avrebbero dovuto risiedere a turno in queste città. Persa orinai la speranza in una conciliazione con la S. Sede, il D. si oppose al progetto di Roma capitale, perché riteneva impossibile che nella stessa città potessero convivere il papa e il governo italiano tra loro ostili; proponeva invece che Roma rimanesse sotto la "sovranità nominale" del papa, che avrebbe delegato ad un Senato il potere economico e politico.
Egli giudicò un errore lo scioglimento dell'esercito borbonico, che avrebbe fatto ingrossare le file del brigantaggio, e criticò la brusca sostituzione di tutte le precedenti istituzioni del Regno delle Due Sicilie. In altri interventi si oppose alla soppressione degli Ordini religiosi, all'incameramento dei loro beni e all'istituzione del matrimonio civile.
Nel 1863 il D. si ritirò definitivamente all'Aquila, dove morì il 21 febbr. 1871.
Scritti: L'industria considerata nelle sue attinenze con la pubblica amministrazione, in Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti, II (1832), pp. 120-139; Poche parole sul metodo e sul criterio delle scienze moderne ed intorno ad alcuni moderni sistemi di filosofia, in Giornale abruzzese di scienze, lettere ed arti, II (1837), 2, pp. 14-26; Sulla necessità e maniera di ripristinare i boschi della provincia di Aquila, in Il Gran Sasso d'Italia, II (1839), pp. 89-96; Programma per l'associazione alla Storia della città dell'Aquila, ibid., pp. 316-320; Sulla riforma della tariffa doganale, ibid., VIII (1845), pp. 113-128; Il natale di Roma. Discorso, Bologna 1847; Discorso del marchese L. Dragonetti senatore al Parlamento italiano sulla legge di abolizione degli Ordini religiosi e dell'incameramento dei beni ecclesiastici, Torino 1865; Notizie sul dottor Michelangelo Castagna, Teramo 1866; Scritti polemici e varii, Aquila 1867; Sulle peregrinazioni artistiche del marchese Pietro Laureati, Roma 1869; Le prigioni dei tre Abruzzi nel 1831 ... Relazione, a cura di G. Dragonetti, in Rivista abruzzese, I (1886), pp. 433-441; (1887), pp. 25-33.
Fonti e Bibl.: Atti parlamentari, Senato, Discussioni, legisl. VIII, ad Indicem; Alcune lettere inedite di N. Tommaseo e del marchese L. D., Firenze 1875; M. Natali, Intorno ad alcune lettere di N. Tommaseo e del marchese L. D., Aquila 1877; D. Manin-G. Pallavicino, Epistolario politico (1855-1857), Milano 1878, passim; Spigolature nel carteggio letterario e politico del marchese L. D., a cura di G. Dragonetti, Firenze 1886; Lettere di D. ad A. Papadopoli, in Carteggio letterario del conte A. Papadopoli, Venezia 1886, pp. 157-188; Atti del Parlamento delle Due Sicilie, a cura di E. Gentile, Bologna 1926-1931, ad Indicem; P. Castagna, Vita del marchese L. D., senatore del Regno, Firenze 1878; G. Ettorre, Il marchese L. D. nel carteggio politico e letterario con gli uomini illustri del sec. XIX, Aquila 1891; R. De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello 1908, III, passim; G. Paladino, Il quindici maggio del 1848 a Napoli, Milano 1921, passim; N. D'Agostino, Il marchese L. D. nel Parlamento del 1820-21, in L'Abruzzo, III (1922), pp. 91-102; M. V. Gavotti, Il movimento murattiano dal 1850 al 1860 (Luciano Murat), Roma 1927, pp. 96, 102 ss.; F. Zerella, Un legittimista meridionale …, in Nuova Rivista storica, XXIV (1940), pp. 386-394; Id., Il pensiero neoguelfo di L. D., ibid., XXX (1946), pp. 91-110; C. Catalano, Il sen. march. L. D. de Torres, in Riv. abruzzese, II (1949), pp. 27-29; P. Collura, L'archivio Dragonetti-De Torres in Aquila, in Notizie degli Archivi di Stato, X (1950), pp. 135-142; F. Bartoccini, Il murattismo: speranze, timori e contrasti nella lotta per l'unità italiana, Milano 1959, ad Indicem; G. Berti, I democratici e l'iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962, ad Indicem; F. Zerella, L'ecclettismo francese e la cultura meridionale della prima metà del secolo XIX, Roma 1962, ad Indicem; C. Magni, Profilo dragonettiano, Padova 1966 (con ampia bibliogr.); R. Colapietra, Deputati abruzzesi ai Parlamenti delle Due Sicilie davanti ai problemi dell'agricoltura meridionale nella prima metà dell'Ottocento, in Convegno "Ignazio Rozzi e la storia dell'agricoltura meridionale" (Teramo... 1970), Teramo 1971, pp. 109-131; G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Roma-Bari 1973, ad Ind.; F. Tessitore, Aspetti del pensiero neoguelfo napoletano dopo il Sessanta, Napoli s.d., ad Ind.; G. Rivera, Memorie biografiche degli scrittori aquilani trapassati dal 1820 al 1893, Aquila 1898, pp. 76-88; R. Aurini, Diz. biobibliografico della gente d'Abruzzo, I, Teramo 1952, pp. 177 ss.