LANI (Botteghesi de' Lani), Luigi de'
Non si conosce la data di nascita di questo orafo e argentiere, forse pisano, attivo in Toscana, essenzialmente tra Firenze e Pisa, tra il 1614 e 1649.
La prima notizia a lui riferibile ne attesta la presenza a Pisa nel 1614, quale figlio dell'orafo Antonio di Martino Delano, con ogni probabilità nome italianizzato di Antoine Delanoue, il quale da Parigi - dove tra il 1546 e il 1632 sono censite almeno sei botteghe con maestri che rispondono a questo cognome a indicare una radicata tradizione familiare nel settore - si era trasferito in Italia, stabilendosi a Pisa sicuramente dal 1594. A questa data, infatti, sono attestati pagamenti a suo favore per opere eseguite sia per la corte medicea, sia per l'Opera metropolitana pisana. Il cognome Delano risulta poi ulteriormente trasformato per il L. in "de' Lani", e quindi in "de' Lani Botteghesi", grazie all'acquisizione di un secondo cognome mutuato dallo zio Giovanni Botteghesi, del quale tuttavia non si conosce il ruolo avuto nell'inserimento del L. nella comunità locale.
Stando alla ricca documentazione desunta dallo spoglio delle carte d'archivio dell'Opera del duomo di Pisa da Tanfani Centofanti (le cui Notizie edite nel 1897 rimangono ancora oggi alla base della ricostruzione dell'attività e della vita dell'orafo), il L. aveva rilevato la bottega paterna nel 1614, anno della morte di Antonio: in questa stessa bottega, presumibilmente, si era formato, acquisendo in eredità le commissioni già allogate al padre dall'Opera del duomo, comprese due grandi torciere, richiestegli nel maggio del 1613 e non ancora terminate al momento della sua morte.
Nei più tardi documenti pisani, tuttavia, il L. si dichiara "orefice in galeria di sua altezza serenissima" (Tanfani Centofanti, p. 337), lasciandoci immaginare un suo precoce trasferimento a Firenze, da dove avrebbe continuato a lavorare ancora e intensamente per l'Opera della primaziale di Pisa. Il fatto appare confermato da una perizia fatta dagli orafi fiorentini G.B. Cellerini, G.B. Allegrini e N. Bartolini su sette vasi di rame dorato per reliquie realizzati dal L. nel 1627, visionati e stimati in Galleria, ma destinati - come indica il documento - al duomo pisano.
A questa notizia, già resa nota da Tanfani Centofanti ma che ha continuato a sollevare perplessità tra gli studiosi sulla effettiva ubicazione della bottega del L., è possibile affiancare una nutrita serie di documenti fiorentini che senza ombra di dubbio chiariscono l'ampiezza e la continuità della sua attività nell'ambito dei laboratori di corte fiorentini, indicando parallelamente le fonti del suo stile, oltremodo evoluto e aggiornato.
Sicuramente nel 1623 il L. è già presente in Galleria quando esegue due vasi esagonali e lavora a un calamaio in commesso di pietre dure dell'abilissimo Iacopo di Gian Flach detto il Monnicca (Arch. di Stato di Firenze, Guardaroba mediceo, 385, cc. 32-33; 389, c. 146). Nel 1631 il suo nome ricompare per la realizzazione di una "coltella" per Cristina di Lorena eseguita sotto la direzione dell'architetto granducale Matteo Nigetti (Ibid., Mediceo del principato, 1839, c. 316). E ancora altri lavori sono menzionati tra il 1634 (Ibid., Guardaroba mediceo, 595, c. 3v) e il 1647 (ibid., 596, c. 47, dove si parla della consegna di un calamaio, di uno scaldaletto e di una sputacchiera). In questo ampio arco di tempo il L. intervenne tra l'altro, sempre su incarico della corte, nei lavori per il ciborio della basilica fiorentina di S. Lorenzo nel 1638 (ibid., 551, c. 52), per la legatura d'oro di una tazza di cristallo di monte del 1641 (ibid., 556, c. 44), per vari lavori su stipi e tavolini tra il 1643 e il 1646 (ibid., 599, c. 43), e per una navicella d'argento traforato nel 1643 (ibid., 556, c. 222v).
Sempre da Tanfani Centofanti si sa tuttavia che il L. ottenne la cittadinanza pisana "per partito dei Priori" il 5 dic. 1631, e indubbiamente negli anni Trenta e Quaranta i rapporti con Pisa, oltre a intensificarsi sotto forma di commissioni per il duomo, devono aver portato a un ritorno del L. in città, invertendo così i rapporti con la corte: il 16 genn. 1649 (data dell'ultima notizia che su di lui è stato possibile reperire), è infatti da Pisa che il L. inviò un conto a Firenze per il dovuto pagamento (Ibid., Mediceo del principato, 1473, c. 1132). Un ulteriore documento pisano, datato al 21 ott. 1648 e questa volta sotto forma di un inventario dei beni della "bottegha d'orefice posta in Pisa lungh'Arno" reso noto da Cantini Guidotti, confermerebbe già l'avvenuto trasferimento, benché alcuni passaggi lascino perplessi sull'identificazione del titolare della bottega stessa, che potrebbe non essere il L., ma suo fratello, Adriano Lani.
Lo stesso Adriano, a confermare secondo le consuetudini del tempo un'attività di tutta la famiglia e per più generazioni all'interno dello stesso ramo di attività, è infatti ugualmente ricordato come orafo; e anche in questo caso si conosce un documento sotto forma di inventario degli arredi e utensili della bottega che lo indica come attivo a Firenze in Galleria, in compagnia dell'orafo tedesco Tobia Scivett.
È comunque certo che, al di là della ricca attività svolta a favore della corte e di ciò che le carte d'archivio documentano, nel momento in cui la ricerca si sposta all'esame di ciò che è individuabile tra le opere ancora oggi conservate, è Pisa ad assumere un ruolo di assoluto rilievo. Per l'Opera del duomo della città, il L. partecipò con un ruolo di assoluto spicco, seppure coadiuvato dall'orafo Giovanni Zucchetti (anch'egli attivo tra Pisa e Firenze), all'impresa voluta nel corso del terzo decennio del Seicento dall'arcivescovo di Pisa Giuliano de' Medici e dall'"operaio" della cattedrale Curzio Ceoli, volta al generale riassetto e al rinnovamento dei vasi sacri destinati a conservare e ostentare l'importantissima raccolta di reliquie della chiesa metropolitana, in risposta al rinnovato culto promosso dal concilio di Trento e dalle disposizioni di Carlo Borromeo. In particolare furono in quest'occasione commissionati e realizzati nel 1628 dal L. ben diciassette reliquiari, a cui si aggiunsero nel 1631, come annota Ceoli, due vasi d'argento "con fogliami et manichi di arpie per tenere fiori sopra l'altare grande" fatti dal L. "orefice eccellentissimo" (Tanfani Centofanti, p. 338).
Al di là del lungo elenco nuovamente ricostruibile per via documentaria, il L. è sicuramente autore di un reliquiario a tempietto (con ogni probabilità da identificare proprio con uno di quei "vasi" valutati dagli orafi fiorentini Cellerini, Allegrini e Bartolini prima ricordati), di un ostensorio eseguito nel 1628 e del reliquiario del legno della Croce realizzato nel 1646, tutti conservati presso il Museo dell'Opera del duomo di Pisa e apprezzabili sia per la qualità del disegno d'insieme, sia, soprattutto, per la raffinatissima manifattura.
Rispetto al collega Zucchetti, in queste realizzazioni il L. sembra caratterizzarsi per "invenzioni più sontuose" (Capitanio), facilitato in questo dall'uso di materiali i più disparati e preziosi, in accordo al gusto del tempo: oro, argento, argento dorato, cristallo di rocca e ancora agate, diaspri, lapislazzuli e corniole. Di assoluto rilievo è poi nel gruppo il bellissimo ostensorio, tipologicamente rispondente a quanto raccomandato da Carlo Borromeo nelle sue Instructiones ma, ben oltre quanto documentano altri arredi sacri del periodo, arricchito da scene in rilievo poste sulla base, sul fusto e sul sostegno della teca, e da quattro angeli a tutto tondo, nell'uno e nell'altro caso a illustrazione della Passione di Cristo, vuoi con interventi istoriati vuoi con l'ostentazione degli strumenti simbolici tradizionalmente connessi al tema. In tutti questi interventi il L. mostra una notevole capacità nella traduzione plastica del progetto, con esiti che consentono di ricondurlo al gruppo dei più qualificati artefici del periodo.
Ignoti sono la data e il luogo della morte del L., benché egli avesse predisposto la sepoltura per sé e i suoi proprio nel Camposanto di Pisa, dove nel 1639 si curò di comporre il corpo di sua moglie, Benedetta de' Morandini (dalla quale aveva avuto tre figli: Giovanni Giuseppe, Caterina e Maria Maddalena), segnandone la presenza con una lapide (descritta da Tanfani Centofanti e oggi non più visibile) dove si ricordava come cittadino pisano e dove ricorreva l'arme della famiglia, con una botte (in riferimento al cognome Botteghesi) sormontata da un giglio.
Fonti e Bibl.: L. Tanfani Centofanti, Notizie di artisti tratte dai documenti pisani, Pisa 1897, pp. 336-342; R. Papini, Catalogo delle cose d'arte e di antichità d'Italia. Pisa, I, Roma 1912, pp. 171 s.; C. Baracchini, Il tesoro e le argenterie, in Il Museo dell'Opera del duomo a Pisa, a cura di G. De Angelis d'Ossat, Milano 1986, p. 119; G. Cantini Guidotti, Orafi in Toscana tra XV e XVIII secolo. Storie di uomini, di cose e di parole, II, Documenti, Firenze 1994, pp. 180-184; A. Capitanio, Arte orafa e Controriforma. La Toscana come crocevia, Livorno 2001, pp. 36, 54-56, 72; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXII, p. 354.