DA PORTO, Luigi (Alvise)
Nacque a Vicenza il 10 ag. 1485, in una nobile e potente famiglia, da Bernardino e da Elisabetta Savorgnan, sorella di quell'Antonio Savorgnan, cui è dedicata la raccolta delle Lettere storiche e che fu personaggio di spicco della nobiltà veneto-friulana al tempo della lega di Cambrai. Il D. ebbe due fratelli e due sorelle; perse il padre che era ancora bambino e fu così affidato, insieme con il fratello Bernardino, alle cure del nonno paterno Gabriele che pure morì negli ultimi anni del secolo. Nel testamento Gabriele affidò i due nipoti orfani alla moglie Lucia del Sasso con l'obbligo di educarli; insieme con lei cominciò a prendersi cura dei due ragazzi anche uno zio paterno, Francesco Da Porto. Per completare la propria istruzione ed educazione, il D., non ancora ventenne, fu mandato ad Urbino presso la corte fredericiana: i Da Porto erano imparentati con la famiglia di Elisabetta Gonzaga, duchessa di Urbino e il giovane D. poté seguire con ogni agio il proprio apprendistato cortigiano. Probabilmente fu alla corte ducale dal 1503 al 1505: nell'ottobre dello stesso anno infatti Pietro Bembo, che il D. aveva conosciuto ad Urbino e con il quale aveva stretto amicizia, gli inviò una copia degli Asolani a Vicenza (v. lettera del Bembo del 16 ott. 1505) dove quindi il D. era ritornato, probabilmente a causa della peste del 1505, che aveva colpito anche Urbino.
Pietro Bembo dimostrò sempre molto affetto verso il D.; gli dedicò due sonetti - di cui uno in morte del D. - che appunto testimoniano questo legame di stima intellettuale e morale. Possediamo anche dieci lettere del Bembo al D. - tutte raccolte nel III libro dell'epistolario bembiano -: in una del marzo del 1506, chiede all'amico di intervenire presso il vicentino G. G. Trissino per avere una medaglia, posseduta appunto dal Trissino, con l'effigie di Berenice Gambara, amata dal Bembo. Altre lettere giungono a confortare il D. in preda alla malinconia (15 dic. 1506) o a chiedere a Bernardino Da Porto notizie sulla salute del fratello (7 maggio 1529).
Quando il D. morì, Bembo lo ricorderà, ancora a Bernardino ed a altri amici, con parole commosse.
Dal 1506, dunque, il D. era nuovamente a Vicenza, dove iniziò a frequentare un circolo accademico-mondano a cui partecipavano tutti i nomi di maggior spicco della cultura e della nobiltà vicentina (cfr. Morsolin, 1878, pp. 15 s.). In questi anni conobbe anche Matteo Bandello che gli dedicherà una novella, la 23ª della III parte della sua raccolta. A questo periodo si riferirebbe, secondo alcuni, l'accenno autobiografico contenuto in due sonetti in cui si parla di un amore nato in verde età (Brognoligo, 1904, p. 22). Ancora da lettere del Bembo (del 25 maggio 1506 e del 16 dic. 1506) sappiamo che in quell'anno il D. era ai bagni di Abano con Antonia Gonzaga e che fu poi vittima di una breve malattia.
Il 19 maggio 1507 morì Lucia del Sasso e si procedette quindi alla divisione del patrimonio lasciato da Gabriele Da Porto al figlio Francesco e ai due nipoti orfani di Bernardino. Da quell'anno il D. andò a vivere presso un'altra zia paterna, Pietra Da Porto, anch'essa vedova, accanto cui egli visse le vicende della lega di Cambrai. Il 10 dic. 1508, Francia, Impero e Papato strinsero alleanza contro lo strapotere di Venezia in Italia: della guerra che per alcuni anni investì il Veneto e i dintorni, il D. fu testimone attento, curioso, prima di esserne direttamente partecipe. Proprio dal 1509 iniziò la stesura di quelle Lettere storiche, in cui vengono narrati momenti della guerra. Vicenza, città ricca e potente, è lungamente contesa da Imperiali e Veneziani: i Da Porto, che come si è detto vi occupavano un posto di rango, assieme ad altre famiglie nobili, mantennero in queste vicende una posizione ambigua. Il D. stesso, in due lettere, del 27 sett. 1509 e del 16 nov. 1509, afferma che la sua famiglia è portata ad obbedire a chi vince e a chi ha avuto in dono dalla sorte la loro terra.
D'altra parte le fonti storiografiche vicentine - a cui attingono i biografi del D. - forniscono spesso notizie incerte anche perché coinvolte nei contrasti che opponevano i maggiorenti della città: in quest'ottica va quindi letta l'accusa rivolta dal cronista Gregorio Amaseo, nella Historia della crudel Zobia grassa (cfr. l'ed. dei Diarii udinesi della R. Dep. di storia patria del Veneto, XII, 1884-85, p. 497), al D. che avrebbe aiutato lo zio Antonio Savorgnan ad uccidere due testimoni dell'agguato che il Savorgnan stesso aveva organizzato in Vicenza contro dei nemici personali, denunciati falsamente come agenti dell'esercito imperiale. Il Foligno, che riporta la fonte, ricorda come l'Amaseo appartenesse ad una famiglia in grande rivalità con i Savorgnan: d'altronde nessun'altra fonte riporta quest'accusa contro il Da Porto.
Nell'agosto del 1509 le truppe di Massimiliano occuparono Vicenza con violenze e saccheggi: le case dei Da Porto, come quelle di altre famiglie nobili, furono requisite per dare alloggio agli ufficiali occupanti, non divenendo così parte del bottino di guerra. Nonostante le dichiarazioni di lealtà all'imperatore, i Da Porto erano osservati con sospetto e controllati dagli Imperiali, soprattutto per i legami con i Savorgnan, famiglia friulana fedelissima alla causa di Venezia. Nel novembre del 1509, i Veneziani si impossessarono nuovamente della città e il D., schieratosi con i nuovi vincitori, fu invitato ad entrare nell'esercito della Repubblica dove ottenne il grado di comandante di una compagnia di cavalleria leggera. Nel gennaio del 1510 è a Lonigo, agli ordini di Leonardo Da Prato. Il comandante del campo è Nicolò Orsini: quando morirà, non molto tempo dopo l'arrivo del D., questi sarà tra coloro che ne porteranno il feretro a spalla.
Il 16 marzo 1510 il D. fu inviato in Friuli: la compagnia ai suoi ordini è raddoppiata per l'importante missione di frontiera, ma il D. si lamenta di essere allontanato da un campo più vicino al teatro della guerra, per vigilare su un territorio forse più tranquillo ma sconosciuto ed apparentemente inospitale (v. lettera del 16 giugno 1510). Dal Friuli compì vari viaggi ufficiali a Venezia: nell'aprile del 1510, poi nel settembre, per chiedere conferma dell'incarico, ed ancora nel marzo del 1511, per riferire delle operazioni di frontiera. Nel maggio di quell'anno, il campo fu spostato da Cividale a Gradisca. Tra la fine di agosto e i primi di settembre del 1510, intanto, aveva partecipato al suo primo fatto d'armi mostrando valore e coraggio (cfr. Mocenigo, liber III, p. 63 b) e facendo prigioniero un tedesco, chiamato nelle lettere Giorgino, che egli trattò con grande riguardo perché questi era amico o familiare della "degnissima sua nemica e donna", a cui è dedicata la lettera che narra il fatto. Questo personaggio femminile, di cui non è possibile ricostruire la precisa identità, sembra occupare, in questo periodo, la vita sentimentale del D.: di questo amore, contrastato e infelice per una donna che probabilmente ha altri legami, abbiamo testimonianze da una lettera del settembre 1510 e da alcuni sonetti.
Il secondo fatto d'armi cui il D. partecipò avvenne ai primi giorni del novembre 1510; è un'imboscata che i soldati di Venezia tendono agli Imperiali, in cui il D. dimostrò ancora astuzia e valore (Sanuto, IX, p. 642). Nel giugno del 1511, dopo lo spostamento del campo, il terzo scontro, quello che porrà fine alla breve carriera militare del D.: nella notte tra il 18 e il 19, i soldati di Venezia affrontarono le milizie di Massimiliano presso il fiume Natisone. Ancora una volta la battaglia fu a favore dei Veneziani, ma un colpo di lancia ferì gravemente il D. alla gola (sull'avvenimento v. la lettera scritta dal letto di convalescenza dal D. al Bembo il 15 luglio 1511, in cui sono ricostruiti questi fatti, oltre alla testimonianza del Sanuto, XII, p. 261). In fin di vita, il D. fu portato prima ad Udine per le prime cure, poi a Venezia dove inizierà la lenta ed incompleta guarigione. Le varie lesioni riportate in quell'occasione lo renderanno menomato per tutta la vita. Durante questo periodo di cure e di convalescenza, le testimonianze delle lettere si interrompono (esattamente tra l'agosto dell'11 e il febbraio del '12). Terminato il lungo periodo d'infermità, il D. fu costretto a rimanere a Venezia, dove venne raggiunto dal fratello Bernardino e dalla zia Pietra, perché nel frattempo, il 24 maggio 1510, Vicenza era nuovamente caduta in mano agli Imperiali che questa volta decretarono la confisca di tutti i beni dei Da Porto. La permanenza a Venezia durò fino al 1517; quando Vicenza fu nuovamente tolta a Massimiliano, i Da Porto poterono tornare nella loro città, col beneficio di una serie di privilegi che la Repubblica di Venezia concesse per la fedeltà dimostrata: questi privilegi provocarono risentimenti e rivalità presso altre potenti famiglie vicentine non beneficiate nello stesso modo (v., in proposito, Morsolin, 1878, p. 98). Girolamo Da Porto, autore di una biografia del suo avo, parla di cariche pubbliche nella sua città, mentre il Sanuto ne fa un rappresentante del governo di Venezia a Vicenza (v., in proposito, Brognoligo, 1904, p. 53), ma mancano notizie precise in proposito. Sappiamo invece che il D. ebbe la carica di vicario di Arzignano nel 1522 e seguì con fervore l'annoso problema delle fortificazioni di Vicenza (v. lettera ad Agostino Abondio dell'11 apr. 1528).
Il soggiorno in città fu alternato con quello nella villa di Montorso, non lontana da Vicenza, a cui sono dedicati numerosi sonetti. Il D. si recò più volte ai bagni di Abano, dove incontrò quella "donna bionda" di cui parla nei propri versi e con cui probabilmente si legò sentimentalmente. Ancora dai sonetti ricaviamo l'accenno ad un viaggio a Roma. Nel maggio del 1529, la salute del D., che è descritta, dal momento del ferimento, sempre malferma, peggiorò per le febbri maligne di cui parla il Bembo a Bernardino in una lettera del 7 maggio.
Il 10 maggio 1529 il D. morì a Vicenza e fu sepolto nella chiesa di S. Corona, nella cappella fatta erigere da Pietra Da Porto. La biografia di Girolamo Da Porto indicava la sepoltura nella chiesa di S. Lorenzo, ma il Brognoligo lo smentisce, indicando, in modo persuasivo, quest'altra collocazione.
L'attività letteraria del D., tipico personaggio di uomo di corte vissuto tra occupazioni militari e ozi umanistici, sembra essersi svolta tutta negli anni successivi al ferimento e al ritorno a Vicenza. Alcune fonti (Milan, Da Porto) gli attribuiscono molti scritti, ma in realtà ci sono pervenute soltanto le raccolte delle Lettere storiche, dei versi, e la novella di Giulietta e Romeo pubblicata col titolo Historia novellamente ritrovata dei due nobili amanti, con la loro pietosa morte intervenuta già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala.
Le Lettere storiche furono pubblicate parzialmente e senza indicazione del nome dell'autore dal Ruscelli, a Venezia, nel 1560-62 (v. Clough, 1963, p. 14): erano in mano a Pietro Bembo dalla morte del D. e, quando anche il Bembo morì, il figlio Torquato permise l'accesso alla biblioteca paterna al Ruscelli, che colse l'occasione per impadronirsi dei manoscritti del Da Porto. In seguito singole lettere furono pubblicate a più riprese, ma per la raccolta completa occorrerà attendere l'edizione di Venezia del 1832 e quella di Firenze del 1857. Tutte le lettere sono scritte, tra il 1509 e il 1528 e sono dedicate ad episodi riguardanti la guerra della lega di Cambrai e gli avvenimenti immediatamente successivi. Secondo il Clough (1963), sono la fonte principale della Historia viniziana di Pietro Bembo, edita a Venezia nel 1552, che si sarebbe soltanto limitato a riassumere la narrazione del Da Porto. In realtà, al di là del valore storico-documentario, le Lettere storiche sono un pregevole esempio di racconto in prima persona, di cui è protagonista un testimone, attento e curioso sia ai fatti propriamente storici e militari sia ai dati privati o geografici o sociologici che vengono puntualmente raccolti e narrati con estrema vivacità. Ma quello che rende più affascinante la lettura di questo testo è la disinvoltura con cui la descrizione della realtà è mescolata al puro piacere del racconto. La vena narrativa del D. penetra e scorre, all'interno dell'annotazione cronachistica come della descrizione di personaggi e di paesaggi, ma esce poi alla luce in tutta evidenza nelle storie esemplari incastonate nel fatto di cronaca, autentiche novelle nella lettera, scritte sul miglior registro del racconto di fatti memorabili che ispira i maggiori esempi della novellistica cinquecentesca e, soprattutto, un altro narratore settentrionale, Matteo Bandello, che, com'è noto, riprenderà dal D. il tema di Giulietta e Romeo. Le Lettere si aprono sullo scenario del campo militare veneziano che si appresta ad attaccare le truppe della lega. L'incendio dell'Arsenale e la comparsa di un lupo a Venezia introducono subito il motivo classico dell'evento prodigioso che presagisce sventure; ed infatti, dopo l'altrettanto classica rassegna dell'esercito veneziano, il D. descrive la sconfitta di Ghiaradadda. Segue l'occupazione di Vicenza da parte degli Imperiali e le prepotenze perpetrate sui Vicentini. Entrato a far parte dell'esercito veneziano, il D., nel 1510, è in Friuli e narra con stupore naif la scoperta di una terra che, prima ostile, si rivela via via ricca di curiosità ed interesse: la descrizione (del 25 giugno 1510) delle caratteristiche grotte carsiche deriva da un'osservazione meticolosa, con il gusto di una meraviglia un pò ingenua.
Il secondo libro della raccolta si apre con una introduzione che presenta le Lettere come testimonianze di fatti da ricordare "che la storia continuino: tuttoché dicano alcune cosette che sono fuori di lei". Questo della osservazione dei fatti memorabili è un topos della novellistica cinquecentesca (ad esempio, oltre al già citato Bandello, anche nei toscani Fortini e Grazzini) e nel D. appare come la prospettiva capace di unificare e dar senso ai due piani, del dato propriamente storico (per lo più storico-militare) e del "caso" da ricordare per eccezionalità ed esemplarità: appartengono a questo secondo esempio gli episodi del falsario bolognese (v. lettera del 12 marzo 1511) e di Martino Gradani "epiroto spacciatosi per friulano", autentico racconto di uno scambio d'identità che, pur riferito alla realtà, pare derivare direttamente dalla tradizione boccacciana. Va ricordato a tale proposito come la lettera del 6 febbr. 1512 fu pubblicata da G. B. Merlo, nel 1540, come novella, presso Marcolini a Venezia (cfr. Passano, p. 300).
L'ultima lettera della raccolta, poi, rafforza l'impressione della "letterarietà" degli scritti del D., narrando l'epidemia e la fame che si diffusero a Venezia agli inizi del 1528: ancora un topos narrativo che permette al D. di ricercare una scrittura intensamente espressiva; racconta di vicentini "ai quali ben vedi la fame dipinta nel volto, gli occhi che paiono anella senza gemme, i miseri corpi a cui le sole pelli informano le ossa". Proprio la felicità stilistica di molte pagine, oltre alla ricostruzione precisa dei fatti narrati, rende le Lettere storiche un'opera sostanzialmente omogenea, composta con un senso unitario, cui la forma epistolare - "indizio di senno" nel giudizio del Tommaseo nel Dizionario estetico - si adatta con effetto oggettivante e con la valenza affettiva del ricordo dei destinatari. La critica vi ha scorto una ricca presenza di elementi classici, da Virgilio (Flamini) a Dante (Brognoligo): è certo comunque trattarsi di un testo che, al di là delle dichiarazioni di antiletterarietà dell'autore (che lo avvicinano ancora al Bandello), si organizza con una precisa coscienza retorica e letteraria.
Tipico canzoniere petrarchista, la raccolta delle rime del D. comprende sessanta sonetti, dodici madrigali e una canzone. Tutti molto tradizionali nell'impianto metrico e lessicale, i componimenti ruotano attorno al tema fisso dell'amore infelice: dopo una prima serie di liriche che cantano la tristezza e la malinconia di un sentimento non corrisposto dalla donna amata, in altre, che occupano la seconda metà del canzoniere, si ricorda la donna ormai colta dalla morte, con accenti evidentemente petrarcheggianti. Infine il nascere di un nuovo amore viene salutato in alcuni sonetti finali che tuttavia non si distaccano dal generale accento di infelicità. Talora, accanto a quegli stereotipi lirici che il Bembo codificherà nel 1525 con le Prose, sono avvertibili presenze dantesche, là dove il lessico diviene meno lezioso e più teso in un ritmo riflessivo, rimanendo pur sempre oggetto di questa riflessione una visione pessimistica dell'inutilità della vita umana. A molti di questi componimenti si è voluto riconoscere un risvolto autobiografico da parte di alcuni studiosi del D., identificando, nelle figure femminili cantate, reali personaggi che si collocherebbero nel periodo della milizia in Friuli e in quello della vita mondano-culturale a Vicenza, dopo il 1521; ma in realtà nessuno giunge a dimostrazioni convincenti che possano dare un nome agli stereotipati oggetti d'amore dei sonetti e dei madrigali.
La novella, dedicata all'amore di Giulietta e Romeo, fu composta probabilmente attorno al 1524, poiché ad essa sembra alludere il Bembo in una lettera del 9 nov. 1524, in cui parla di un testo che il D. gli aveva mandato perché lo correggesse. La prima edizione fu presso Bendoni a Venezia, senza data, ma probabilmente del 1530-31 (Brognoligo); fu poi riedita nel 1535 e ancora da Marcolini nel 1539, ma questa volta in una versione riscritta sicuramente dall'autore prima di morire ed affidata a Bernardino che ne curò l'edizione marcoliniana. La seconda stesura della novella appare più concisa della prima e depurata di quanto poteva rallentare il ritmo narrativo: proprio in questa direzione si caratterizza il pathos del racconto che invece, nella successiva, più famosa ripresa bandelliana (che fornì poi il modello alla tragedia shakespeariana) si appesantisce di pleonasmi descrittivi e di enfasi oratoria. Pur se il Di Francia (p. 45) scorgeva il riaffiorare della vena petrarchesca nei dialoghi dei due innamorati, il D. riduce la dinamica della novella ad un serrato movimento di contrasti, di congiungimenti ed allontanamenti, di spostamenti non coordinati; sorgendo la tragedia proprio da ciò e precipitando il racconto verso il drammatico epilogo in veloci sequenze narrative, il climax della novella risulta teso quanto più la fabula è essenziale. La critica delle fonti si è a lungo occupata del problema della storicità dell'episodio di Giulietta e Romeo, che, ripreso da Dante (Purgatorio, IV) è collocato dal D. nella Verona di Bartolomeo Della Scala. L'autore dice di averne ascoltata la narrazione da un suo soldato, durante una cavalcata in Friuli (la novella raccontata durante un viaggio è ancora un topos della tradizione che muove da Boccaccio): ma questo artificio narrativo secondo alcuni (Todeschini, Brognoligo) nasconderebbe il ricordo autobiografico, proprio degli anni friulani, di un amore contrastato. Il tema, assieme a quello della morte apparente, è diffusissimo nella narrativa di tutti i tempi: la critica ha indicato probabili fonti in Priamo e Tisbe delle Metamorfosi ovidiane, nel Cligès di Chrétien de Troyes, nella novella IV del Decameròn, nel Dittamondo di Fazio degli Uberti, nel commento di Landino al luogo dantesco citato, nella novella di Ganozza e Mariotto (la XXXIII) di Masuccio Salernitano, nella Historietta amorosa che fu attribuita all'Alberti, in Paolo e Daria amanti di Gaspare Visconti. Il tema fu poi ripreso, oltre che dal Bandello (II, 9), da Gherardo Boldiero nella Clizia, poemetto in ottave, edito a Venezia nel 1553.
Ma al di là di questa ricerca delle fonti - estenuante perché il suggestivo tema della morte apparente pare prestarsi ed essersi prestato ai più diversi trattamenti narrativi - il testo del D. si rivela, dietro l'apparente semplicità architettonica, tanto abilmente costruito da confermare nell'autore quella precisa coscienza letteraria che pure affiora in altri testi. È questa che fa del D. uno scrittore-soldato che pare (altro luogo comune della critica) uscito da un manuale del comportamento: in lui la cultura non giunge all'erudizione né emerge in forme di organica costruzione intellettuale; sembra piuttosto essere intesa in termini strettamente pragmatici di chiave per l'appagamento di una nobile curiosità del mondo e della vita. Il tono poi costantemente malinconico, privo di enfatizzazioni e di esclamazioni, che pare improntare tutte le sue pagine, dà al personaggio un alone di cavalleresca mestizia (Guglielminetti ha parlato di temperie medievale) che lo fa parere incarnare, in chiave certo meno eroica, certi personaggi della stilizzazione manieristica.
Le Lettere storiche furono pubblicate integralmente per la prima volta a Venezia nel 1832; seguì l'edizione di Firenze, a cura di B. Bressau, del 1857. Delle rime c'è invece un'edizione del 1539, a Venezia, presso Marcolini, che le pubblicò, assieme alla novella col titolo Rime et prosa. La stessa edizione fu ristampata, a cura di M. Zorzi, a Venezia, con lo stesso titolo, nel 1731. Una nuova edizione si ebbe a Vicenza nel 1757. Ma sonetti del D. li troviamo anche raccolti in sillogi come Rime scelte di diversi autori, Venezia 1587 e Rime de' più illustri poeti italiani, Parigi 1731.
La novella fu pubblicata con il titolo Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, con la loro pietosa morte intervenuta già nella città di Verona nel tempo del signor Bartolomeo della Scala, senza data ma probabilmente nel 1531, a Venezia da Bindoni (il Canello la vuole prima della morte del D., ma non fornisce elementi convincenti); fu ristampata nella stessa edizione, nel 1535 ancora da Bindoni, mentre nel 1539 il Marcolini ne pubblicò una edizione molto rimaneggiata, per lo più resa maggiormente concisa (se ne può ricostruire la successione in B. Morsolin, 1889 e in C. Chiarini, Romeo e Giulietta, Firenze 1906).
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