ESTE, Luigi d'
Ultimogenito di Ercole II, duca di Ferrara, Reggio e Modena, e di Renata di Francia, nacque il 25 dic. 1538 a Ferrara. Secondo i rigidi schemi della ragione di Stato che consigliava i principi regnanti a consacrare alla Chiesa un individuo della famiglia, il destino dell'E. fu segnato fin dalla nascita, allorché il papa, su pressioni del duca Ercole, gli promise il conferimento di una importante dignità ecclesiastica. Il solenne suggello a questa promessa fu apposto il 24 apr. 1539, quando l'E. fu levato dal fonte battesimale in nome del pontefice Paolo III dal cardinale legato di Romagna G. M. Ciocchi Del Monte.
L'educazione dell'E., al pari di quella degli altri principi estensi, venne affidata, dietro consiglio di Celio Calcagnini, a Bartolomeo Ricci da Lugo, insigne filologo, retore, grammatico e profondo conoscitore della lingua greca e latina. Grazie alle sue cure l'E. imparò a conoscere ed amare i classici della letteratura, della poesia e del teatro. Come maestro di greco ebbe Francesco Porto, mentre l'astronomia e la filosofia morale gli vennero impartite da Giambattista Nicolucci, meglio noto come il Pigna. Quanto alja religione ebbe come maestro il gesuita francese Pelletier, inviato espressamente da Ignazio di Loyola. A compimento della sua educazione gli vennero insegnate, come voleva la consuetudine, la musica, la caccia, l'uso delle armi e l'equitazione.
Al periodo dei suoi studi risalgono la passione per la letteratura italiana, in specie per l'Ariosto e, in generale, per i poemi cavallereschi; per il teatro: ancora bambino partecipò alla messinscena degli Adelfi di Terenzio, allestita da G. Sinapio per celebrare l'arrivo in Ferrara di Paolo III; per la musica e per la caccia. L'esercizio del canto insieme con le sorelle, la lettura di libri preziosi e fantasiosi, pariglie di cavalli e mute di cani, falconi e leopardi ammaestrati, stocchi e corazze costituirono durante l'adolescenza il suo mondo prediletto.
Numerose sono le opere dedicate al giovane Este. B. Ricci scrisse per lui una Oratio pro T. Annio Milone e un'operetta morale intitolata De iudicio. Il vecchio e celebrato medico di corte Antonio Musa Brasavola gli dedicò un'opera di medicina, il filosofo bresciano Vincenzo Maggi, professore nello Studio ferrarese, gli inviò le prime copie di un suo commento latino sopra la Poetica di Aristotele. Lilio Gregorio Giraldi, al fine di soddisfare un quesito postogli dall'E. circa le pratiche venatorie dei Romani, scrisse De venatione accipitrum caeterarumque avium rapacium. Infine Giovan Battista Pigna gli dedicò un trattato sopra la poesia epica "comunemente detta delle battaglie" intitolata Iromanzi, che conteneva la prima biografia dell'Ariosto e tesseva l'elogio della lingua volgare.
Il 1° maggio del 1550 un breve di Giulio III autorizzava il cardinale G. Salviati a rinunciare al vescovato di Ferrara in favore dell'E., il quale ne avrebbe preso possesso solo dopo la sua morte. La dispensa venne rinnovata dallo stesso pontefice con un altro breve del 28 maggio del 1551. Morto il Salviati nell'ottobre del 1553, la successione dell'E. fu ratificata con breve del 3 marzo 1554. In considerazione della sua giovane età, l'E. venne dichiarato legittimo amministratore e commendatario perpetuo della Chiesa fino ai venticinque anni, e fu perciò affiancato da due coadiutori, il conte N. Tassoni e il vescovo di Comacchio A. Rossetti, il primo in qualità di amministratore delle cose temporali, il secondo delle spirituali. Il 12 nov. 1553, con solenni festeggiamenti, l'E. prese ufficialmente possesso della Chiesa ferrarese.
Educato secondo i principi mondani della Rinascenza, profondamente influenzato dall'ambiente culturale ed artistico di una delle corti che meglio rappresentava quegli ideali, stimolato dalle idee innovatrici e riformatrici in campo religioso, filosofico e scientifico, apprese nella cerchia materna, l'E. sviluppò una personalità aliena dagli attributi che pure si richiedevano a un prelato rinascimentale. Il suo tenore di vita gli valse i ripetuti rimproveri degli istitutori e dei parenti, in specie del potente zio, il cardinale Ippolito, che molto sperava in lui in previsione di un consolidamento degli interessi estensi in seno alla Chiesa. Dotato di un carattere orgoglioso e indipendente, l'E. oppose sempre resistenza a quanti vollero costringerlo ad assumere una condotta di vita più adeguata alla dignità rìvestita, in ciò spinto probabilmente anche dai consigli della madre, che prospettava per lui la successione nei suoi domini francesi e che più volte s'adoprò per procurargli un partito adeguato.
Negli anni seguenti l'E. fu sempre al centro della vita mondana ferrarese, fautore della poesia e delle arti, brillante conversatore, amato dalle donne, altero con i suoi pari, munifico e liberale. Favorì uomini illustri ma anche lestofanti e millantatorì, come l'avventufiero Scipione di Castro da lui accolto generosamente, nonostante i suoi trascorsi. La profonda liberalità portò l'E. a far suoi i casi più disperatì e in più di un'occasione interpose la sua autorità per ottenere la liberazione di amici o semplici servitori, come nel caso del bolognese Giovanni Pepoli, condannato a morte per fellonia da papa Sisto V. Agli occhi della corte estense l'E. incarnò gli ideali della nobiltà e della cavalleria, facendo accorrere attorno a sé i giovani più eletti per ingegno e natali.
Nel 1556, allettato dalle profferte del cardinale di Trento L. Madruzzo che intendeva controbilanciare la politica antimperiale del duca Ercole, l'E. partì nascostamente alla volta della Spagna, per andare a servire il re Filippo II. Alla luce dei documenti non si può affermare che egli comprendesse del tutto la gravità del suo gesto, sul quale certo influirono le strettezze economiche in cui si trovava per la meschina provvigione assegnatali.
Scopertasi la trama, l'E. venne fermato nei pressi di Mantova, ricondotto a Ferrara il 12 nov. 1556 e rinchiuso in castello, per ordine del duca Ercole, fino al gennaio del 1557. Liberato anche per le pressioni esercitate dal re di Francia, l'E. fu posto dal padre sotto stretta sorveglianza e al contempo lusingato con la donazione, fattagli dal re, di due abbazie del valore di 6.000 scudi d'entrata e dalla promessa del papa di concedergli il cappello cardinalizio alla prossima promozione. Non passò molto tempo che i rapporti con il duca e lo zio cardinale tornarono a peggiorare. Deluso, dopo esser stato allettato dall'idea del matrimonio con una figlia di Cosimo de' Medici, l'E. divenne sempre più insofferente nei confronti di chi lo esortava a dedicarsi alla Chiesa e irritato dall'impotenza di chi non riusciva a soddisfare i suoi desideri. Si risolse perciò a partire alla volta della Francia, forte delle commendizie inviate dalla madre ad Enrico II. Lasciò Ferrara, all'insaputa di Ercole II, il 13 luglio del 1558. Raggiunto il fratello Alfonso nei pressi di Edolo, il 9 agosto giunse a Parigi. Nipote di Luigi XII, cugino per parte materna del, re Enrico II, cognato del potente duca di Guisa, marito di Anna d'Este, fu accolto nella corte francese come parente piuttosto che come principe italiano.
Nel maggio del 1559 l'E. fu inviato assieme al cardinale di Lorena a Bruxelles, nella delìcata mìssione che aveva lo scopo di definire le modalità della pace con gli Spagnoli, poi conclusa a Cateau-Cambrésis. In seguito, di fronte ai ripetuti inviti del fratello Alfonso, divenuto nel frattempo duca per la morte di Ercole II, a fáre ritorno in Italia, l'E. oppose una tenace resistenza, spinto anche dalla allettante prospettiva di matrimonio con la ricchissima Maria di Borbone, contessa di Saint-Paul, pratica che fu favorita per diversi motivi sia dalla madre Renata sia dai Guisa. Alla fine, sollecitato dalle profferte dello zio e del fratello, che erano riusciti ad ottenere dal papa la promessa formale del conferimento della porpora, e per le pressioni della corte francese, alla quale premeva avere un proprio partigiano nel S. Collegio, acconsentì a fare ritorno in Italia.
Nel maggio del 1560 giunse a Ferrara, dove il 18 giugno ricevette una lettera autografa con la quale Pio IV lo assicurava della promozione al cardinalato. Questa avvenne nel concistoro del 26 febbr. 1561. L'E. assunse il titolo diaconale di Ss. Nereo ed Achilleo.
Ricco di benefici ecclesiastici - nel 1560 aveva avuto in commenda la pieve del Bondeno e l'abbazia di Pomposa, giuspatronati di casa d'Este - l'E. non volle mai ordinarsi prete, restando semplicemente diacono. Il 22 ott. 1563 gli fu permutato il titolo con quello di S. Lucia in Silice, a sua volta resegnato il 31 luglio del 1577 in cambio della diaconia di S. Angelo. Vacato infine il titolo di S. Maria in via Lata, ne entrò in possesso il 19 dic. 1583.
Nel 1563 fu avviata, per interessamento del pontefice e del cardinale M. S. Altemps, la trattativa per il passaggio dell'arcivescovato d'Auch dallo zio Ippolito all'Este. Questa pratica fu accolta negativamente negli ambienti conciliari allora impegnati nella riforma degli abusi ecclesiastici. Per quanto il legato pontificio a Trento, cardinale G. Morone, esortasse il giovane E. a perseverare nel governo dei suo vescovato di Ferrara per non alimentare le critiche dei prelati e degli ambasciatori francesi, alla fine prevalse l'autorità del papa.
Il ricco e prestigioso arcivescovato d'Auch gli fu conferito nella XXXV sessione del concilio tridentino; l'E. conservò comunque tutti i benefici del vescovato di Ferrara, impegnandosi a dare una pensione di 1.000 scudi al suo successore Alfonso Rossetti. In qualità di vicario generale del nuovo arcivescovato, nello spirituale come nel temporale, l'E. scelse il dottore in utroque e abate commendatario di Sainte-Croix de Bordeaux, Giulio Salvati. In seguito all'esecutorietà dell'editto di Orléans, che toglieva al papa ogni influenza sui beni ecclesiastici francesi. il titolo fu conferito ufficialmente all'E. per nomina regia nello stesso anno.
Negli anni che seguirono l'E. attese con cura alla complessa amministrazione del suo patrimonio che comprendeva tra l'altro i palazzi ferraresi del Paradiso e dei Diamanti e il vasto tenimento di Sabbioncello. Nel 1567, volendo adempiere alle ultime volontà del padre, fece terminare i lavori nel palazzo dei Diamanti: risale infatti a quell'anno la sistemazione delle caratteristiche facciate da cui prese il nome. In quello stesso anno l'altro palazzo di proprietà dell'E. fu ceduto in affitto all'università, che ne entrò definitivamente in possesso nel 1586. Particolarmente devoto ai gesuiti, l'E. favorì lo stabilimento dell'Ordine a Ferrara, ponendo personalmente la pietra angolare della chiesa del Gesù nel 1570. Nel contempo coltivò con entusiasmo le arti della musica, della poesia, della letteratura e del teatro, facendo convergere su di sé le speranze di molti artisti e letterati. In suo onore fu rappresentata l'11 febbr. 1561, nel palazzo di Schifanoia, il dramma pastorale di Alberto Lollio, l'Aretusa, e qualche anno dopo, nel 1567, un'altra pastorale, Lo sfortunato di Agostino Argenti.
In quel periodo fu agli stipendi del cardinale il poeta ferrarese Silvio Antoniano detto il Poetino. Nel 1562 fu per alcuni mesi al servizio dell'E. il padre di Torquato Tasso, Bernardo, allogatosi presso quella corte con il principale scopo di preparare l'accettazione del figlio. A tal fine fece comporre al giovanissimo Torquato il Rinaldo, pubblicato a Venezia nel 1562, sicuramente con un largo contributo dell'E., del quale il poema esalta le virtù cavalleresche, la giovane età, la magnificenza e liberalità. In seguito però il poeta ebbe a lamentarsi dell'avarizia del cardinale, sino ad abbandonarne il servizio, nel 1571, per passare a quello del duca Alfonso. Meno credibile sembra invece che tra loro fossero insorti dissidi di natura religiosa, come il Tasso affermò in una lettera a Giacomo Boncompagni del 1580. L'E. comunque incoraggiò il Tasso alla composizione della Gerusalemme liberata, lo incaricò di una missione in Francia e nel 1578 lo raccomandò alla corte di Savoia. Il Tasso a sua volta ricambiò dedicando all'E. molte rime e un ultimo segno d'affetto per l'antico protettore fu l'orazione da lui scritta, su richiesta di Gasparo Pignata, per celebrame la scomparsa nel 1586; l'opera tuttavia non compare nella raccolta di elogi funebri in onore dell'E. stampata a Padova nel 1587.
Nel 1563 l'E. giunse a Roma per ricevere il cappello cardinalizio dal papa. In quella occasione furono saldati i rapporti con la nobiltà romana e la corte pontificia, la quale rimase favorevolmente colpita dalla sua "cortesia straordinaria et quasi universale". A turbare i rapporti con il papa intervenne nell'ottobre del 1563 un grave incidente tra alcuni palafrenieri dell'E. e gli ufficiali dei bargello.
L'offesa arrecata dai suoi famigliari all'autorità del papa, di cui peraltro l'E. si era assunto la piena responsabilità, cadeva in un momento delicato nei rapporti tra il S. Collegio e il papa. Infatti era ancora fresca l'emozione suscitata per l'impiccagione del cardinale C. Carafa che aveva segnato l'accrescimento del potere papale e il restringimento delle prerogative dei cardinali e dei baroni.
Pio IV non intese perciò soprassedere all'affronto subito, da lui giudicato il più grave del suo pontificato. Convocò d'urgenza un concistoro intimando al cardinale di presentarsi al suo cospetto con la segreta intenzione di farlo poi tradurre in Castello. L'E., memore di quanto era accaduto al Carafa, aveva nel frattempo abbandonato la città trovando rifugio nella villa di Tivoli. Fu quindi raggiunto da un monitorio pontificio che gli ordinava di trattenersi nella sua casa "in luogo di prigione" sotto pena di 100.000 scudi e la privazione dei benefici ecclesiastici. L'aiuto del cardinale E. Gonzaga e forse del Borromeo contribuirono a svuotare di contenuto la condanna, la cui singolare durezza, come risulta dai documenti, era stata dettata anche dagli interessati suggerimenti del duca di Firenze e del cardinale Farnese, tradizionali avversari di casa d'Este. L'8 genn. 1564 l'Efece ritorno a Ferrara, ove rimase fino al novembre dell'anno successivo.
Il 20 nov. 1565 si recò a Trento, insieme col cardinale G. da Correggio e ad un folto corteggio di gentiluomini ferraresi per ricevere l'arciduchessa d'Austria Barbara, destinata in sposa al duca. Il 19 dicembre dello stesso anno prese parte insieme con lo zio Ippolito al conclave indetto dopo la morte di Pio IV. In quell'occasione i due cardinali estensi cercarono di neutralizzare con ogni mezzo l'elezione di un papa favorevole agli Spagnoli.
In questa opera si distinse particolarmente il giovane E. anche per l'improvvisa indisposizione che aveva costretto lo zio a letto. In un primo momento egli mirò con successo all'esclusione del cardinale Morone, favorito dei Borromeo e del partito filospagnolo, riuscendo a coagulare contro la sua nomina ben ventuno voti contro i diciotto bastanti. Si prodigò poi per escludere un altro candidato del Borromeo, il cardinale Michele Ghislieri, facendo propalare la voce che questi era stato designato da Filippo II in persona, notizia che suscitò un moto d'orgoglio in seno al S. Collegio e che portò per un momento al congelamento della candidatura. Infine però fu costretto ad accettare la nomina del Ghislieri, che votò, in nome anche del congiunto ammalato, il 7 genn. 1566.
A partire dal 1566 l'E. fece trattare dai suoi agenti in Francia la successione ai benefici posseduti dallo zio. Questo maneggio, avviato all'insaputa di Ippolito, fu all'origine di una lite protrattasi per alcuni anni, cui il duca Alfonso cercò di porre rimedio, richiamando il cardinale di Ferrara, così detto per distinguerlo dal nipote, ai superiori interessi della casa. Nel 1571, forte dell'aiuto del cardinale di Lorena, l'E. chiese ed. ottenne dal re di Francia di succedere allo zio nell'ufficio di protettore di quella Corona in Roma, ottenendone altresì una lettera commendatizia al papa per lo spoglio dei benefici francesi.
Motivi d'attrito non mancarono anche con il fratello Alfonso, originati principalmente da questioni finanziarie. Già dal tempo del testamento di Ercole II l'E. aveva denunciato come "poca cosa" la parte di eredità assegnatagli, tacciando il fratello di avarizia. Un segno manifesto dei clima di sospetto che regnava tra i due è l'obbligo, che l'E. fece sottoscrivere ai suoi famigliari, di non andare a servire il duca senza il suo permesso, provvedimento che ben presto adottò anche Alfonso. Ad aumentare le tensioni contribuirono spesso le voci fatte circolare dai loro segretari, come quella propalata a Venezia dall'ambasciatore estense G. Faletti, che voleva il cardinale artefice di un complotto contro il duca, in combutta con Cosimo de' Medici.
Il 19 genn. 1571, accompagnato da una corte tutta laica e militare, l'E. si recò per la seconda volta in Francia. Lo scopo principale, e allora segreto, di questo suo secondo viaggio era la trattativa, già avviata, per lo spoglio dei suoi benefici ecclesiastici nel Regno, consistentì, oltre all'arcivescovato d'Auch, in undici abbazie. Giunse a Parigi il 10 febbraio e fu accolto con rinnovati onori dai più alti esponenti della corte.
L'azione svolta dall'E., mirante a contrastare l'influenza dei partito ugonotto in seno alla corte, fu molto apprezzata dal nunzio che se ne compiacque direttamente con il pontefice. Al ruolo che l'E. assunse di paladino della fede cattolica contribuì peraltro la stretta parentela che lo legava ai Guisa, i quali non mancarono mai di fornirgli il necessario appoggio nella questione dei benefici.
Nell'aprile del 1571 le difficoltà finanziarie obbligarono l'E. ad assottigliare la sua corte, anche se ciò non significò la riduzione del suo tenore di vita. La prodigalità e la munificenza dell'E. destarono l'ammirazione della corte francese che contraccambiò tale generosità organizzando in suo onore feste, cacce al cervo e spettacoli teatrali. Fu in uno di questi spettacoli che l'E. incontrò i famosi comici Gelosi, ai quali poco tempo dopo fu affidata la messa in scena dell'Aminta di Torquato Tasso. "Ghiotto di maschere" lo dicevano i contemporanei, riferendosi alla sua passione per i travestimenti e al suo mecenatismo verso i comici italiani che in buon numero si recarono in Francia durante il suo soggiorno: tra questi il Sanassa., il Soldino, il Tabarinno e la compagnia dei Confidenti.
Nel maggio del 1572 l'E. fu obbligato a lasciare Parigi per la morte di Pio V. Non prese tuttavia parte al conclave, che si tenne mentre era ancora in viaggio per Roma. Dopo una breve sosta a Ferrara si recò a Roma nel giugno del 1572 per rendere omaggio al nuovo pontefice. Gregorio XIII accolse l'E. con segni d'affetto e di stima, palesandogli persino l'intenzione, stando a un avviso del 18 giugno, di concedergli in moglie una sua nipote, pratica che comunque non ebbe esito. Nell'agosto dello stesso anno l'E. portò tra i primi al pontefice la notizia dell'eccidio degli ugonotti a Parigi.
Il 30 nov. 1572 l'E. riuscì a strappare al morente Ippolito d'Este un testamento assai favorevole. Le ultime volontà del cardinale di Ferrara lasciarono infatti l'E. ed Alfonso credi universali in parti uguali del patrimonio; al primo andarono inoltre le ville di Tivoli, quella romana di Montecavallo e il palazzo di Montegiordano.
Il 23 febbr. 1573 l'E. ottenne dal re di Francia il mandato con il quale gli veniva assegnato il titolo di protettore della Corona presso la corte pontificia e garantito il conferimento dei benefici ecclesiastici francesi. Da Gregorio XIII gli venne parimenti conferita la carica di governatore di Tivoli.
Tornato a Ferrara nel marzo del 1573, assistette insieme al fratello alla prima rappresentazione dell'Aminta. Presenziò poi ai funerali di Laura Eustochia, madre di Cesare, futuro duca di Modena. Rappacificatosi con l'amatìssima sorella Leonora, si preparò ad un nuovo viaggio in Francia, questa volta dettato anche da ragioni dinastiche.
Sul Ducato estense pendeva infatti la bolla promulgata da Pio V sulla devoluzione dei feudi ecclesiastici all'estinguersi della linea legittìma degli investiti (1567), resa minacciosa dalla mancanza di eredi da parte di Alfonso. Di fronte a questa delicata situazione l'unica via praticabile dalla casata estense, per conservare Ferrara, era quella di "farsi grande" con l'acquisizione del titolo imperiale di Granducato o con la investitura di qualche regno minore. Sfumata la prima alternativa, agli Estensi non restava che sperare negli avvenimenti. L'occasione propizia parve venire con l'estinzione degli jagelloni e la conseguente vacanza della corona polacca. L'E., consapevole della posta in gioco, esortò il fratello, come scriveva l'ambasciatore veneziano Emiliano Manolesso, "a entrare nella pratica di Polonia", con la garanzia delle potenti amicizie francesi.
Il viaggio dell'E. a Parigi, dove giunse il 16 ag. 1573, fu però inutile, poiché l'inaspettata elezione al trono di Polonia di Enrico d'Angiò fece naufragare l'ambizioso progetto. Enrico e la corte francese non acconsentirono in alcun modo a che il duca Alfonso o chi per lui "ingarbugliassero le cose di Polonia" e l'E. fu costretto a interrompere ogni negoziato.
Fallimentare parimenti si rivelò l'azione svolta dall'E. per garantire gli interessi della S. Sede in Polonia. Il nuovo sovrano avrebbe dovuto prestare giuramento a una Confederazione costituitasi a Varsavia che comprendeva anche i protestanti: un atto che costituiva un pesante condizionamento delle prerogative romane. Di qui gli sforzi dell'E. per scongiurare questo pericolo. La condotta a dir poco prudente assunta in quella circostanza dal delegato pontificio, il vescovo di Poznaii A. Conarski, intimorito dalle possibili rappresaglie dei protestanti, impedì ogni possibile successo.
Nell'agosto del 1573 il papa fece pressioni sul nunzio Salviati perché invitasse l'E. ad opporsi con ogni mezzo all'infiltrazione ugonotta ad Avignone. Sempre in questa occasione l'E., forte dell'ascendente che godeva sulla corte, limitò al massimo il pericolo della perdita del Contado venassino, guadagnandosi il plauso di Gregorio XIII. In seguito l'E. perorò la causa della lega tra Francia e Spagna contro i ribelli ugonotti, riuscendo ad attenuare le simpatie della regina madre per la lega protestante anglo-ugonotta-gerrnanica e sottoscrisse la proposta avanzata da alcuni prelati francesi di alienare parte dei benefici ecclesiastici per far fronte ai debitì che gravavano su quella Chiesa.
Il 19 giugno del 1575 moriva Renata senza che l'E. potesse assisterla. Il testamento della vecchia duchessa gli lasciava la scelta di uno dei suoi castelli di Gisors, Vernon e Gyen, più 2.000 scudi d'oro di rendita. Alfonso, che pure aveva ereditato il ducato di Chartres, vedeva svanire la successione nei feudi di Francia, andati al fratello e alla sorella Anna. Per questo motivo il duca infirmò di nullità il testamento dando origine a una lite con l'Este. Per sedare il dissidio si ricorse, inizialmente, al duca di Parma, poi al papa e infine al tribunale della Sacra Rota e solo nel maggio del 1580 i due fratelli si riconciliarono definitivamente.
L'ultimo incarico svolto dall'E. presso la corte francese fu quello di accompagnare la vedova di Carlo IX, Elisabetta d'Austria, fino al confine con i domini asburgici. L'E. partì dalla Francia alla fine del 1576 e non vi fece più ritorno. Tornato in Italia, si trattenne prevalentemente a Roma e nella sua villa di Tivoli. Durante questo periodo egli consolido definitivamente la sua prestigiosa posizione in seno al S. Collegio. Riconfermato da Enrico III nella carica di Protettore della Corona francese, fu posto a capo della congregazione del Cerimoniale.
In numerose occasioni Gregorio XIII gli manifestò il suo favore. I rapporti fra i due furono però turbati nel giugno del 1580 da una ripetizione nella forma e nella sostanza dell'incidente che pochi anni prima aveva visto opposti i suoi famigliari alle guardie del bargello. LE., che aveva acquistato il favore dei baroni romani, in specie del duca di Bracciano Paolo Giordano Orsini, e aveva vieppiù accentuato la sua posizione contro la politica accentratrice della Curia, s'assunse nuovamente la responsabilità dell'accaduto e, sebbene il papa si risolvesse ad espellerlo dallo Stato pontificio, dovette ben presto ritornare sui propri passi, ritirando il provvedimento, per le pressioni esercitate dagli ambasciatori francesi.
L'E., insieme con altri due potenti cardinali del tempo, A. Farnese e F. de' Medici, veniva indicato tra coloro che "dant lumen in Curia". La sua rendita, che si quadruplicò dopo la morte dello zio Ippolito, era inferiore solo a quella del cardinale A. Farnese. Le rendite in Italia e in Francia gli fruttavano complessivamente circa 96.000 scudi d'oro, ricchezza veramente straordinaria per quei tempi. Spendeva il suo denaro in viaggi, in giochi, in donativi sontuosi alle corti di Francia e di Roma, in beneficenza, aiutando tra gli altri anche il povero cardinale St. Osio. Negli anni 1577 e 1578 si trattenne in Roma con un seguito di trecentoquarantanove persone, acquistando per due terzi il palazzo Orsini a Montegiordano. Decorò con preziose pitture e marmi pregiati la sua residenza di Montecavallo. A Tivoli fece ultimare i lavori della Rometta, della Civetta, della rupe di Pegaso e fece sistemare i giardini all'uso rinascimentale. Incaricò Claude Venard della costruzione del celebre organo ad acqua, il primo di tal fatta in Italia. Sempre all'E. sì devono la costruzione della fontana della Girandola ed altre meraviglie idrauliche.
Famosa fu la sua ospitalità. Nella villa di Tivoli, soprannominata albergo dell'Aquila bianca, ospitò il duca Guglielmo Gonzaga (1572), l'ambasciatore francese de La Roche, il duca di Nevers e Giulio Cesare Colonna (1573), il principe di Baviera e il cardinale di Santa Severina (1574), il cardinale Alessandro Farnese (1578), l'ambasciatore dì Russia, i cardinali Colonna, Medici e Santacroce (1581) e il duca di Brunswick (1582). La dimora di Montegiordano s'aprì al duca di Nevers e al gran maestro dell'Ordine di Malta (1580), Giovanni Levesque de la Cassière, venuto a Roma accompagnato da un ingentissimo corteggio di gentiluomini e cavalieri, tutti indistintamente accolti dall'Este.
Non minor lustro gli derivò dalla corte di cui si circondò negli ultimi anni della sua vita. Tra gli ammessi alla mensa del cardinale figurano il conte Ercole Tassoni, suo luogotenente nel governo di Tivoli, l'esule Uberto Foglietta, insigne storiografo e principale membro dell'Accademia degli Agevoli fondata nella villa tiburtina, il filosofo Flaminio Nobili, Silvio Antoniano detto il Poetino, l'incisore francese Stefano Duperac, Antonio Montecatini, lettore di filosofia e di astrologia all'università di Ferrara, Girolamo Giglioli, poi cameriere di spada di Clemente VIII e Paolo V, Benedetto Manzuoli, filosofo e suo fedele segretario, l'erudito, filosofo e giureconsulto francese Marc-Antoine Muret, Francesco Portinari, già maestro di cappella di Ippolito II, Luca Marenzio "il principe dei madrigalisti", entrato al servizio dell'E. il 1° ag. 1578, che gli dedicò la sua prima opera a stampa, il Primo libro dei madrigali a 5 voci.
Tra il 1579 e il 1586 l'E. fu in contatto con lo scienziato, inventore e filosofo Giovanbattista Della Porta. Nel 1580, accettando l'invito rivoltogli dall'E., questi si recò a Roma, dove risiedette per qualche tempo presso la sua corte senza alcun obbligo di servitù. Discretamente provvigionato, il Della Porta mantenne sempre informato l'E. sugli esiti delle proprie ricerche ed esperinienti come si ricava dalla fitta corrispondenza che intercorse tra i due. In segno di riconoscenza per l'ospitalità ricevuta e per l'appoggio morale e finanziario alle sue investigazioni, gli dedicò l'opera intitolata Della celeste fisionomia e più tardi il suo principale lavoro, il De Magia naturalis (seconda edizione).
Durante questi anni l'E. accentuò la cura del governo di Tivoli, ove lasciò la fama di principe magnanimo e pio. Fece fortificare le mura cittadine, restaurare ponti e strade; istituì nel 1586 la duplice fiera del 4 aprile e del 4 ottobre. Riordinò nel 1581 l'istituto del giudice sediale, emanò provvedimenti sui maestri di strada, sulle offese con le armi da fuoco e le codificò mantenendo le più rigorose sanzioni per i crimini fissate da Ippolito d'Este. Operò a favore delle confraternite cittadine, procurando larghe concessioni a quella del sacramento e incoraggiò l'Accademia degli Agevoli.
Attese con pari energia alla difesa degli interessi del Ducato ferrarese. Dopo aver svolto opera di mediazione nella vertenza tra Ferrara e Lucca, caldeggiò insieme al duca di Bracciano una lega tra il Ducato estense e quello mediceo, mirante a salvaguardare l'indipendenza degli Stati italiani dalle mene egemoniche degli Spagnoli. In questa direzione s'inserì la pratica avviata per dare in sposa a Cesare d'Este la figlia del granduca di Toscana. Virginia de' Medici.
Anche l'ultimo progetto matrimoniale dell'E. si collega alle esigenze della casata. Nel 1581 Alfonso, rimasto senza successione dopo tre matrimoni, si venne a trovare nella condizione di richiedere al fratello, in passato esortato ad intraprendere la carriera ecclesiastica, di sposarsi per evitare la cacciata degli Estensi da Ferrara. Il cardinale, che pure non dovette essere sfavorevole a questa idea, avanzò diverse riserve: lo stato precario della sua salute, la difficoltà di ottenere la dispensa dal pontefice, il danno economico che sarebbe derivato dimettendo l'abito ecclesiastico. Il netto rifiuto del papa a concedere le necessarie dispense pose però fine a questo estremo tentativo di evitare la devoluzione.
In qualità di protettore della Corona di Francia, l'E. difese con zelo gli interessi di quella nazione guadagnandosi la stima degli ambasciatori francesi e del sovrano. Scriveva l'ambasciatore De Pisany al re Enrico III che dinanzi al vacillante prestigio della Corona, molto scemato in Francia, e quasi nullo in Vaticano, la politica francese a Roma sarebbe stata poca cosa "se non fosse per il Sig. cardinale d'Este". E più tardi un altro ambasciatore, il Vivonne, ribadiva al sovrano che "la corona deve al cardinale d'Este tutto quello che si può da un buon parente e servitore" (De Bremond d'Ars, p. 160).
Nominato nel 1584 protettore dei canonici regolari di S. Giorgio in Alga e principe dei cardinali diaconi, l'E. disvelò il potere conquistato in seno al S. Collegio e le sue doti politiche in occasione del conclave che portò all'elezione di Sisto V. Indetto il 21 apr. 1585, diverse circostanze avevano contribuito ad attenuare il peso del partito francese, diviso al suo interno tra i lealisti e i favorevoli alla lega dei Guisa. Nonostante ciò l'E. riuscì ad impedire l'elezione dei candidati favorevoli alla Spagna e a promuovere invece quella del più neutrale e meno favorito Felice Peretti.
I rapporti con Sisto V, che pure in più di un'occasione manifestò la sua riconoscenza per il ruolo svolto dall'E., furono turbati dalle divergenze insorte in merito alle decisioni da prendersi nelle intricate vicende della guerra di religione in Francia.
L'E. si prodigò per evitare che il papa facesse proprie le ragioni della cosiddetta Lega cattolica, strumento dei Guisa e degli Spagnoli, mirando a salvaguardare l'indipendenza della Corona francese. L'inesperienza politica di Sisto V, unita ad una verace quanto ingenua volontà di difendere le prerogative papali e la fede cattolica, portarono a una brusca rottura con il cardinale d'Este. Le relazioni elaborate dall'E. in qualità di capo della congregazione sugli affari di Francia rimasero inascoltate. Di fronte alla sospettosità del papa a nulla valsero i consigli dell'E., che miravano da un lato a metterlo in guardia dagli ambiziosi progetti dei Guisa, i quali in nome della fede fomentavano la ribellione contro il re gettandolo nelle braccia degli ugonotti, e dall'altro ad avvertirlo che non tutti i cattolici erano schierati con la Lega ma che al contrario la maggior parte della nobiltà, degli impiegati di corte e dei prelati restava fedele al re.
Il punto più basso nelle relazioni tra l'E. e Sisto V fu toccato dopo che il pontefice ebbe approvati alcuni provvedimenti per fronteggiare la minaccìa ugonotta. L'E. in particolare si oppose sia alla sostituzione del nunzio pontificio in Francia sia alla bolla pubblicata il 21 Sett. 1585, con la quale si privava Enrico di Navarra di ogni titolo escludendolo dalla successione al trono. In seguito Sisto V fu però costretto a far propri i consigli dell'E., giudicando controproducente per le sorti del cattolicesimo in Francia una completa rottura con la Corona. Si giunse così a un compromesso tra la S. Sede e il sovrano francese, cui l'E. contribuì in maniera determinante, come risulta dalla fitta corrispondenza intercorsa con Enrico III e i suoi ministri.
Morì nella sua dimora romana di Montegiordano il 30 dic. 1586. Negli ultimi istanti aveva riaffermato la volontà di far seppellire il suo corpo a Tivoli, le viscere a Roma, nella chiesa di S. Luigi dei Francesi, e il suo cuore ad Aux.
Il 2 genn. 1587 si tennero a Roma le esequie. Pochi giorni dopo, il 12 gennaio, la salma venne traslata a Tivoli, dove fu celebrata una pubblica commemorazione, nella quale il Guarini tenne l'elogìo funebre. Altre commemorazioni furono celebrate a Ferrara, il 24 dello stesso mese, e a Parigi, nella chiesa degli agostiniani, alla quale prese parte il re in persona.
Tra i vari elogi funebri composti per onorare lo scomparso cardinale i più noti sono quelli di Leonardo Salviati, Matteo Olitori, Jean-Jacques Orgeat, Jean-Papire Masson e Jean-Auguste Thou.
L'E. lasciò erede universale il fratello Alfonso, che poi rinunciò a favore di Cesare d'Este. A questi andarono, nonostante i cospicui benefici accumulati dall'E., ben 200.000 scudi di debiti, quasi il doppio delle rendite. La villa di Tivoli fu ereditata dal cardinale Farnese in qualità di decano dei S. Collegio. Infine l'E. devolse 10.000 scudi per l'erezione di un collegio in Ferrara che doveva "servire a comune ospitio e commodo di tutte le nationi".
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