FERRUCCI, Luigi Crisostomo
Nacque a Lugo (Ravenna) il 31 dic. 1797, da Filippo Ferruzzi, proprietario terriero e da Violante Malerbi.
A partire dal 1824,il F. (insieme con il fratello minore, Michele) cambiò il proprio cognome originario adottando la forma toscanizzata Ferrucci e accreditando l'ipotesi di discendere dalla famiglia fiorentina omonima che contava tra i suoi membri anche l'eroe della battaglia di Gavinana, Francesco Ferrucci. In seguito (20 maggio 1836), il F. riuscì ad ottenere per sé e per la sua famiglia la cittadinanza toscana e l'iscrizione nei ruoli della nobiltà locale; nel 1840 fece apporre a proprie spese sulla piazza di Gavinana una lapide, in cui orgogliosamente ricordava la sua discendenza dall'avo Francesco.Il F. compì gli studi di umanità e retorica nel rinomato seminario vescovile di Faenza e frequentò poi l'università di Bologna, dove si laureò in utroque iure nel gennaio 1820. Durante gli anni dell'università affiancò agli studi forensi quelli di argomento letterario ed antiquario, certo più consoni alle sue aspirazioni: frequentò infatti con passione i corsi di G. G. Mezzofanti (lingua greca) e di F. Schiassi (archeologia e latino) e venne chiamato da quest'ultimo a collaborare, unitamente al fratello Michele, alla preparazione dell'imponente Lexicon epigraphicum Morcellianum (comparso anni dopo a Bologna nel 1835-38). A Lugo fu per breve tempo insegnante di lingua latina presso il locale liceo "Trisi", poi bibliotecario della Comunale fino al 1827; dal 1827 al 1831, insegnante di eloquenza a Pesaro, su invito dell'allora confaloniere della Municipalità pesarese, F. Cassi.
La residenza in queste zone periferiche e le cure di una numerosa famiglia (sposato con Matilde Verlicchi nel 1823, ebbe ben undici figli) non gli impedirono di raggiungere una precoce fama nell'ambiente dei classicisti romagnoli e degli "Arcadi romani", grazie alla buona conoscenza dei classici e alla sua copiosa vena di verseggiatore sia in latino sia in italiano; V. Monti lo giudicava fra "i più dotti latinisti del secolo", e si diceva "rapito" dal "valore e dalla gentilezza della sua Musa" (si vedano due lettere di Costanza Monti Perticari, edite dallo stesso F., in Giudizio perentorio sulla verità della patria di Gioachino Rossini...,Firenze 1874,p. 19, e Scala di vita. Memoriale in terza rima...,Firenze 1852, p. VI). Difficile dire quanto tale fama apparisse fondata agli occhi degli stessi contemporanei, trattandosi di ambienti culturali molto ristretti, dove le lodi reciproche erano la norma, la comparsa di un opuscolo un avvenimento letterario e dove spesso bastava comporre un'ode o un sonetto per essere paragonati ad Orazio o salutati come un novello Petrarca. Il F. pubblicò sul Giornale arcadico poesie e scritti di argomento dantesco, fu in relazione con i più importanti classicisti di Romagna (D. Strocchi, P. Farini, P. Costa, C. Montalti); amico personale di Costanza Monti e del marito Giulio Perticari, curò tra l'altro la prima edizione postuma dei trattati perticariani sulla lingua italiana (Lugo 1822).
La sua produzione si uniformò in gran parte ai canoni e agli intendimenti della "scuola classica romagnola", anzi ne enfatizzò proprio gli aspetti più caduchi: la scarsa originalità, la smania di far versi per le occasioni più banali e casuali, l'illusione che bastasse saper maneggiare la metrica e la retorica per poter scrivere di tutto e di tutti. Il F. pubblicò così tre raccolte di iscrizioni (Inscriptionum fasciculus, Pesaro 1831, Faenza 1849, Imola 1867), due libri di epistole metriche, tre di odi, epigrammi e carmi vari (riuniti in gran parte nel volume Lyristes christianus..., Firenze 1852), raccolte di Poesie minori, Firenze 1856, e di Electa carmina, Lipsia 1872, sette volumetti di favole in latino, usciti a Imola e a Torino, tra il 1867 e il 1876; si aggiunga a questo una miriade di versi encomiastici sparsi in fogli volanti ed opuscoli, oltre ad una consistente collaborazione a quotidiani e giornali letterari: l'Album di Roma, l'Imparziale di Faenza, il Romagnolo di Ravenna, gli Opuscolireligiosi, letterarj e morali di Modena.
Grazie alla sua ottima conoscenza della letteratura latina, il F. fu in grado di scrivere in latino con eccezionale competenza, di misurarsi con i metri e i generi letterari più svariati, intarsiando i suoi scritti di stilemi e reminiscenze letterarie tratte dai classici. Riuscì ad esempio a spacciare per frammenti inediti del De fato di Cicerone un testo interamente suo, abilmente costruito in stile ciceroniano e, tra gli addetti ai lavori, solo alcuni si accorsero della contraffazione (si veda per un riepilogo della vicenda un articolo dello stesso F., Lettera in difesa dei nuovi frammenti della disputa di Cicerone, De fato, in Memorie di religione, di morale e di letteratura, s. 3, XVI [1854], pp. 67-82).
Il F. si dedicò anche ad una modesta attività critico-filologica; curò, ad esempio, un'edizione della Vita nuova (Pesaro 1829), dello Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti (Lugo 1827), dello Specchio di vita cristiana di V. Giaccari (Firenze 1844) e pubblicò qualche scritto di esegesi dantesca; tra i suoi contributi nel campo della letteratura latina va almeno ricordata una acuta interpretazione di un passo di Sallustio, che gli valse l'encomio di G. B. De Rossi (si veda, per quest'ultima vicenda, Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma, XVII[1889], p. 353). Va da sé che si trattava di una "filologia" assai precaria, come poteva praticarla uno studioso attardato su tutti i fronti, ignaro di tedesco e anzi fieramente avverso a quella scienza degli "oltramontani" e di B. G. Niebuhr, dedita soltanto a "notomizzare, scarnificare, sviscerare" la lingua e la letteratura latina (Lettera ... De fato, p. 69).
Ma le maggiori ambizioni letterarie furono riposte dal F. in un lungo poema in italiano di oltre 18.000 versi, Scala di vita, scritto tra il 1826 e il 1836, pubblicato separatamente in tre fascicoli nel 1831, 1836 e 1842 ed infine in volume nel 1852, a Firenze.
Il lavoro, che vuole essere appunto una "scala" per guidare gradualmente il lettore alla conoscenza delle cose materiali e celesti su su fino al "monte di Dio" ed è dedicato al sultano Abdul-Medjid, si presenta come una nuova Commedia, opportunamente aggiornata al XIX secolo: di qui l'uso della terza rima, la suddivisione della materia in tre parti, suddivise a loro volta in capitoli che richiamano anche nell'estensione i canti della Commedia e sono preceduti ciascuno da un breve proemio in prosa; di qui il ricorso continuo a rime e stilemi danteschi, ora presi di peso dall'originale, ora adattati e rielaborati con qualche abilità. Il F. intraprende dunque un viaggio fantastico attraverso il regno minerale, animale e vegetale, descrivendo i soggetti più esotici e strani dei tre regni e con un excursus sul corso del Nilo e sugli oceani, quindi viene trascinato in cielo, alla visita dei pianeti sotto la guida dell'avo Francesco Ferrucci. Nei vari pianeti, nelle nebulose e nelle comete sono puniti diversi tipi di peccatori, secondo la legge del contrappasso (gli accidiosi in Urano, i traditori in Saturno, gli ambiziosi in Giove ecc.) e la loro punizione è resa più dolorosa dalla vista delle anime beate che abitano nei satelliti di ciascun pianeta. Il F. visita quindi la reggia del Sole, la grotta del Tempo, la via Lattea e il regno delle anime rette e buone, che si snoda lungo sette gradi di una coloratissima spirale fino al monte di Dio. Il viaggio è costellato di incontri con animali e personaggi storici e fantastici, che danno agio al F. di narrare favole mitologiche e di discettare su ogni cosa: l'invenzione del parafulmine, l'origine del mal francese, le abitudini dei castori, la vita poco edificante dei bonzi giapponesi, ecc.
La Scala di vita vide la luce tra l'indifferenza dei letterati contemporanei. Del resto né le opere latine, né quelle italiane riuscirono a garantire al F. quell'indipendenza economica cui tanto aspirava, per potersi dedicare interamente agli studi e alla poesia. Costretto a pubblicare a proprie spese lavori che non avevano poi circolazione nel commercio librario, egli si affannò per quasi tutta la vita alla ricerca di un "patrono" che gli garantisse una sinecura o una qualsiasi attività retribuita, consona alle sue aspirazioni di letterato. Fallì nel 1842 il tentativo di ottenere una cattedra di eloquenza, presso il liceo di Ravenna, fallirono altri tentativi per un posto di archivista presso il granduca di Toscana (1864) e di direttore del liceo di Pistoia (1854). Né il F. ebbe maggior successo quando il papa Pio IX lo invitò a Roma nel 1855, nominandolo professore del collegio filologico alla Sapienza e scrittore della Biblioteca Vaticana: la prima carica era meramente onorifica, la seconda parcamente retribuita.
Nel 1857, infine, il F. fu chiamato a dirigere le biblioteche Medicea Laurenziana e Marucelliana e si stabilì a Firenze in modo definitivo; in questa città, che considerava come una seconda patria, anche in virtù delle presunte origini toscane della sua famiglia, aveva già abitato per lunghi periodi dopo la morte della moglie (1840) e qui aveva goduto dell'amicizia di G. Rossini (si veda a questo proposito l'opuscolo Giudizio, dove il F. pubblica lettere del famoso musicista, tratte dal suo carteggio personale). Con l'avvento del governo provvisorio toscano nel 1859, il F. conservò la direzione della Biblioteca Laurenziana, ma gli fu sottratta quella della Marucelliana (con conseguente drastica riduzione degli emolumenti) e la sua posizione si fece ancora più precaria dopo la riduzione della Laurenziana a biblioteca di terza classe (1873); si capisce che il nuovo governo non usasse troppi riguardi verso un uomo legatissimo al vecchio potere e in fama di illiberale.
Non pare che il F. abbia preso parte in prima persona alle vicende politiche del suo tempo; ma i suoi carmi a Gregorio XVI e a Francesco IV d'Este (Lyristes, pp. 47 s., 273-283), i suoi Commentariorum pontificalium libri II ex actis diurnalibus PiiVIII..., Firenze 1857, la sua assidua collaborazione a una rivista dichiaratamente reazionaria come le Memorie di religione, morale e letteratura non lasciano dubbi sulle sue scelte di campo.
Il F. trascorse gli ultimi anni di vita isolato ed estraneo all'ambiente culturale fiorentino, anche se non gli mancò la possibilità di conoscere ed eventualmente di allacciare relazioni con uomini di fama o regnanti stranieri che visitarono la Laurenziana. Non venne poi meno la sua copiosa vena poetica ed ancora nel 1877, anno della sua morte, dette alle stampe, a Imola, venti Epistolae satyricae, seguite da altri componimenti in latino.
Il F. morì suicida a Firenze il 19 ag. 1877.
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Medicea Laurenziana, Carteggio Ferrucci, con lettere di e a vari membri della famiglia Ferrucci (non ordinato); Ibid., Bibl. naz., Carteggi vari 740, 31-53(lettere del F. a Luigi Fornaciari); Carteggi vari, 165, 77 e 74-75(lettere del F. a P. Fanfani); Carteggio De Gubernatis, 53, 17 (lettere del F. ad A. De Gubernatis); Imola, Bibl. com., Carteggio di L. C. Ferrucci (quasi 2500pezzi); Pisa, Bibl. univ., Mss. 674, 170 e 1088, 4(lettere del F. al fratello Michele); V. Valorani, Di una grave malattia e d'una singolare convalescenza nella persona del... L. C. F., Bologna 1847; C. De Lussac, Nos contemporains, s. 1, Bordeaux 1873, p. 33;necrologia anonima in Illustrazione italiana, IV (1877), 2, p. 131; Onoranze funebri rese al comm. L. G. F. dalla città di Lugo sua patria...,Lugo 1877;A. von Reumont, Biographische Denkblätter nach persönlichen Erinnerungen, Leipzig 1878, pp. 313-330; D. Magnani, L.C.F. (1797-1877), Rocca San Casciano 1882; A. Tambellini, Per un dimenticato, in Lettere ed arti, II (1890), pp. 229-233; C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri..., Roma 1906, X, p. 345; U. De Maria, Letterati, scienziati, artisti e patrioti di Romagna (1750-1860), in La Romagna, IV (1907), pp.230 s.; F. Balbo, L.C.F., ibid., VII (1910), pp. 253-268, 297-366;G. Sassi, F. Mordani e i suoi tempi, ibid., XV (1924), p. 75; V.Monti, Epistolario...,a cura di A. Bertoldi, I-VI, Milano 1928-31, ad Indicem; C. Frati, Diz. bio-bibliogr. dei bibliotecari e bibliofili italiani..., a cura di A. Sorbelli, Firenze 1933, pp. 222-224; V. Valente, L. C. F. e N. Tommaseo, in Archivio storico per la Dalmazia, XXIV (1938), pp. 398-400; G. Pecci, Lettere di L. Cibrario e di L. C. F. al sanmarinese G. Belluzzi, in Studi romagnoli, IV (1953), pp. 69-74; G.Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1964, I, pp. 349, 354; II, pp. 497, 509, 515; R.Comandini, Monsignor S. Bonsignore (1738-1826) nell'opinione dei seguaci della scuola classica romagnola, in Studi romagnoli, XVII (1966), pp. 317 s.; Id., Il noviziato letterario del lughese Michele Ferrucci, ibid., XXI (1970), p. 222; A. M. Bandini, Dei principi e progressi della R. Biblioteca Mediceo-Laurenziana, a cura di R. Pintaudi-M. Tesi-A. R. Fantoni, Firenze 1990, pp.162, 237; Diz. encicl. della lett. ital., Bari-Roma 1966, IV,p. 452.
In mancanza di una bibliografia degli scritti del F., si rimanda all'elenco (ovviamente incompleto), del Catalogo dei libri italiani dell'Ottocento (1801-1900). Autori, III, Milano 1991, pp. 1857 s.