CASTIGLIONI, Luigi
Nacque ad Azzate (Varese) il 28 sett. 1882 da Pietro, medico condotto, e da Antonietta Trotti; appassionatosi agli studi umanistici, vinse nel 1900 il concorso per la Scuola normale superiore di Pisa. Dopo un approccio fallito con V. Cian, abbandonò l'italianistica e si laureò, quasi autodidatta, in letteratura latina (1904), con una dissertazione che poco dopo pubblicò in volume (Studi intorno alle fonti e alla composizione delle Metamorfosi di Ovidio, Pisa 1906).
Questo primo lavoro già mostra alcune doti fondamentali del C., come l'autonomia critica rispetto alle dottrine dominanti e una profonda, diretta esperienza di testi. Ed è presente uno dei suoi grandi centri d'interesse, la mitografia letteraria, studiata attraverso Ovidio e le fonti della poesia alessandrina fino ai tardi epigoni, trattati con eccellente rigore filologico.
Dopo la laurea il C. aveva seguito a Firenze un corso di specializzazione, dominato dalla figura di G. Vitelli: per lui conservò sempre una viva ammirazione, pur non condividendone le opinioni politiche. Alla sua scuola apprese un maggiore rigore e una più vigile cautela sia nell'emendazione, sia nella documentazione, misurata ed efficace, perché meditamente trascelta: doti che tralucono in un lavoro destinato alla scuola, il commento a tre Orazioni scelte di Lisia (Palermo 1914). Per questo può essere significativo mettere a confronto i suoi primi contributi critici senecani (Electa Annaeana, Città di Castello 1911; vedi anche De quibusdam deterioribus codicibus Senecae opuscula De ira continentibus, in Athaenaeum, [1913], pp. 98-111) con quelli di poco successivi alla guerra (Studia Annaeana, ibid., VIII[1920], pp. 224-242; Studi Anneani, ibid. IX [1921], pp. 435-445), ben più controllati e maturi.
Sia per il settore di ricerca propostosi come tesi di laurea, sia per il suo pessimismo inquieto, che non trovava risposta in gran parte della letteratura romana, fin dagli anni pisani il C. ebbe larga conoscenza delle lettere greche. Al Vitelli dovette organizzazione e approfondimento ulteriori per questi interessi, che lo fecero maestro nelle due letterature, nella ferma convinzione dell'impossibilità di scindere l'una dall'altra. A Firenze non strinse molte amicizie; attraverso T. Tosi, anch'egli ex normalista, si legò saldamente con G. Pasquali e N. Terzaghi, e lavorò "furiosamente" (il termine è suo) a leggere testi e annotarli per suo uso e collazionare codici. Di questi interessi sono frutto i Collectanea Graera (in Studi ital. di filol. class., XIV[1906], pp. 153-176; XV [1907], pp. 342-347; XVII [1909], pp. 289-248), rielaborati e accresciuti per l'edizione pisana del 1911 (CollectaneaGraeca), in cui accanto a varie collazioni di codici troviamo più di trecento interventi critici su autori per lo più venutigli tra le mani per la tesi; d'altro canto, i due Studi alessandrini (I, Pisa 1907; II, in Studi offerti a C. Pascal, Catania 1913, pp. 53-120) dedicati a problemi mitografici.
Fin da allora il suo temperamento impaziente lo spingeva in prevalenza all'osservazione puntuale, in cui dominio della lingua e conoscenza stilistica dell'autore si fondevano con l'intuizione immediata, trovando facile espressione in un latino rotondo, ma vivo, in una prosa decisamente personale ed elegante, libera dal ciceronianismo di scuola allora di moda, ma sensibile alla tornitura ciceroniana della frase e duttile nella forma. Questa dote si venne sempre più affinando (si veda per esempio la raccolta di "sforbiciature", Decisa forbicibus, Milano 1954), senza mai perdere la coscienza di come il latino non fosse che una lingua di dignità letteraria. Viceversa le opere in italiano di maggior respiro riescono alla lettura fredde, senza che la proprietà e la cura nello scrivere (d'un gusto carducciano che il C. non perdette mai) cancellino questa impressione.
Il suo temperamento chiuso e scontroso risentì beneficamente dell'insegnamento secondario nelle sedi più disparate, dalla Sicilia a Milano, ma moltissimo l'arricchì di comprensione e tolleranza la dura esperienza del conflitto del 1915-18, che fece come capitano degli alpini. Dopo la guerra si immerse nuovamente negli studi. Dopo aver insegnato nei licei di Novara e Milano, nel 1925 fu straordinario di letteratura latina all'università di Cagliari e nel 1926 fu chiamato alla facoltà di lettere della Statale di Milano, dove rimase fino alla morte (fu tra l'altro preside della facoltà dal 1931 al 1956).
Morì a Milano il 23 febbr. 1965.
La sua casa ospitò spesso A. Rostagni, G. Pasquali, N. Terzaghi, C. Marchesi e grandi filologi stranieri, con molti dei quali (per es. B. Axelson, P. J. Enk, G. Jachmann, P. Maas, W. Schmid, J. Svennung, B. L. Ullman) fu anche in corrispondenza di studio. Il C. dedicò l'esistenza, priva sostanzialmente di fatti esteriori, all'insegnamento - fu il suo modo di entrare in contatto con la vita reale, attraverso le esigenze dei suoi allievi - e alla attività scientifica. Diresse il Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum, che portò a livello di prestigio internazionale; fu per molti anni collaboratore attivo della commissione per il Thesaurus Linguae Latinae;s'impegnò in frequenti recensioni, offrendo sempre contributi personali e combattendo in esse alcune delle sue più intense battaglie contro posizioni d'oltralpe di tendenza "simbolistica" che si qualificavano moderne e ripudiavano il portato più serio della vera filologia (un elenco delle recensioni del C. è compreso in quello degli scritti in Studi in onore di L. C.,I, Firenze 1960, pp XV-XXVI).
Il C. non fu portato a teorizzare; soprattutto ebbe viva avversione, per quanto la sua mentalità fosse sostanzialmente storicistica, per il Bildungserlebnis dello storicismo tedesco che, specie nel mondo della filologia, gli apparve estraneo alla realtà antica. Più tardi, ciò che lo respinse dal Croce furono le pagine sul mondo classico, in particolare quelle su Properzio, in verità piuttosto superficiali e incompetenti, che l'irritarono come segno d'incapacità a penetrare i problemi dell'arte e del gusto antichi. Negli scritti evitò apprezzamenti estetici e li escluse del tutto dalle lezioni: soleva dire che il suo compito era di fornire tutti i mezzi per un'interpretazione estetica, che doveva però scaturire dalla sensibilità del singolo. Della filologia seguì entrambe le vie, quella della critica testuale e quella dell'alta interpretazione, con pari intensità. Concorrevano in lui il gusto sicuro dello stile, la sensibilità per lo sviluppo della lingua (che non ebbe però basi glottologiche), la profonda conoscenza del mondo antico. Un'unità di fondo nella produzione, varia e diversificata, del C. si ha nel costante riferimento al testo o ai testi; il che spiega anche perché egli fu principe nell'arte dell'emendatio.
Nella critica testuale fu estremamente moderno: non fu seguace di stretta osservanza né di K. Lachmann né del Maas; fu piuttosto un Bentley che si servì con razionale libertà e non senza meditate riserve dei loro strumenti metodologici. Fu tra i primi a valutare i codices recentiores (contemporaneamente all'impostazione metodologica del problema da parte del Pasquali), riconoscendo con sicurezza i casi in cui essi erano deteriores (come in L. Annaei Senecae Dialogorum libri IX-X, Torino 1930) e i casi in cui no (per es. in Studi intorno alla storia del testo dell'Anabasi di Senofonte, in Mem. dell'Ist. lomb. di scienze e lett.,classe di lettere, XXIV [1932], 3, pp. 109-154); s'oppose con fermezza alla tendenza della filologia germanica della sua gioventù di puntare alla ricostruzione del testo d'autore. Come opera concretamente realizzata, il lavoro più significativo è l'edizione critica del De Re publica di Cicerone (Torino 1936; nuova ediz., ibid. 1947), insigne per l'evidenza dell'apparato, la scelta oculata dei precedenti contributi al testo, l'equilibrio della cernita di che cosa introdurre nel testo e che cosa relegare nell'apparato. Come opera d'indagine, tra le pagine più dense sono quelle sulla Storia del testo dei Fasti d'Ovidio (in Riv. di fil. e d'istruz. class.,n. s., XVII [1939], pp. 319-341), arrivate a compiutezza dopo una meditazione di oltre dieci anni.
Nel campo dell'interpretazione ebbe una sua via, che lo distinse dai "grands tomes français" - che riteneva inutili, con un certo dispregio per la filologia francese, eccezion fatta per P. Boyancé -, come dai "Wissenschaftliche Kommentäre",che gli facevano perder di vista l'autore: anche qui faceva un'eccezione per il commento al VI dell'Eneide di E. Norden (Leipzig 1903). Egli giungeva all'alta interpretazione armato dalla lunga e profonda esperienza della critica testuale, dalla sensibilità stilistica, dall'approfondimento dello studio delle fonti e delle tradizioni culturali. Nacquero così, ricche d'acutezza d'interpretazione, equilibrio di giudizio e finezza letteraria, le Lezioni sulla lirica d'Orazio (Milano 1942), le Lezioni intorno alle Metamorfosi d'Apuleio (Milano 1943) e, il suo capolavoro in questo campo, le Lezioni intorno alle Georgiche di Virgilio (Milano 1947), frutto della sua ammirazione per l'opera e d'un ventennio circa di saggi e studi sull'autore.
Dal 1931 il C. coltivò un vivo interesse per la cultura filosofica, sorto dall'esigenza di cogliere il sottile rapporto tra i dettami della retorica antica e i temi stilistici della diatriba stoico-cinica: fu questo un grosso centro di interessi degli ultimi anni, che lo portò a studiarne la continuità fino a autori tardi come Giovanni Crisostomo. Ma il C. grande maestro fu quello dalla cattedra, da cui esercitò un influsso difficilmente valutabile da chi non ne abbia fatto diretta esperienza. Questo suo fascino nasceva non solo dalla sicurezza e ampiezza della sua dottrina, ma anche dalla vitalità e convinzione del suo magistero di latino o filologia classica, dalla fiducia che aveva nei giovani, dal senso di responsabilità che sapeva istillare in quelli più validi e, fattore non ultimo, dalla sua capacità di far scaturire dai classici l'appello del mondo antico alla libertà. Si spense laboriosamente attivo alle cure d'un dizionario delle lingue latina e italiana.
Bibl.: Necr. di I. Cazzaniga, L. C.,in Rend. dell'Istit. lomb. di sc. e lett. (parte gen.), XCIX (1965), p. 7(vedi anche Gnomon, XXXVIII [1966], pp. 106-108); D. Buzzati, C., in Corriere della Sera, 27 febbr. 1965. Molto penetrante il saggio di A.La Penna, L. C., in Belfagor, XVIII (1962), pp. 42-68.