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FARINI, Luigi Carlo

di Luigi Rava - Enciclopedia Italiana (1932)
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FARINI, Luigi Carlo

Luigi Rava

Uomo politico, nato a Russi il 22 ottobre 1812, morto a Quarto il 1° agosto 1866. Uscito da una famiglia di patrioti, già illustrata da suo zio Domenico Antonio (v.), studiò medicina a Bologna, dove primeggiò tra i giovani, e nel 1831 prese parte nella milizia alla rivoluzione che condusse al governo costituzionale delle Provincie unite. Fu soldato e combattente. Si laureò a Bologna, e fu assistente all'ospedale di Ravenna; poi medico a Montescudo (prov. di Forlì), dove pubblicò (1835) un buon lavoro sulle Febbri intermittenti, quindi a Ravenna. Tutto dedito alla scienza, pubblicò, tra l'altro, notevoli studî sulla pellagra e sulle febbri malariche. In Romagna aveva allora, con le società segrete, ripercussione e preparazione il moto politico per un'insurrezione in varie parti d'Italia. Il F., che vi partecipava, sospettato, sfuggì la prigione partendo da Ravenna, e con l'ausilio del patriota D. Giovanni Verità, si recò coi suoi in Toscana, dove la polizia finì per farlo espatriare. Riparò in Francia e colà frequentò, oltre che le cliniche e la Sorbona, anche le assemblee politiche, e osservò lo svolgersi della vita parlamentare. Tornò in Italia, e si fermò a Lucca, dove ebbe in cura Gerolamo figlio dell'ex re di Vestfalia, fratello di Napoleone I, e iniziò così le sue relazioni coi Napoleonidi e specialmente col principe Gerolamo, col quale ebbe poi una interessante corrispondenza sulle cose e le speranze d'Italia, che durò fin dopo il 1860. Condusse il suo malato per varî luoghi di cura (Viareggio, Courmayeur); conobbe insigni Italiani, andò al Congresso degli scienziati a Genova, e si fece notare per acutezza d'ingegno, dottrina e patriottismo. A Lucca scrisse il libro sulle Risaie, che fu bene accolto e conserva ancora vivo interesse. Nel 1845 (si disse) ebbe parte nel redigere il famoso proclama di Rimini, invocante dal governo pontificio riforme politiche e amministrative. Il F. tornò nello Stato Pontificio e andò medico primario a Osimo, di dove scrisse notevoli articoli politici per giornali di Bologna. Conobbe il d'Azeglio, a cui si strinse d'amicizia. Eletto papa il cardinale Mastai, data l'amnistia e pubblicato lo statuto costituzionale, fu formato il primo ministero col Recchi ministro dell'Interno: il F., fu chiamato a parteciparvi quale segretario generale, o sostituto del ministro. E diede opera attiva a leggi, a riforme, specie nel campo della sanità pubblica e degli ospedali, ed ebbe buona relazione col pontefice. Venuta la guerra, fu mandato al campo di Carlo Alberto, che egli conobbe e pose poi in buona luce nelle sue storie. Fu richiamato a Roma, perché eletto deputato di Russi e di Ravenna. E come tale fu poi inviato a Bologna, dopo la gloriosa giornata dell'8 agosto, e compì a Bologna opera energica e franca per riportarvi la calma. Intanto a Roma era salito al governo Pellegrino Rossi, che chiamò il F. alla direzione generale della Sanità, persuaso dell'urgenza di provvedere a questo problema; il F. si pose subito all'opera e cominciò con un'inchiesta sugli ospedali e con altre provvidenze, pur restando sempre a fianco del Rossi per consiglio nelle cose politiche. Colpito a morte il Rossi, fuggito il papa a Gaeta, proclamata la repubblica, il F. andò esule in Toscana e poi in Piemonte, e fu accolto con amicizia da Massimo d'Azeglio e da Cesare Balbo. A Torino gli promisero una cattedra di medicina all'università che però non gli fu concessa. Si pose allora all'opera Lo Stato romano dal 1815 al 1850, classicamente scritta e liberamente pensata, e giudicò con ferma e recisa opinione uomini e fatti del suo tempo, suscitando polemiche, ma ottenendo grande e indiscusso successo. Il 1° volume apparve nel 1850. Mentre l'opera completa si ristampava a Firenze, l'illustre statista G. Gladstone la traduceva in inglese, e pubblicava a Londra. Fatto cittadino piemontese, si legò con gli uomini liberali più insigni del Piemonte, fu eletto deputato del collegio di Varazze (IV legislatura) e del collegio di Cigliano (V, VII e VIII legislatura). Cavour strinse con lui subito buona relazione e quando fu nominato ministro affidò a lui la direzione del suo Risorgimento: così il F. cominciò ad apparire ed essere riconosciuto come "l'ombra di Cavour", pur senza perdere la personalità propria, ché anzi fu, per molti aspetti, integratore delle iniziative del grande ministro. Quando il d'Azeglio fu chiamato a formare un ministero, volle Cavour e F., l'uno all'Agricoltura e poi alle Finanze, l'altro all'Istruzione, dove ebbe opposizioni, come uomo nuovo e come esule, ma fece opera lodevole. I due s'intesero per un movimento verso sinistra e per l'elezione di Rattazzi a presidente della Camera. Il d'Azeglio licenziò allora i due colleghi, ma presto fu chiamato Cavour (novembre 1852) alla presidenza dei ministri. Egli non prese con sé il F., ma gli diresse una nobile lettera, con la quale gli dava ragione dell'esclusione, dovuta a pregiudizî locali e invidie politiche, ma gli chiedeva la sua collaborazione. Il F. seguì fedele Cavour, scrisse per lui opuscoli politici di grande successo, e gli propose, si disse, di partecipare alla guerra di Crimea. Il F. (povero e con famiglia), si pose a scrivere allora La Storia d'Italia in continuazione di quella del Botta: ne uscirono due volumi. Visse modestissimamente, scrivendo in riviste inglesi sulle cose d'Italia e sulla preparazione del Piemonte. Le sue lettere, pubblicate fino al 1859 nel Morning Post di Londra, sono documento notevole e contributo prezioso alla storia del tempo. Nel 1859 diede i suoi due figli, Domenico e Armando, alla guerra liberatrice. Cavour lo inviò R. Commissario o governatore a Modena che aveva proclamata la decadenza del duca e l'annessione. Dopo il trattato di Villafranca, il F. fu richiamato insieme con gli altri governatori o commissarî del Piemonte nelle Provincie centrali; ma egli non lasciò Modena. Si dimise dall'ufficio; ma si mescolò al popolo nelle dimostrazioni per l'unità nazionale, si fece proclamare dittatore e iniziò arditamente a Modena quel governo indipendente, che fu un modello ammirato, imitato da Parma, da Reggio, e poi da Bologna, che il commissario d'Azeglio aveva lasciata, perché richiamato anch'egli a Torino. Il F. accentrò in sue mani i poteri del governo per tutti i ducati. Quando il governatore Cipriani lasciò Bologna, il F. ebbe pure questa città; così fu dittatore dell'Emilia, e vi pubblicò codici e leggi piemontesi: convocò le assemblee legislative, e fece riforme lodate; aumentò le università, vi chiamò a insegnare uomini illustri anche delle provincie meridionali, come A. C. de Meis. E fece votare la pubblicazione nazionale delle opere di P. Rossi, che era stato professore a Bologna. Strinse la Lega doganale e militare con la Toscana; dovette resistere a Garibaldi, che voleva passare i confini ed entrare nello Stato Pontificio; accolse Crispi che voleva e ordiva la spedizione in Sicilia, e l'aiutò; diresse le assemblee legislative; tenne testa alla diplomazia europea. E tanto si adoperò e si destreggiò da evitare il vicariato del papa voluto da Napoleone III, e condusse le provincie a votare solennemente l'annessione al Piemonte sotto la dinastia sabauda; infine portò a Torino il plebiscito a Vittorio Emanuele. Il re nominò allora lui e il Ricasoli cavalieri dell'Annunziata; e il Cavour, tornato capo del governo (gennaio 1860) gli affidò, nel gabinetto che poi proclamò il regno d'Italia, il dicastero dell'Interno, nel quale ufficio, grave e geloso, il F. preparò la legge per le regioni (necessaria forse allora per poi cementare l'unità), progetto fatto suo dal Minghetti che gli successe. Era intento a questi lavori quando Garibaldi compì la spedizione di Sicilia. Il governo allora credette necessario conquistare le provincie delle Marche nello Stato Pontificio, unirle alle meridionali e incontrare Garibaldi vittorioso a Napoli. Il F. fu delegato ad accompagnare il re, partito con l'esercito per la guerra, e scrisse e pubblicò il manifesto. Il F. era stato prima a Chambéry col Cialdini a colloquio con l'imperatore Napoleone III e riuscì abilmente a ottenerne l'assenso o la tolleranza verso l'impresa. Dopo Castelfidardo venne l'incontro memorabile del re con Garibaldi. Cavour, dovendo organizzare il regno di Napoli, vi inviò come luogotenente del re il F., ricordando la sua mirabile opera nell'Emilia, ed egli riformò l'amministrazione e nominò i capi dei dicasteri, affrontando con ardore e con fede viva e operosa difficoltà politiche e militari di ogni genere, finché lutti e sventure domestiche non fiaccarono la sua fibra.

Ammalatosi a sua volta, dopo la malattia e la morte del genero Beretta, marito dell'amatissima figlia Ada, il F. lasciò l'ufficio e tornò a Torino e alla modesta sua villa di Saluggia. Pregato da Cavour preparò il discorso della corona per l'apertura della legislatura e vi scrisse "faremo l'Italia degli Italiani". Assai malandato in salute, assisté alle sedute della Camera; e raccolse gli ultimi aneliti di Cavour morente. Nel 1862 fu chiamato dal re a formare un ministero, dopo caduto il gabinetto Rattazzi (dicembre 1862); e lo compose faticosamente. Il discorso-proclama mostrò la stanchezza della mente. Decadde rapido; lasciò il governo nel marzo 1863 al Minghetti. Passò per cura alla Novalesa, e là si spense a soli 54 anni di età, dopo 4 anni di malattia. Morì povero, e la Camera dei deputati assegnò alla vedova una pensione annua e un premio nazionale per gratitudine dei grandi servizî resi alla patria. Fu uomo di possente ingegno, di forte passione politica, di fibra e di audacia patriottica. La politica lo tolse alla medicina, in cui forse avrebbe conquistato gran fama; e nella politica il suo nome è raccomandato a opere egregie, come quello di un ardito collaboratore di Cavour, e di uno dei principali realizzatori del movimento unitario.

Bibl.: V. Bersezio, L. C. F., Torino 1861; A. Mauri, L. C. F., commemorazione, Firenze 1866; A. Marescalchi-Matteuzzi, L. C. F., Roma 1877; L. Frapolli, L. C. F., Torino 1864; G. Badiali, L. C. F., biografia, Ravenna 1878; E. Parri, L. C. F., Roma 1878; G. Finali, Ricordi sulla vita di L. C. F., Roma 1878; G. Silingardi, L. C. F. a Modena, Modena 1881; T. Casini, La giovinezza di L. C. F., in Arch. St. ital., XLVIII (1911), ristampato in Ritratti e studi moderni, Roma 1914, pp. 283-332; L. messadaglia e L. Rava, La giovinezza di un dittatore, L. C. F., Roma 1914; L. C. Farini, Epistolario, a cura di L. Rava, Bologna 1911-14, voll. 3; il IV è in corso di stampa.

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