CAPELLO, Luigi Attilio
Nato a Intra (Novara) il 14 apr. 1859 da Enrico e da Ernesta Volpi, venne avviato alla carriera militare dal padre, funzionario dei telegrafi, di medie possibilità economiche. Allievo dell'Accademia militare nel 1875, sottotenente di fanteria nel 1878, frequentò nel 1884-86 la scuola di guerra conseguendo il brevetto di ufficiale di Stato Maggiore. Rivelava contemporaneamente una vastità di interessi poco comune negli ambienti militari del tempo, tanto che nel 1893, di stanza a Napoli come maggiore, collaborò al Corriere di Napoli insieme con F. S. Nitti e G. D'Annunzio. I suoi articoli di critica militare, che sostenevano la necessità dell'offensiva e dello spirito di iniziativa a tutti i livelli e polemizzavano contro lo spirito di casta dell'esercito e il criterio burocratico dell'avanzamento per anzianità, gli valsero un trasferimento a Cuneo per punizione. La sua carriera non ne fu compromessa e nel 1898 conseguì la promozione a colonnello e il comando del 50º reggimento di fanteria. Verosimilmente in questi anni (la data esatta non è nota) entrò nella massoneria, raggiungendovi posizioni di responsabilità e stringendo rapporti con personalità politiche; è attestata la sua simpatia per il socialismo riformista e in particolare verso Bissolati, che lo ricambiava di pari stima.
Maggiore generale e comandante della brigata Abruzzi nel 1910, il C. partecipò alla campagna di Libia alla testa di una brigata di fanteria dislocata a Derna. Nei diversi combattimenti in cui fu impegnato e nella vita di guarnigione diede prova di energia e decisione, distinguendosi per spirito aggressivo e severità e attirandosi così alcuni attacchi di stampa.
Come risulta dalle sue carte, il C. criticava fortemente la prudenza degli alti comandi, che prescrivevano un contegno passivo alle truppe italiane malgrado la loro schiacciante superiorità in uomini mezzi e organizzazione. Questo guerreggiare difensivo, scriveva, non poteva che "atrofizzare ogni sentimento di iniziativa e di offensiva" e rendere necessario "molto tempo a pace conclusa per togliere tante idee storte e ritornare ad una educazione consona all'unico sistema di guerra che possa dare la vittoria". In queste parole e in tutto il suo comportamento emergeva già la sua decisa convinzione che solo l'offensiva potesse risolvere le guerre.
Allo scoppio del conflitto mondiale il C. comandava la 25a divisione di stanza a Cagliari. Sono interessanti alcune sue circolari del settembre-ottobre 1914 che rivelano una preoccupazione assai rara nei comandi italiani per la preparazione morale dei soldati e l'organizzazione di una propaganda capillare nei reparti. Con l'intervento italiano la 25a divisione fu assegnata alla 3a armata e prese parte alle prime battaglie sul Carso, in cui si distinse specialmente la sua brigata Sassari; ma già il 28 sett. 1915 il C., promosso tenente generale, era destinato al comando del VI corpo d'armata che fronteggiava la testa di ponte austro-ungarica di Gorizia.
Contro i pilastri di questa testa di ponte, le alture del Sabotino e del Podgora, il VI corpo sferrò ripetuti sanguinosissimi attacchi nel corso della terza e quarta battaglia dell'Isonzo (ottobre-novembre 1915), senza riuscire a intaccare la linea di resistenza nemica; i non grandi vantaggi territoriali andarono in parte perduti nel corso di una controffensiva austro-ungarica nella zona di Oslavia nel gennaio 1916. Il prestigio del C. non fu scosso da questi insuccessi, perché su tutto il fronte italiano la necessità politica di una condotta offensiva della guerra anche in assenza di adeguati mezzi bellici aveva portato al sacrificio delle truppe senza un corrispettivo di guadagni territoriali e di vittorie evidenti.
La pausa invernale, l'affluenza di reparti di nuova costituzione e lo sviluppo dell'artiglieria italiana (specie dei medi calibri e delle bombarde) permisero al C. di impostare su nuove basi la conquista della testa di ponte di Gorizia. Il gen. Montuori, comandante della 4a divisione, e il col. Badoglio curarono un'attenta preparazione del terreno sul Sabotino, tanto che quando il 6 ag. 1916 fu sferrata l'offensiva (ritardata fino ad allora per la Strafexpedition austro-ungarica nel Trentino) il terribile caposaldo fu conquistato con un attacco travolgente quasi senza perdite. Lo sfruttamento della rottura fu però ostacolato dalla scarsezza delle riserve che il comando della 3ª armata aveva concesso; tuttavia le truppe del VI corpo giunsero l'8 agosto all'Isonzo, lo passarono il giorno successivo e occuparono Gorizia spingendosi sino alle alture a est della città, dove però il loro impeto si infranse contro le nuove posizioni nemiche.
Il mancato sfruttamento strategico della rottura del Sabotino nulla toglieva alla risonanza della conquista di Gorizia (il primo netto successo della guerra italiana) e ai meriti del C., la cui popolarità crebbe rapidamente sino a metterlo in urto con Cadorna. Gli avversari del generalissimo italiano vedevano infatti nel C. un possibile successore, capace di imprimere un nuovo dinamismo, offensivo alla guerra italiana e di stabilire rapporti più intensi e proficui tra paese ed esercito. Oltre alle sue indiscusse qualità militari giocavano a favore del C. la sua familiarità con gli ambienti politici interventisti, i legami stretti con molti giornalisti e l'ascendente su giovani ufficiali di complemento che brillavano per ingegno e cultura (da Alessandro Casati ad Ardengo Soffici). Non è dato sapere fino, a che punto il C. incoraggiasse o subisse le interessate premure degli avversari di Cadorna; certo è che il comando del VI corpo era diventato un centro di contatti politici, intellettuali e giornalistici. Cadorna se ne preoccupò sino a decidere di colpire il potenziale rivale; e poiché non poteva silurarlo all'indomani della vittoria di Gorizia, il 12 sett. 1916 lo rimosse dal comando del VI corpo passandolo a quello di assai minor rilievo del XIII corpo d'armata sugli Altopiani. Il carattere punitivo del trasferimento era sottolineato dal fatto che il C. veniva a trovarsi agli ordini del gen. Mambretti, fino a quattro mesi prima suo sottoposto.
Il provvedimento si inseriva in una più ampia offensiva di Cadorna contro le ingerenze del governo nella condotta delle operazioni; negli stessi giorni infatti il generalissimo vietò l'accesso della zona di guerra ai ministri e particolarmente a Bissolati, che pure era il ministro incaricato dei rapporti con il Comando Supremo. Il dissidio fu composto nei mesi seguenti con il rafforzamento della posizione di Cadorna, la sua rappacificazione con Bissolati e il ristabilimento di rapporti corretti tra governo e Comando Supremo.
Se ne avvantaggiò il C., che il 13 dic. 1916 passò a comandare il V corpo della 1a armata e il 28 dicembre ricevette la nomina a grand'ufficiale dell'Ordine militare di Savoia per la parte avuta nella vittoria di Gorizia. Nel marzo 1917 infine Cadorna, che nonostante le differenze di orientamento politico e di personalità riconosceva nel C. il migliore dei suo generali, lo richiamò sul fronte dell'Isonzo affidandogli il comando della zona Gorizia di nuova costituzione, che di fatto, anche se non ancora di nome, aveva il ruolo di un'armata (10 marzo 1917).
Il piano di Cadorna per la decima battaglia dell'Isonzo, iniziata il 12 maggio 1917, prevedeva, in un primo tempo, la conquista delle alture del Kuk, Vodice e Monte Santo ad opera delle truppe della zona Gorizia e poi lo spostamento del centro di gravità dell'offensiva più a sud, contro l'Hermada, ad opera della 3ªarmata. Nonostante la superiorità di forze e l'accurata preparazione del C. e del suo capo di Stato Maggiore Badoglio (che durante la battaglia assunse il comando del II corpo d'armata) l'attacco iniziale portò solo alla conquista del Kuk; il C. ottenne però l'autorizzazione a protrarre gli sforzi e, a prezzo di perdite sanguinosissime, riuscì a occupare anche il Vodice, mentre il Monte Santo resistette ad ogni assalto. II prolungamento dell'offensiva a nord provocò però l'insuccesso degli attacchi all'Hermada; la battaglia, sospesa il 28 maggio, portava ancora una volta solo a successi tattici non risolutivi pagati a duro prezzo. Ne usciva rafforzata la posizione del C. che il 1º giugno passò a comandare la 2a armata, in cui era assorbita la zona Gorizia.
Anche per l'undicesima battaglia dell'Isonzo (nota anche come battaglia della Bainsizza, 18 ag.-15 sett. 1917) Cadorna aveva previsto un duplice attacco, a nord con la 2a armata verso l'altopiano della Bainsizza, a sud con la 3a armata sul Carso. Il C. chiese però di estendere l'offensiva anche alla testa di ponte austroungarica di Tolmino, con azione fino al Monte Nero; e Cadorna acconsentì perché fiducioso nell'eccezionale concentramento di forze: 51 divisioni con 5.200 pezzi d'artiglieria. L'offensiva della 2ª armata ottenne un rapido successo sulla Bainsizza, ma fallì verso Tolmino, malgrado il C. concentrasse in questo settore le sue riserve. La conquista dell'altopiano della Bainsizza costituiva comunque un grosso successo tattico, specie in confronto al fallimento della contemporanea offensiva sul Carso. Sperando di ampliare la vittoria, il C. chiese allora ed ottenne di prolungare la battaglia con una serie di sanguinosissimi attacchi al San Gabriele, chiave delle posizioni nemiche ad est di Gorizia; ne conseguì un doloroso logoramento di truppe già provate, che non riuscirono a espugnare le munite linee nemiche. I successi del Kuk, del Vodice e della Bainsizza, gli unici conseguiti dall'esercito italiano nel 1917, consolidarono la reputazione di comandante del C., che il 6 ottobre fu fatto cavaliere di gran croce dell'Ordine militare di Savoia.
Suo merito precipuo era l'accurata preparazione iniziale, basata su possenti ed elastici concentramenti d'artiglieria, che in entrambe le battaglie garantì il rapido successo di una parte dei primi attacchi. Altra caratteristica era un'elevatissima volontà offensiva che, trasmessa a tutti i comandi dipendenti, valeva ad assicurare molta decisione nei reiterati assalti, ma portava anche a prolungare la battaglia oltre i limiti della convenienza. Comandante duro ed energico verso i suoi ufficiali, ma capace di suscitare entusiasmo e dedizione in quanti lo avvicinavano, il C. non trascurava l'addestramento delle truppe e la loro preparazione morale, ma le sottoponeva senza esitazione a sforzi sanguinosissimi, che non potevano non avere gravi conseguenze. Si trattava di una situazione comune a tutto l'esercito, più sentita nella 2ª armata solo perché su di essa era ricaduto il peso maggiore delle battaglie del 1917; e non ne fu danneggiata la popolarità del C., che proprio allora raggiungeva il culmine. Il comando della 2ª armata divenne un punto d'incontro di uomini politici e di intellettuali interventisti, quasi in contrapposizione al grigio e ufficiale Comando Supremo.
I rapporti tra Cadorna e il C. tuttavia si mantennero sufficientemente buoni: i successi dell'estate avevano rafforzato anche la posizione del generalissimo, che non temeva più di essere sostituito e poteva quindi accettare la popolarità e i legami politici del comandante della 2ªarmata. E questi a sua volta pareva soddisfatto di essere diventato incontestabilmente il numero due dell'esercito, anche se lasciava correre la voce che in ogni offensiva fosse stato il Comando Supremo a fermarlo limitandogli i rincalzi e le munizioni d'artiglieria. Tra i due uomini c'erano rapporti di stima, non amicizia né possibilità di comprensione; e il risultato era che Cadorna teneva a lasciare anche troppa libertà d'azione al suo dinamico subordinato, già portato per suo conto ad agire di propria iniziativa.
Il 18 sett. 1917 Cadorna avvertì i comandanti della 2ª e della 3ª armata di aver rinunciato alla progettata offensiva autunnale in vista di un probabile serio attacco nemico e di aver deciso "di concentrare ogni attività nelle predisposizioni per la difesa ad oltranza". Si limitò però a queste direttive di massima, sottovalutando le dimensioni e la pericolosità della controffensiva austro-tedesca, e non si preoccupò di impostare una battaglia difensiva unitaria né di crearsi adeguate riserve. Il C. fu quindi libero di preparare non una difensiva, ma una controffensiva in grande stile: egli giustamente si attendeva che l'attacco nemico sboccasse dalla testa di ponte di Tolmino, per puntare su Cividale; e si proponeva di stroncarlo soprattutto con un contrattacco che partendo dalla Bainsizza tagliasse fuori Tolmino e rovesciasse l'intera ala settentrionale nemica. Il deficiente collegamento tra il Comando Supremo e il comando della 2ª armata, aggravato dalle condizioni di salute del C. (costretto a letto dalla nefrite, dal 9 al 23 ottobre egli cedette formalmente il comando dell'armata al gen. Montuori, pur continuando ad esercitarlo di fatto), fece sì che questo piano ambizioso fosse portato avanti in contrasto con le direttive di Cadorna (peraltro informato di tutto) e in assenza dei mezzi necessari. Solo il 19 ottobre, dopo aver finalmente ottenuto un colloquio con Cadorna, il C. rinunciava ai propositi di controffensiva ed emanava tardive disposizioni per la battaglia difensiva, senza però poter modificare uno schieramento troppo proiettato in avanti. La deficiente impostazione strategica di Cadorna veniva così aggravata dalla divergenza col C., troppo tardi affrontata, e dall'iniziativa dei comandanti di corpo della 2ªarmata (e in particolare di Badoglio, il cui XXVII corpo fronteggiava la testa di ponte di Tolmino), tutti orientati alla preparazione di contrattacchi più che alla difesa delle loro linee da un nemico di cui si sottovalutava la capacità di manovra.
Il 23 ottobre, nell'imminenza dell'offensiva austro-tedesca, il C. riassunse anche formalmente il comando, della 2ªarmata, benché tutt'altro che ristabilito. L'indomani mattina si scatenò l'attacco nemico che, contenuto sul fronte del IV corpo, sfondò le posizioni del XXVII corpo e raggiunse rapidamente Caporetto, prendendo a rovescio l'estrema sinistra della 2ª armata. La profondità e la celerità della penetrazione e l'abilità manovriera dei reparti tedeschi sconvolgevano tutte le predisposizioni italiane impedendo un'efficace azione di comando; i contrattacchi ordinati si rivelarono superati dagli avvenimenti, le riserve frettolosamente avviate per tamponare la falla furono sorprese ancora in marcia dall'avanzata nemica. Il mattino del 25 ottobre, considerando l'ampiezza dello sfondamento e l'insufficiente resistenza di molti reparti, il C. propose a Cadorna, nel corso di un colloquio a Udine, di ordinare la ritirata generale sul Tagliamento per permettere all'esercito di riprendere fiato e fiducia; diramò anche le direttive per la ritirata della 2ª armata (ritardata di 36 ore dal Cadorna) e poi lasciò il comando per il precipitare delle sue condizioni fisiche. Si riprometteva di tornare al suo posto dopo quattro giorni di riposo, ma le pressioni dei medici e le preoccupazioni di Cadorna per la continuità dell'azione di comando lo costrinsero ad assistere agli sviluppi del disastro da un letto d'ospedale, mentre il comando della 2ªarmata passava al gen. Montuori.
Il 26 novembre del 1917 il C., che si era rimesso in salute, venne destinato al comando della nuova 5ª armata, in corso di costituzione nelle retrovie con le unità più provate nella rotta e gli sbandati che rientravano ai reparti. Affrontò il delicato incarico (che dimostrava come egli godesse della fiducia del nuovo Comando Supremo di Diaz) con la consueta attività, organizzando una moderna rete di propaganda e preoccupandosi di assicurare alle truppe buone condizioni di vita. L'8 febbraio tuttavia fu privato del comando e posto a disposizione della Commissione d'inchiesta nominata dal governo Orlando per far luce sulle cause della rotta di Caporetto; uguale sorte ebbero Cadorna e Porro, mentre Badoglio fu salvato dall'intervento di Diaz che non volle privarsi del suo più stretto collaboratore. Contro la tendenza del governo e della Commissione, che così si preannunciava, di addebitare le maggiori responsabilità a Cadorna e al C., quest'ultimo si batté con energia, stendendo tra marzo e maggio 1918 una documentata memoria difensiva, La 2ª armata e gli avvenimenti dell'ottobre 1917 (pubblicata nel 1967 da R. De Felice con il titolo Caporetto perché?) e stringendo o rinnovando contatti con esponenti interventisti (ricordiamo tra gli altri Bissolati, Chiesa, Mussolini, Papini, Prezzolini, il gen. Marazzi e i fedelissimi A. Soffici e A. Casati). Doveva però lottare contro il crescente isolamento, che raggiunse il culmine nell'estate 1919 con la pubblicazione della relazione della Commissione d'inchiesta.
Volendo salvare le responsabilità delle forze di governo senza compromettere l'esercito né discutere la condotta della guerra, la Commissione rigettava la colpa di Caporetto su alcuni generali, e in primo luogo su Cadorna e il C., accusandoli di aver logorato le truppe con sforzi eccessivi e di aver male impostato e condotto la battaglia difensiva. Queste accuse non erano infondate, ma acquistavano un ingiusto risalto dalla copertura di molte altre responsabilità politiche e militari e dalla mancanza di una valutazione complessiva delle condizioni in cui la guerra era stata decisa e portata avanti. Al governo Nitti premeva però di chiudere le polemiche col minor danno possibile; perciò il 3 sett. 1919 fu annunciato il collocamento a riposo di Cadorna e del C. (e di altri generali di minor rilievo), nominativamente indicati come i veri responsabili del disastro.
Contro questa condanna morale il C. condusse una lunga e appassionata battaglia. Subito dopo il collocamento a riposo aveva indirizzato al governo un memoriale difensivo, chiedendo un giudizio in contraddittorio; faceva poi seguire una petizione al Senato per ottenere una nuova inchiesta. Nel 1920 si rivolse all'opinione pubblica con due libri (editi dalla casa Treves di Milano): Per la verità, specialmente diretto contro la relazione della Commissione d'inchiesta, e Note di guerra, in cui era ripresa criticamente tutta la sua esperienza bellica, con l'appoggio di una ricca documentazione, per la prima volta resa nota al pubblico con tanta larghezza. Contemporaneamente il C. prendeva parte attiva al dibattito sulla riorganizzazione dell'esercito, scrivendo nell'inverno 1919-20 sul Giornale del popolo otto articoli (poi riuniti in volume all'inizio del 1920 nelle edizioni de La Voce, col titolo L'ordinamento dell'esercito e la prefazione di A. Soffici) aspramente polemici verso le gerarchie militari.
Il C. criticava duramente lo Stato Maggiore e l'intera "classe militare", accusata di conservatorismo e spirito di casta; chiedeva addirittura "un regime di liquidazione, sia pure graduale" per l'esercito permanente tradizionale e riponeva ogni fiducia nell'avvento della nazione armata e nella valorizzazione di tutte le forze vive del paese, a cominciare dagli ufficiali di complemento. Queste posizioni furono coerentemente sviluppate negli anni seguenti con un'attiva battaglia a favore di tutti i tentativi di rinnovare le istituzioni militari, portata avanti su vari giornali, tra cui ricordiamo Il Resto del Carlino e nel 1922 Il Secolo di Milano.
L'atteggiamento critico verso gli ambienti militari e politici dominanti e la profonda fede nella necessità di un rinnovamento della vita italiana, di cui fossero protagonisti gli ex combattenti, spinsero il C. ad aderire al fascismo già nel 1920, anche se alcuni fogli fascisti non gli avevano risparmiato attacchi per la rotta di Caporetto. Non ebbe però responsabilità o cariche nel partito, anche se nel 1922 Mussolini lo incaricò di un sondaggio presso Nitti in vista della costituzione di un governo di unione nazionale. La sua adesione al fascismo culminò con la partecipazione in camicia nera alla grande parata del 31 ott. 1922 per festeggiare il successo della marcia su Roma. Nel febbraio 1923 il Gran Consiglio del partito fascista sancì l'incompatibilità tra l'iscrizione al partito e quella alla massoneria; la decisione ebbe applicazione graduale, ma il C., che era sempre attivo e molto influente nella massoneria di palazzo Giustiniani, non esitò a restituire subito la tessera fascista. Non passò però all'opposizione, tanto che nell'inverno 1923-24 svolse una missione informativa riservata in Germania per conto di Mussolini.
Nel frattempo giungeva al termine l'opera di una Commissione nominata dal ministro della Guerra nell'aprile 1922 su istanza del Senato, cui il C. aveva richiesto il riesame delle sue responsabilità nella sconfitta di Caporetto. La nuova Commissione, pur accettando il quadro d'insieme fornito dalla precedente Commissione d'inchiesta nel 1919, alleggerì di molto gli addebiti mossi al C., facendo salva la sua lealtà di comandante e i suoi sentimenti di umanità e interesse per i soldati e sostenendo l'impossibilità di attribuire la responsabilità di un così grave disastro soltanto ad alcuni uomini. Queste nuove conclusioni non vennero però rese pubbliche, perché il governo fascista (secondo quanto testimonia la figlia del generale, Laura Borlenghi Capello) condizionò la riabilitazione del C. alla sua rottura con la massoneria e ad una sua pubblica dichiarazione di adesione al fascismo. Il C. preferì rifiutare nettamente, preferendo l'isolamento (nel novembre del 1924 anche Cadorna fu promosso maresciallo da Mussolini) al rinnegamento dei suoi principi; e le conclusioni della seconda Commissione d'inchiesta furono pubblicate solo nel 1946 dalla figlia Laura.
Il delitto Matteotti, lo strangolamento delle libertà politiche e l'inasprirsi dell'offensiva fascista contro la massoneria portarono gradualmente il C. ad una opposizione sempre più ferma. Anche in questo rifiutò mezzi termini e nei primi mesi del 1925 si adoperò insieme con l'esponente socialdemocratico Tito Zaniboni per la creazione di una rete insurrezionale antifascista, denominata "Pace e libertà" e inizialmente sostenuta dalla massoneria. Si convinse però presto della mancanza di basi dell'impresa e si trasse in disparte. Invece Zaniboni, incoraggiato da agenti provocatori della polizia, si diede a organizzare un attentato a Mussolini. Fu arrestato il 4 nov. 1925, prima di aver potuto dare esecuzione ai suoi propositi; il giorno seguente pure il C. fu arrestato e accusato di complicità nella preparazione dell'attentato, senza che nulla di concreto potesse essere provato a suo carico. Il processo, celebrato nell'aprile 1927 dinanzi al Tribunale speciale e dominato dalle esigenze propagandistiche del regime, si concluse con la condanna del C. a trent'anni di reclusione e la sua radiazione dai ruoli dell'esercito. Già prima del processo, la propaganda fascista non aveva esitato a farlo oggetto di infamanti accuse vecchie e nuove, che non potevano non lasciare traccia nella produzione pubblicistica e storiografica sulla guerra mondiale.
Dopo una serie di penosi trasferimenti in varie carceri comuni, in seguito al peggioramento delle condizioni di salute alla fine del 1928 il C. fu destinato a una clinica di Formia, dove trascorse anni relativamente sereni nonostante la stretta vigilanza. Nel 1935 fu trasferito a Roma e all'inizio del 1936 rimesso in libertà con un provvedimento di fatto, benché la condanna continuasse ad essere formalmente in vigore. A suo favore sembra si adoperassero alte personalità militari, Cadorna e poi Badoglio, con molta discrezione però. Gli ultimi anni furono amareggiati dall'impossibilità di riavere la divisa ed i gradi di un tempo.
Il C. morì a Roma il 25 giugno 1941.
Fonti e Bibl.: F. Malgeri, La guerra libica, Roma 1970, ad Indicem;pref. di R. De Felice a L. Capello, Caporetto perché?, Torino 1967; P. Pieri, L'Italia nella prima guerra mondiale, Torino 1965 (con ampia nota bibliografica, da integrare con P. Alatri, La prima guerra mondiale nella storiogr. ital. dell'ultimo venticinquennio, in Belfagor, XXVII [1972], 5, e XXVIII [1973], 1); A. Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia, Firenze 1918; Id., La ritirata del Friuli, Firenze 1919; P. Pieri-G. Rochat, Badoglio, Torino 1965; G. Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari 1967; P. Melograni, Storia polit. della grande guerra, Bari 1969; L. Borlenghi Capello, Numero 3264: generale C., Milano 1946; E. Morelli, I fondi archivistici del Museo centrale del Risorgimento: le carte del gen. C., in Rass. stor. del Risorgimento, L (1963), pp. 550-55; C.Pettorelli Lalatta, Ancora del generale C.,ibid., LI (1964), pp. 263-66.