MELEGARI, Luigi Amedeo
– Nacque il 19 febbr. 1805 a Meletole, frazione di Castelnovo di Sotto, nell’attuale provincia di Reggio Emilia, da Pietro e Maria Simonazzi, contadini di modesta condizione.
Avviato agli studi grazie all’aiuto di uno zio canonico, conseguì la laurea in giurisprudenza nell’Università di Parma. Dopo un inizio come maestro elementare, fu insegnante di belle lettere a Parma. Dopo la repressione dei moti liberali del febbraio 1831, ai quali aveva partecipato, passò l’Appennino, probabilmente per imbarcarsi dalla costa tirrenica verso la Francia. Arrestato nel Granducato di Toscana il 30 aprile, fu rinviato a Parma dove nel settembre 1831 fu processato e messo al bando dal Ducato, con l’obbligo di tornare in patria, di presentarsi alla polizia estense e sottostare al suo controllo. Sottrattosi peraltro ben presto a tale vincolo, espatriò nella Francia meridionale; a Marsiglia nel 1832 incontrò G. Mazzini, al quale si legò. Si dedicò quindi attivamente (con il nome di battaglia di Facino Cane) all’organizzazione della Giovine Italia, della cui congrega centrale fece parte con Mazzini, J. Ruffini e altri: Mazzini lo apprezzò sia dal punto di vista teorico sia sul piano giuridico-amministrativo sia per la capacità organizzativa.
Presso di lui si svolsero i tormentati colloqui per una cooperazione fra gli aderenti alla setta dei Veri Italiani, guidati da F. Buonarroti, e la Giovine Italia (1832); tramite lui passò la guida di quest’ultima nella Francia sudorientale dopo che Mazzini era stato costretto ad abbandonare Marsiglia per la Svizzera; a lui risalgono alcuni contributi per progetti costituzionali elaborati in questi anni in previsione del successo dei moti rivoluzionari. Da un’adesione totale agli ideali di Mazzini lo separava però sin dagli inizi una certa propensione monarchica e un radicato cattolicesimo, che –uniti a un temperamento moderato – nel corso del tempo lo portarono a differenziare notevolmente le scelte ideali, politiche e istituzionali da Mazzini.
Nel novembre 1833 anche il M. si trasferì in Svizzera e da Ginevra partecipò alla preparazione della fallita spedizione mazziniana in Savoia del febbraio 1834, a cui però all’ultimo momento non prese parte denunciando gravi motivi di salute. Nella primavera 1834, a Berna, fu – con Mazzini e Ruffini – fra i 17 giovani firmatari della Giovine Europa, che associava esuli italiani, tedeschi e polacchi; nell’agosto 1835 Mazzini gli cedette il posto di rappresentante della Giovine Italia nel comitato centrale della Giovine Europa, ma il M. nutriva già qualche dubbio sull’effettiva incidenza di tale associazione dal punto di vista politico e operativo. Nel frattempo il M. cominciò a mostrare perplessità riguardo all’efficacia della propaganda cospirativo-insurrezionale mazziniana, visti gli insuccessi operativi degli ultimi due anni (Piemonte, Tolone, Napoli, Savoia, Genova).
In seguito alle difficoltà frapposte alla dimora in Svizzera dalle autorità locali a causa della sfortunata spedizione di Savoia, il M. fra l’ottobre e il novembre 1834 tornò in Francia, prima a Lione, poi a Montauban, ove fu aiutato dai nobili parmensi esuli Francesco Bertioli e Giacomo Sanvitale, a cui era sempre stato molto legato. Un altro esule parmense con cui il M. in questo periodo aveva rapporti è Antonio Gallenga, l’isolato ideatore mazziniano dell’inattuato regicidio di Carlo Alberto, di cui il M. probabilmente aveva avuto conoscenza diretta. Dopo poco meno di un anno di soggiorno in Francia, il M. nel luglio 1835 poté tornare in Svizzera, ritrovando Mazzini e riprendendo i contatti con la Giovine Italia e la Giovine Europa. Restò in Svizzera altri due anni, per lo più a Losanna, sotto il falso nome di Thomas Emery, originario di Malta.
Nel gennaio 1837 la partenza obbligata di Mazzini dalla Svizzera per Londra rese più autonomo il M.; fu più libero di intrattenere nuovi rapporti interpersonali, per esempio con l’esule G. Scovazzi (inviso a Mazzini), che sotto falso nome aveva insegnato lingua italiana nell’Accademia universitaria di Losanna. Questi gli fece conoscere influenti docenti locali, come Charles Monnard, Charles ed Edouard Secrétan. Nell’autunno 1837 il M. lasciò però nuovamente Losanna per ricongiungersi, a Montauban, agli esuli parmensi: vi ritornò un anno dopo, nel settembre 1838, ospite della famiglia dell’avvocato Giovanni Mandrot, da tempo protettore suo e dei mazziniani. Nell’ottobre – grazie anche all’interessamento di Scovazzi – fu candidato a tenere un corso di economia politica all’Accademia di Losanna. L’occasione sfumò, ma il favore del rettore Monnard consentì al M. di inserirsi nell’ambiente culturale cittadino: poté così conoscere il pastore protestante Alessandro Vinet, Ch.-Fr. Sainte-Beuve e A. Mickiewicz.
La frequentazione di questo gruppo d’intellettuali nel 1840 gli aprì finalmente le porte dell’Accademia di Losanna. All’inizio ottenne di svolgere, gratuitamente, un corso di 3 ore settimanali di economia politica nel semestre invernale, che però – dato il successo ottenuto – gli fu poi retribuito; nel secondo semestre gli fu assegnato un corso retribuito di diritto internazionale europeo. Nell’autunno 1841 ebbe l’incarico di tali insegnamenti per un triennio, a cui nel 1842-43 se ne unì un altro di storia e filosofia del diritto. All’inizio del 1843 il M., con la malleveria di due notabili locali, poté svelare la sua vera identità e fu accolto dalla Municipalità di Losanna (1° febbr. 1843). Nello stesso anno ottenne la nomina a professore ordinario di economia politica e diritto internazionale all’Accademia. Nel maggio 1843 svolse la sua prolusione su un tema significativo come quello della legittimità del diritto di proprietà, sottolineandone il carattere «naturale» nella vita dell’uomo.
La corrispondenza con Mazzini, diradatasi negli ultimi anni per quanto ancora attenta ai problemi della Giovine Italia, si interruppe dopo il luglio 1843. Nel 1844, legandosi ancora più strettamente alla famiglia che da tempo lo ospitava, il M. sposò la terz’ultima figlia di Mandrot, Maria Carolina, probabilmente la stessa per la quale Mazzini dimostra in parecchie lettere dall’esilio londinese una platonica propensione. Forse fu questa la causa dell’interruzione dello scambio di lettere fra i due esuli, nonché di una certa acredine di alcune successive affermazioni di Mazzini verso il Melegari.
Il governo cantonale, fiducioso delle sue competenze giuridiche, incaricò il M., ormai definitivamente inserito a Losanna, anche della consulenza per un’annosa questione tra il Vaud e il Cantone di Friburgo riguardo al lago di Morat. La situazione cambiò dopo il rivolgimento politico del febbraio 1845: i nuovi capi politici del Cantone di Vaud, fautori della Chiesa nazionale contro quella libera sostenuta invece dal pastore Vinet e dai professori dell’Accademia, decisero che i docenti in contrasto con la loro impostazione lasciassero l’insegnamento. Nel dicembre 1846 il Consiglio di Stato cantonale dichiarò che nell’Accademia erano sospesi, fra gli altri, i corsi di economia politica e di diritto internazionale, cosicché il M. perse il posto e rimase privo di reddito.
Tutto il 1847 passò con la speranza di una nuova sistemazione, in specie a Parigi, ove le conoscenze nell’ambiente liberalmoderato della monarchia di Luigi Filippo – da Pellegrino Rossi ad Mickiewicz ad alcuni ministri – gli lasciavano sperare persino in un incarico al Collège de France. Il M. passò gran parte dell’anno nella capitale francese, ma riuscì solo a ottenere promesse per l’anno successivo. La rivoluzione del febbraio 1848 spazzò però via le speranze di sistemazione del M., il quale volse le sue speranze all’Università di Torino, anche in conseguenza del clima di rinnovamento in atto.
La facoltà di «leggi» dell’Università di Torino era in via di rinnovamento dal 1846, dopo il ripristino della cattedra di economia politica affidata al napoletano Antonio Scialoja. Il M., tramite Gioberti, si era già interessato a essa, ma era stato informato che per il momento non c’era alcuna possibilità di sistemazione. Nel frattempo la riorganizzazione della laurea quinquennale in giurisprudenza aveva previsto pure un biennio successivo, «completivo», per quei laureati che desiderassero approfondire le loro conoscenze per accedere al Collegio dei dottori ed eventualmente aspirare all’insegnamento universitario. Per tale biennio erano introdotte alcune nuove materie, tra cui diritto pubblico interno ed esterno, che nel 1847-48 era stato destinato a uno dei migliori docenti locali, il giobertiano F. Merlo. Questo insegnamento dopo la concessione dello statuto veniva ad acquisire un rilievo particolare, perché illustrava – con indubbie implicazioni politiche – il nuovo regime costituzionale a quell’élite di laureati che seguiva il biennio «completivo». Nell’agosto 1848 Merlo era divenuto ministro ed era prevedibile che non avrebbe potuto dedicarsi all’insegnamento in modo adeguato: grazie a contatti anche personali (tra l’altro con il ministro dell’Istruzione C. Bon Compagni), il M. riuscì a far prendere in seria considerazione a Torino la sua candidatura a tale cattedra.
Nell’ottobre 1848 il M. ricevette ufficialmente e accettò la proposta ministeriale per la cattedra di diritto pubblico interno ed esterno, con il confortevole stipendio annuo di 4200 lire per l’anno accademico 1848-49. Il periodo rivoluzionario e mazziniano era ormai finito, sostituito da quello costituzionale e liberale.
La cattedra affidata al M. comportava l’illustrazione in un anno del diritto pubblico interno (in pratica il costituzionale), nell’anno successivo di quello esterno (in pratica l’internazionale). Data la congiuntura politica, il M. iniziò con il costituzionale, materia che riprese ancora l’anno dopo, per l’indubbio significato di tale insegnamento nel Regno di Sardegna, unico Stato italiano in cui era rimasto in vigore l’ordinamento costituzionale.
Sul piano politico questo sembrò di particolare rilevanza all’élite dirigente sabauda: nel 1850 il Parlamento subalpino confermò la regolarità annuale del corso di diritto costituzionale, istituendo in parallelo un’altra cattedra per l’insegnamento del diritto internazionale (pubblico, privato e marittimo) affidata a P.S. Mancini. In tal modo il M. concentrò il suo insegnamento sul diritto costituzionale: dal 1856 questo fu poi spostato dal biennio «completivo» al quinquennio di laurea e divenne quindi obbligatorio per tutti gli studenti di giurisprudenza.
Proprio da tale anno il M. consentì la stampa delle dispense dei suoi corsi di un biennio. Si può dire che le dispense delle lezioni del 1856-57 e del 1857-58, tra loro complementari (Sunti delle lezioni di diritto costituzionale… 1856-57 compilati da alcuni studenti per uso dei loro condiscepoli…, Torino [1857]; Sunti delle lezioni… 1857-58…, ibid. [1858]), vengono a fondare – insieme con il contemporaneo Corso di diritto costituzionale di L. Casanova – la dottrina costituzionalistica in Italia.
Le lezioni rivelano nel M. una particolare sensibilità per la storia e la teoria generale del diritto: ciò si nota tanto nell’ampia trattazione iniziale sullo sviluppo delle istituzioni politiche dall’antichità all’Ottocento quanto nel successivo esame dei singoli argomenti. A differenza del coevo manuale genovese di Casanova, condotto con più specifica prospettiva tecnico-giuridica, la raccolta delle lezioni del M. tende a una formazione culturale generale dello studente, in modo che questi abbia presente la collocazione storica e concettuale dei diversi istituti e la rilevanza politica delle scelte costituzionali, secondo una prospettiva nella quale elemento fondamentale è quello della libertà politica.
L’impostazione storica è pienamente liberale, molto vicina alla tradizione parlamentare inglese, ispirata anche dai principî di libertà enunciati nella Francia del 1789, perplessa già verso la costituzione del 1791 e contraria a quella del 1793, critica verso il regime napoleonico ma decisamente favorevole verso la sua codificazione e i principî dell’eguaglianza civile, contraria all’assolutismo della Restaurazione ma ben disposta verso la costituzione francese del 1814 e a maggior ragione verso quella del 1830. La «monarchia rappresentativa» prevista dallo statuto albertino sembra infine godere di una particolare stima nelle dispense del 1857 e 1858: oltre ai possibili motivi di opportunità sempre ipotizzabili in un esule, si può constatare nel M. un indubbio e notevole cambiamento di prospettiva rispetto ai primi anni – mazziniani– d’esilio. Ciò non esclude però che, entro il filone liberale, egli segua spesso pure l’impostazione teorica «dottrinaria» più vicina in Piemonte alle posizioni democratiche.
In armonia con l’interpretazione più liberale e aperta dello statuto albertino, avanzata dai democratici (ma pure dal Risorgimento cavouriano) sin dalla concessione, il M. parte dal presupposto che lo statuto – per quanto «perpetuo ed irrevocabile» – possa essere sempre modificato per la volontà concorrente del re e del popolo, impersonato – in una monarchia «rappresentativa» – dal Parlamento. Esso, inoltre, deve essere interpretato secondo «lo spirito» che lo anima, superando la stretta espressione delle parole. È l’avvio della tesi della flessibilità e dell’elasticità dello statuto, seguita successivamente dalla dottrina costituzionalistica italiana.
In primo luogo per il M. merita sottolineare, difendere e propagandare come essenziali i principî liberali presenti nella costituzione: a un’ampia trattazione della loro portata il corso dedica la parte iniziale e principale del primo anno, anche se il testo albertino vi si sofferma poco e in maniera sfumata e solo dopo aver trattato diffusamente la disciplina della figura del re. In fin dei conti, questa è l’acquisizione più significativa del regime costituzionale, su cui il M. reputa opportuno attirare l’attenzione degli studenti. Particolare sviluppo viene riservato alla libertà religiosa, di per sé esclusa dal primo articolo dello statuto, ma ben presto affermatasi con la legislazione e la prassi successive, nonché alla trattazione dei rapporti Stato-Chiesa secondo una concezione separatista che ripercorre le posizioni teoriche del pastore svizzero Vinet e offre una costruzione concettuale e storico-giuridica alle posizioni della politica cavouriana, di cui si gioverà pure P.C. Boggio, che succederà al M. nell’insegnamento torinese.
L’accentuazione del significato politico-costituzionale della previsione statutaria di una «monarchia rappresentativa» consente al M. di riconoscere una posizione piuttosto forte alla Corona, ma di limitarne il peso politico, per pretenderne una presenza piuttosto discreta, di garanzia istituzionale, secondo il principio per cui il re «regna ma non governa». È, nel complesso, l’impostazione cavouriana di una monarchia parlamentare, nella quale l’esercizio del potere esecutivo – formalmente con in capo il re – è affidato in concreto ai ministri e al governo, che ne rispondono politicamente al Parlamento e devono godere della fiducia di questo. La più ridotta concezione statutaria di una monarchia costituzionale pura del periodo di M. Taparelli d’Azeglio è superata da questa diversa lettura dello statuto, che dal decennio cavouriano passa poi al Regno d’Italia e ai costituzionalisti successivi, dimostrando il rilievo dell’insegnamento a suo tempo impartito dal M. dalla cattedra torinese.
Esso è, peraltro, ispirato pure da una buona dose di moderatismo: si dichiara apertamente monarchico, considera nel complesso più che buono l’ordinamento costituzionale subalpino sviluppatosi da una costituzione piuttosto limitata come lo statuto albertino, difende il suffragio ristretto, illustra e giustifica l’ampiezza della prerogativa regia, rifiuta la Costituente. Non è da escludere che in un decennio le lezioni siano venute cambiando: quelle degli ultimi anni del suo insegnamento attestano un’impostazione non solo prudente ma in parecchi casi ispirata al filone liberalmoderato. Il M., d’altronde, in più occasioni negli ultimi decenni della sua vita rivendicò una propria autonomia di giudizio, che faceva di lui un «liberale», senza ulteriori precisazioni di campo: il suo pensiero aspirava a dipendere unicamente dal suo ragionamento e non da specifiche scelte ideologiche.
Il M. si era rapidamente ambientato nella vita politica e culturale subalpina, appoggiato soprattutto all’inizio dai democratici e poi dai moderati, conservando peraltro uno specifico legame con U. Rattazzi. Già nel corso della seconda legislatura, sulla scia della prevalenza dei democratici, nel marzo 1849 fu eletto alla Camera – in sostituzione di un altro noto esule, S. Tecchio – nel collegio di Bricherasio, folto di elettori valdesi sensibili anche al legame del M. con l’ambiente culturale vaudese e con il pastore protestante Vinet.
Nelle elezioni successive, del luglio 1849, il M. ottenne l’appoggio sia dei giornali democratici sia di quelli moderati e fu eletto con una certa facilità. Il sostegno della stampa moderata non gli fu però sufficiente per essere ancora eletto nel turno seguente del dicembre, nonostante la palese affermazione dei moderati, a cui sembrava ora maggiormente legato. Era però ormai un personaggio di un certo rilievo: rientrò perciò alla Camera nella stessa legislatura grazie all’appoggio cavouriano nell’elezione suppletiva del dicembre 1851 nel collegio alessandrino di Bosco, dove fu rieletto in modo plebiscitario nel 1853; nelle successive elezioni del 1857 lo spostamento nell’ancor più lontano collegio di Bobbio lo vide soccombente, fors’anche a causa della generale difficoltà dei candidati governativi di fronte all’offensiva del clero e dell’ambiente conservatore. Può aver pesato inoltre la polemica giornalistica de L’Armonia, che accusò il M. di connivenza nel 1833 con il tentato regicidio di Gallenga, per quanto il giornale – chiamato in causa dal M. – fosse in seguito condannato dalla magistratura (Processo per diffamazione intentato dal prof. cav. L.A. Melegari, deputato, al giornale L’Armonia, Torino 1857).
Dopo essere stato nel 1859 segretario e relatore della commissione governativa per l’aggiornamento – con maggiori aperture – della legge elettorale, nel 1860 egli fu eletto a rappresentare nel Parlamento subalpino il collegio emiliano di Correggio, in cui venne rieletto nel 1861 per la prima Camera dei deputati del Regno d’Italia, che lasciò peraltro ben presto per il Senato, ove fu nominato nel novembre 1862.
La partecipazione del M. alle discussioni parlamentari non fu molto assidua: piuttosto, egli si dedicò alla redazione o collaborazione per vari progetti legislativi, alcuni anche di rilievo (si veda, per esempio, la Relazione e progetto della facoltà di legge, in Studi e proposte intorno alla Pubblica Istruzione in Piemonte, Pinerolo 1851). In questa attività il suo contributo fu incisivo e apprezzato, a livello sia tecnico sia politico. In casa sua, secondo la testimonianza di D. Berti, si svolse il primo colloquio diretto fra Cavour e Rattazzi nella prospettiva del successivo riuscito connubio. Nel novembre 1852, di fronte alle polemiche contrarie alla politica laicista del governo, preparò a sostegno di questa uno studio sul matrimonio civile, che fu esaminato tanto da Rattazzi quanto da Cavour. Poco dopo, nel dicembre 1852, svolse alla Camera la relazione di sintesi sulle petizioni pervenute circa l’incameramento dei beni ecclesiastici, che Jemolo (1911) ha considerato «un’ottima relazione […], uno dei più preziosi contributi portati in questo periodo alla soluzione del problema della proprietà ecclesiastica», su cui si è ancora basata la politica governativa del 1854-55. In materia, infatti, per lo stesso Cavour le opinioni e le soluzioni prospettate dal M. erano valide e affidabili e univano alla costruzione teorica la concretezza operativa.
Nel 1856 il M. fu relatore alla Camera del progetto di legge per l’istruzione elementare e anche in seguito prese parte ai progetti riguardanti la Pubblica Istruzione. Nel 1857 pubblicò uno studio (Question de Mentone et de Roccabruna, Turin 1857), sollecitato dal governo sabaudo, circa la sovranità su Mentone e Roccabruna, pretesa dal Regno di Sardegna dopo il rifiuto del principe di Monaco di considerare proprie tali località in conseguenza della loro ribellione nel 1848.
Queste sue qualità indussero nel 1859 il governo Ferrero della Marmora-Rattazzi a nominare il M. membro del Consiglio di Stato. Egli pertanto lasciò l’insegnamento e rafforzò d’ora in poi il suo legame con Rattazzi. Nel 1860 il M. fu l’unico fra i deputati dei Ducati a votarlo come presidente della Camera, con disappunto di Cavour. Il rapporto privilegiato con Rattazzi si consolidò nel 1862, quando questi – presidente del Consiglio e, tra marzo e dicembre, anche ministro degli Esteri – lo scelse quale segretario generale al ministero degli Affari esteri e il 30 nov. 1862 lo fece nominare senatore. Tornato il Rattazzi alla presidenza del Consiglio dopo un quinquennio (aprile-ottobre 1867), lo riportò al ministero degli Esteri ancora come segretario generale e nell’ottobre lo fece nominare ambasciatore italiano a Berna quale ministro plenipotenziario presso la Confederazione Elvetica.
Dopo vent’anni il M. ritornava quindi in terra elvetica in ben altra veste, sensibile però ai legami spirituali e materiali a suo tempo intessuti, fors’anche un po’ disilluso della piega presa dalla politica italiana. Vi restò come ambasciatore italiano con il titolo di ministro di Stato sino alla morte. Durante questa missione dovette allontanarsi dalla Svizzera, perché nominato ministro degli Esteri nel primo governo Depretis (marzo 1876), ove peraltro non brillò in modo particolare.
Il M. morì a Berna il 22 maggio 1881.
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G.S. Pene Vidari