SPINOLA, Ludovico
– Nacque a Genova nella prima metà del XVI secolo da Stefano.
Appartenne a uno dei più antichi e prestigiosi casati nobiliari della Repubblica di Genova, e poté contare tra i suoi antenati illustri uomini politici nonché, tra i suoi discendenti, lo scrittore seicentesco Andrea Spinola. Il padre Stefano ricoprì incarichi di rilievo nell’amministrazione cittadina, partecipò ad ambascerie e legazioni, ma fu anche uomo di cultura: si interessò agli studi sacri, attraverso il filtro di S. Paolo e soprattutto di Erasmo.
Stefano incentivò un culto famigliare dell’umanista di Rotterdam, inserendo le sue opere, in particolare l’Enchiridion militis christiani, tra i testi fondamentali della formazione dei figli, tra i quali anche Ludovico: un altro figlio, Pasquale, mercante in Inghilterra, tentò di entrare in contatto con Erasmo, così come lo stesso Stefano che gli offrì ospitalità nella sua dimora genovese.
Pochi anni più tardi un’esponente femminile della famiglia, Caterinetta Spinola, patrocinò la traduzione dell’opera De la preparatione alla morte di Erasmo, edita a Venezia nel 1539 con il proposito di diffonderne il contenuto rendendolo accessibile ai meno istruiti e soprattutto alle donne.
Nelle sere d’inverno Ludovico e il padre erano soliti ritrovarsi sotto le logge, vicino al porto, con altri patrizi a discutere e interrogarsi sull’ortodossia di Erasmo, a testimonianza della vivacità intellettuale delle cerchie colte di commercianti e aristocratici genovesi. Non dissimile fu in quegli anni la venerazione per Erasmo da parte del diplomatico e finanziere genovese a servizio del re di Francia, Giovan Gioachino da Passano, che fece tradurre in volgare la Paraphrasis in Mathaeum evangelistam, uscita sotto il nome del traduttore, l’umanista Bernardino Tomitano, a Venezia nel 1547.
Dopo aver studiato con il grecista Giacomo Furnio, collaboratore di Agostino Giustiniani, Ludovico redasse un trattato rimasto manoscritto, risalente al periodo tra il 1528-1530, il De reipublicae institutione.
Si tratta di un’opera di precettistica pedagogica e politica al tempo stesso che riprende i modelli di trattatistica quattrocentesca caratteristici dell’umanesimo civile italiano. Il De reipublicae institutione si configura come un testo di istruzione del giovane patrizio, ma nel tempo stesso del buon cittadino, attraverso il recupero di esempi tratti dall’antichità, il ricorso insistito ad autori classici come Cicerone, Aristotele e Platone, e il costante riferimento al modello della respublica romana. L’umanista genovese riflette su alcuni concetti chiave quali la distinzione tra vita attiva e vita contemplativa, e la contrapposizione tra la sapientia, virtù più speculativa considerata dall’autore troppo lontana dalle preoccupazioni del vivere quotidiano, e la prudentia, virtù sociale funzionale al perseguimento del bene comune. La predilezione per la prudentia è segno del pieno coinvolgimento nell’attività politica, economica e sociale della città: esponente del patriziato genovese, Ludovico ne esalta il caratteristico pragmatismo, con l’ambizione di fondere insieme otium e negotium. Anche per chi come l’autore risulta impedito dalle precarie condizioni di salute a servire la propria patria con le armi, l’attività politica o quella mercantile, si apre la possibilità dunque di rendersi utili al bene comune attraverso la riflessione filosofica e l’attività letteraria.
Ancorato saldamente al contesto urbano del suo tempo, il trattato presenta diversi riferimenti a esponenti di spicco della classe dirigente, magnificati per aver concorso a restituire la libertà alla città dopo decenni di oppressione straniera. L’allusione è alla riforma del 1528 attraverso la quale Andrea Doria e uomini a lui vicini come Sinibaldo Fieschi, amico di Ludovico, impressero una svolta epocale nella collocazione diplomatica e nell’organizzazione dei poteri cittadini: da un lato la riforma sganciò Genova dall’orbita francese per inserirla nella sfera d’influenza imperiale di Carlo V, dall’altro modificò la regolazione dell’accesso all’élite del potere e alle principali cariche, ormai gelosamente custodite da un ristretto numero di famiglie del patriziato, tra le quali figuravano anche gli Spinola. Non sorprende dunque che la lunga dedica a Doria si configuri come un omaggio cortigiano a colui che oltre ad aver restituito la libertà alla Repubblica, aveva concorso a rafforzare il ruolo sociale e politico dei ceti dominanti, ostacolando fortemente la mobilità sociale di artigiani e mercanti. Il testo repubblicano di Spinola diventava così una celebrazione dell’oligarchia al potere, consapevole della sua forza e dei suoi privilegi, fiduciosa di trovare nuovo slancio politico ed economico all’interno della penisola e dell’Europa dominata dall’aquila imperiale.
Nonostante la ripresa letterale di alcune espressioni e alcuni vocaboli, dal punto di vista della concezione politica l’autore pare allontanarsi di molto dal modello erasmiano: al pacifismo internazionalista dell’olandese viene contrapposta una bellicosa fierezza municipale, non scevra di aggressive progettualità di espansione. Ma a contraddistinguere il trattato di Spinola è la capacità di associare a una riflessione sul buon cittadino, caratteristica del repubblicanesimo civile e umanistico, considerazioni di natura religiosa tratte, in questo caso fedelmente, dai testi di Erasmo, in particolare dall’Enchiridion. Al centro non si trovano più i riti tradizionali della religione cittadina, ma piuttosto un tipo di spiritualità rinnovata, sobria, incentrata sulla lettura dei testi sacri e sull’esercizio di attività caritative, nella prospettiva di un cristianesimo etico e sociale, utile al progresso della comunità urbana. Traspare tra le righe il riferimento polemico a una religione contemplativa, dogmatica e rituale, lontana dalle sofferenze e dalle esigenze quotidiane dei fedeli, con accenni critici che in qualche caso paiono ammiccare alle idee luterane.
Nutritosi anche dei contatti con alcuni protagonisti della vita religiosa dell’Europa dell’epoca quali Iohannes Dantiscus, l’approccio di Spinola si ispira agli ambienti del Divino Amore, confraternita dedita all’assistenza dei meno fortunati, che proprio in quei decenni si sviluppò con successo a Genova e poi in altre città della penisola, e che trovò saldo sostegno nella classe dirigente cittadina. Vicini alle posizioni di Spinola furono anche altri umanisti genovesi quali Agostino Giustiniani, Battista Fieschi, Stefano Sauli, esponenti di spicco della colta cerchia costituitasi attorno ai fratelli Federico e Ottaviano Fregoso nel corso degli anni Dieci del Cinquecento. La saldatura tra lo spirito civico repubblicano e gli ideali erasmiani di riformismo religioso, talvolta aperti a inquietudini spirituali e sfociati nel dissenso nei confronti della Chiesa di Roma, si esaurì nell’arco di pochi decenni, quando la repressione delle autorità politiche, ormai schierate sulle posizioni più rigide della Chiesa controriformista, avrebbe progressivamente prosciugato gli spazi di libera discussione e confronto.
Dalle fonti non risultano notizie sulla data di morte di Ludovico Spinola.
Fonti e Bibl.: Opus epistolarum, Des. Erasmi Roterodami, a cura di H.M. Allen - P.S. Allen, XI, Oxford 1941, pp. 115-122. Due lettere di Spinola si trovano a Uppsala, Universitetsbiblioteket, Epistolae ad Iohannem Dantiscum, H 154, ff. 34-35, 43 (ora trascritti in Seidel Menchi, 1978). La versione manoscritta del trattato De reipublicae institutione, più completa e arricchita da alcuni altri documenti in appendice riguardanti l’autore e l’opera, è conservata a Modena, Biblioteca estense, Raccolta Campori, 487; due altre versioni sono conservate a Genova, Biblioteca Durazzo, A.III.28 e Genova, Biblioteca Universitaria, B. I. 15 (alcuni estratti sono riprodotti in appendice a Seidel Menchi, 1978); Genova, Biblioteca civica Berio, manoscritti rari, VIII. 2. 32: Alberi genealogici di diverse famiglie nobili, compilati et accresciuti con loro prove dal molto reverendo fra’ Antonio Maria Buonaroti, sacerdote professo del Sagr’Ordine Gerosolimitano in Genova, distribuita in tre tomi, manoscritto cartaceo del 1750, I-V, p. 264.
M. Dezza, Istoria della famiglia S. descritta dalla sua origine fino al secolo 16, Piacenza 1694; G.G. Musso, La cultura genovese fra il Quattro e il Cinquecento, Genova 1958, pp. 171-173, 184-187; S. Seidel Menchi, Passione civile e aneliti erasmiani di riforma nel patriziato genovese del primo cinquecento: L. S., in Rinascimento, XVIII (1978), pp. 87-134; C. Bitossi, Due modelli di educazione repubblicana nella Genova del Seicento negli scritti di Andrea S. e Gio. Francesco S., in Annali on line della didattica e della formazione docente, 2013, n. 6; M. Viroli, Come se Dio ci fosse. Religione e libertà nella storia d’Italia, Torino 2009, pp. 114 s.