MONTALTO, Ludovico
– Nacque a Siracusa da Antonio, barone di Prato e Milocca, e da Maria de Acuña, imparentata col viceré di Sicilia Ferdinando, nella seconda metà del Quattrocento.
Il M. era primogenito di sette fratelli: Giambattista (a favore del quale nel 1495 rinunciò ai feudi), Francesco (al cui figlio, Antonio, avvocato fiscale in Sicilia, dal 1539 reggente in Spagna, avrebbe ceduto la rendita di cargator di Agrigento), Onofrio e Luigi (cavalieri gerosolimitani), Lucrezia ed Eleonora (monache).
Si formò probabilmente a Padova, dove ascoltò le lezioni di Digestum Vetus tenute da Giasone del Maino. Il 28 apr. 1500, Ferdinando il Cattolico lo promosse avvocato fiscale del Regno di Sicilia, al posto (e su istanza) del suocero Niccolò di Sabia: il M. aveva infatti sposato, in data imprecisata, la nobildonna siciliana, Vincenza di Sabia. Il privilegio di nomina concedeva l’officio in solidum, a beneficio del superstite. Nel 1508 acquistò da Giovan Tommaso Gioeni i feudi Lizzari (o Le Sciare) e Collibassi. Nello stesso anno re Ferdinando lo nominò reggente della Vicaria o, più probabilmente, della Cancelleria napoletana. L’incarico maturò in una congiuntura concitata, sulla quale le ricostruzioni dei primi storiografi delle istituzioni cinquecentesche non collimano.
A detta di Tassone, i catalani Giovanni Lonc e Tommaso Malferit, «assumpti» dal re Cattolico durante il suo soggiorno a Napoli e rientrati con lui in Spagna il 30 giugno 1507, furono rimpiazzati dai reggenti creati dal re, vale a dire il M. e il catalano Girolamo de Coll. Sarebbero quindi gli ultimi due citati i primi reggenti, come inclina a credere Giannone. Da una lettera di re Ferdinando inviata al M. da Gualajara l’11 ott. 1508 si evince, invece, che il M. subentrò in Cancelleria per effetto di un avvicendamento. Il sovrano, infatti, lo avvertiva che a seguito della morte di Lonc, «Rigiente nuestra Cancellaria y del nuestro Consejo», si era reso necessario provvedere tale organo «de otro Letrado»: lo sollecitava perciò a trasferirsi a Napoli, dove il viceré Juan de Aragón conte di Ribagorza lo avrebbe istruito degli affari «de Justicia, como de Estado». Accettato l’incarico, il M. si spostò con la famiglia a Napoli, dove il 1° dic. 1508 prese «solenne possesso» dell’ufficio (Di Gennaro, II, pp. 86-88). Restano, d’altronde, enigmatiche le origini del Consiglio del Collaterale, che probabilmente si avvaleva inizialmente di funzionari in servizio anche presso altri offici: lo dimostrerebbe il fatto che nel 1514-15 (Consulte e bilanci, pp. 221, 354) e ancora nel 1521 (Pedio, p. 454) i reggenti, il M. e de Coll, ricevevano 400 ducati annui per «aiuto di costa», ossia supplementari rispetto al salario.
In pochi mesi, il M. s’inserì da protagonista nei delicati equilibri della politica napoletana. Il 25 maggio 1509, nel corso di un dibattito tra gli eletti riguardo alla fallita rimozione del grassiere Roberto Bonifacio, nobile di Portanova, il M. definí il rappresentante di Capuana Goffredo Caracciolo «uno presentuoso» e ne ordinò l’arresto: il gesto provocò la reazione della nobiltà, costrinse il viceré a scusarsi e sollevò «gran tumulto» (Pedio, p. 191). Il 18 ott. 1509 accolse in città il vescovo di Cefalú, Rinaldo di Montoro e Landolina, del quale la cronaca di Notar Giacomo sospettava la segreta missione di introdurre l’inquisizione romana nel Regno.
Il 24 giugno 1510, all’epoca della santa Lega contro Venezia, il viceré Ramon Folch de Cardona, ricevuta la nomina di «capitan generale di tutti gli eserciti del Re e della Chiesa», ordinò che «alla sua partita per suo Luogotenente governasse il Cardinale di Sorrento [Francisco Remolines], una col Collaterale Consiglio di Sua Maestà, però Ludovico di M. faceva tutto» (Racconti, n. 3, p. 529). Remolines assunse la luogotenenza il 2 sett. 1511 e, salvo brevi interruzioni, tenne le redini del governo sino al 23 febbr. 1513, allorché fu convocato al conclave seguito alla morte di Giulio II. Il M. restava nelle grazie del Cattolico, che nel 1514 gli donò la rendita «sopra le Fosse d’Agrigento» e il feudo la Chioppeta presso Capua e intrattenne con lui un carteggio cifrato.
Dopo la morte di Ferdinando, nell’aprile 1516 il nuovo re Carlo d’Asburgo invocò da Bruxelles una legazione dalla città di Napoli. Di questa ambasceria fece parte anche il M., che ne trasse cospicui vantaggi personali. Una cedola reale partita da Bruxelles il 15 luglio a firma di Carlo e della regina Giovanna gli confermò gli offici perpetui di reggente della Cancelleria nella Sicilia citeriore e di avvocato fiscale in quella ultra pharum; il privilegio gli riconosceva le prerogative di reggente non solo entro i confini del Regnum ma anche in Regia Curia nostra e in tutti i domini della Corona. Il 31 ag. 1516 una nuova lettera regia indirizzata al viceré Cardona assegnava al M. in burgensatico «cento moggi di territorio paludoso in Poggio Reale»: all’omaggio si aggiunsero «alcune cospicue case» nel seggio di Nido e, alla morte del barone Luigi Casalnuovo, il casale di Striano in Terra di Lavoro (Di Gennaro, II, pp. 94-98; Cernigliaro, 1983, I, pp. 253-254, n. 238). La legazione a Bruxelles tuttavia alimentò sospetti in patria. Il 16 febbr. 1517, da Valladolid, in un documento indirizzato agli eletti e all’università di Napoli, il sovrano smentiva che la mancata concessione delle grazie alla città fosse da addebitare alla «no buena relatione, y estorvo» del M., il quale, «fiel servidor», non aveva perpetrato alcun «mal officio» durante la missione: sicché non meritava maltrattamenti (Privilegii et Capitoli, p. 124).
Dalle tabelle prosopografiche di Toppi, risulta che il M. rimase in carica come reggente dal 1508 sino al 1521; dal 1517 si aggiunse Sigismondo Loffredo, dal 1519 Marcello Gazzella; nel 1520-21 si sarebbe ricomposta la terna formata dal M., de Coll, Loffredo.
L’Instrucción di Carlo V del 22 marzo 1518, che delineava una riforma istituzionale nel Regno, nominò commissari Giovanni Battista Spinelli conte di Cariati, il M. e il borgognone Charles Leclerc (a Napoli già dal 1517 come commissario e controllore generale delle finanze), incaricandoli di cooperare con il viceré Cardona. Dai registri di Cancelleria e dagli ordini di viceré e Collaterale risulta che dall’8 giugno 1518 al solo M. fu attribuito il titolo di commissario generale del Regno. Il 14 marzo 1520, all’unanimità, il Seggio di Nido aggregò il M. (Di Gennaro, II, p. 99; difforme la data in Mugnos, II, p. 185). Per protesta, gli eletti della piazza di Capuana si dissociarono dal Parlamento del 20 nov. 1520, nel quale il M. propose di stanziare un donativo di 1.300.000 ducati. Il 19 ott. 1521, il viceré Cardona nominò il M. vicario generale del Regno.
L’interregno apertosi alla morte di Cardona, ossia dal 10 marzo al 16 luglio 1522 (data di insediamento del viceré Charles de Lannoy), fu gestito dal Collaterale di Stato e guerra. In quella congiuntura, i «reggenti togati» erano de Coll, Gazzella e Giovan Bartolomeo Gattinara (Parrino, p. 89). I provvedimenti del Collaterale recavano alternativamente la firma di Andrea Carafa, conte di Santa Severina, e di Giovanni Carafa, conte di Policastro, oltre che il visto dei reggenti. È dunque probabile che il M. tenesse, nell’occasione, un ruolo piuttosto defilato. Oltretutto, dalla corrispondenza di Carlo V con i suoi rappresentanti in Italia relativa al 1522-23 traspaiono alcune incomprensioni per aver il M. accordato nel 1523 la mano della figlia Lucrezia a Luigi Caetani d’Aragona, nipote ex matre di re Ferrante I e figlio di Onorato duca di Traetto: quest’ultimo sospettato di complicità con i veneziani e i francesi.
Un nuovo interregno decorse dal 20 ott. 1523, quando Lannoy partí per Pavia in qualità di capitano generale della Santa Lega; luogotenente del Regno divenne Andrea Carafa, decano del Collaterale. Da alcuni documenti risulta che il M. avrebbe accompagnato Lannoy in Lombardia come «supporto anche diplomatico», grazie all’esperienza maturata durante una missione presso Clemente VII (Sicilia, p. 250). Non sarebbe dunque esatta la notizia, riferita da Mongitore, secondo cui il M. avrebbe assunto funzioni dirigenti durante l’assenza di Lannoy. Certo è che in una memoria datata Pavia 28 dic. 1523 il viceré sottolineava il prezioso contributo ricevuto dagli «estrangiers» presenti nel Collaterale, citando espressamente de Coll, Gattinara e «Messire Lodowique» (Pilati, p. 28, n. 57).
Durante la luogotenenza di Andrea Carafa, il M. fu coinvolto nella violenta polemica tra sedile di Porto ed eletto del popolo relativa al servizio di guardia alle porte della città. Davanti a oltre ventimila napoletani assiepati sotto al palazzo vicereale, egli gridò frasi ingiuriose e provocatorie alle quali rispose l’eletto del Popolo, notar Aniello Lanciano. Carafa riuscí poi a trovare un compromesso, approvato dal re, tra i nobili di Porto e il seggio popolare: sicché «restarono contente tutte due le parti, solo restò l’odio al popolo» contro il M. (Racconti, n. 3, pp. 543-544).
Un nuovo interregno, gestito dal Collaterale, si aprí da giugno del 1526, alla morte del conte di Santa Severina. Il governo passò al nuovo decano, Giovanni Carafa conte di Policastro, affiancato da Ugo Moncada, dal cardinal Colonna e dai reggenti de Coll, dal M. «ed altri Signori» (Racconti, n. 4, p. 668).
Di ritorno dalla Spagna, Lannoy spedì al M., il 7 genn. 1527, su ordine di Carlo V, un privilegio con cui gli conferiva l’officio di doganiere del sale a Castellammare di Stabia. Ancora nell’agosto 1531 era stanziata in bilancio, a questo titolo, una somma di 11.000 ducati a beneficio degli eredi del Montalto.
Nonostante le incongruenze tra le fonti, sembrerebbe che il M. assumesse ampie responsabilità di governo alla partenza di Lannoy per Roma nel marzo 1527 e le conservasse fino all’insediamento – alla morte di Lannoy nel settembre 1527 – del luogotenente generale del Regno Ugo Moncada.
Il M. fu ascritto tra i forastieri dell’Accademia pontaniana. Uno dei membri piú illustri, Jacopo Sannazaro, gli dedicò la sesta elegia del libro II (Ad L. M., Syracusanum, Caroli Caes. Scrinii Magistrum), che accostava la radice del cognome Mons Altus alle vette dell’Etna e registrava la fama proveniente dalla Belgica terra. La medesima assonanza ricorre nell’epigramma di Pietro Gravina Ad L. M. Syracusanum. Analoghi versi elogiativi gli furono rivolti da Cariteo nell’Endimione (Minieri Riccio, pp. 6-7).
Il 4 apr. 1528 il M. era ancora attivo nella suprema magistratura napoletana. In quella data Carlo V accolse un’istanza di ricusazione contro il M. avanzata da Giovanni de Guevara, conte di Potenza. Agli inizi di maggio 1528, sotto la minaccia dell’assedio di Lautrec e della peste, Napoli si svuotò, soprattutto dai nobili e dal ceto dirigente. Il M. «con tutti di sua casa colle robbe tutte, insino alli chiodi e alle incerate delle loro case, imbarcate in una nave, in Sicilia fu fuggito con altri officiali» (Racconti, n. 4, p. 670). Suona dunque poco verosimile la notizia secondo cui nel 1528 il M. sarebbe stato inviato a Palermo dal luogotenente generale Moncada e dal successore Filiberto di Chalons principe d’Orange, generale dell’esercito imperiale, per reclutare truppe in vista della resistenza a Lautrec (Di Gennaro, II, p. 104).
Incerta la data di morte. Secondo Rosso, il M. si spense a Palermo il 28 luglio 1528 e non nel 1533 come vorrebbe una «congettura» (Mongitore) tramandata da Toppi (Catalogus, p. 149) e seguita ancora da Orlando e Mira. Minieri Riccio (p. 5) ipotizza che il M. «vivea tuttavia nel fine del 1528», come dimostrerebbe un privilegio del viceré d’Orange, e sarebbe morto nel 1530 a Napoli.
Il testamento era stato redatto a Palermo il 24 luglio 1528 davanti al notaio Giovan Giacomo Palmula. Il M. fu temporaneamente seppellito nella chiesa palermitana di S. Domenico, ma il testamento impose di costruire, grazie al ricavato dalla vendita del fondo «paludoso» presso Poggioreale, una cappella nella chiesa napoletana di S. Maria del Popolo agli Incurabili (poi affrescata da Belisario Corenzio). In attesa del trasferimento della salma, il pronipote Massimo, duca di Fragnito, dettò nel 1612 una lapide che ricordava come l’illustre antenato fosse scampato alla peste, avesse fronteggiato la crisi annonaria, sedato i tumulti siciliani, combattuto vittoriosamente a Bologna (Di Gennaro, II, pp. 104-106; D’Engenio; Catalani).
Dal matrimonio con Vincenza di Sabia, nacquero cinque figlie femmine e altrettanti maschi: Lucrezia, che nel 1523 sposò Luigi Caetani d’Aragona (figlio di Onorato, duca di Traetto e principe d’Altamura) e poi, in seconde nozze, Cesare Cavaniglia, feudatario di S. Marco; Giovanna (sposa nel 1532 del barone di Forino Carlo Cicinello); Agata (che nel 1532 sposò un fratello di Fabrizio Cicinello, fratello di Forino Carlo); Laura (monaca nel monastero del Gesú); Costanza (moglie di Scipione Gambacorta marchese di Celenza); Giovan Massimo (che sposò nel 1538 Aurelia Caracciolo, dei duchi di Martina, da cui ebbe, oltre a tre figlie monache, Ludovico jr., dal 1553 signore di Arienzo, e Virgilio, marito di Porzia Capece, vero continuatore della dinastia, signore di Fragnito dal 1574 e, negli anni Ottanta, di importanti feudi in Capitanata, morto il 21 ag. 1588), Giovan Carlo, Cesare, Niccolò Antonio e Fabrizio. La strategia matrimoniale della famiglia mirò a consolidare i rapporti con la feudalità napoletana soprattutto attraverso la linea femminile. Dal suo canto, Vincenza di Sabia seppe incrementare il patrimonio feudale dopo la morte del marito: nel 1530 comprò dal principe di Salerno la terra di S. Giorgio e numerosi casali, nel 1533 il feudo di Arienzo, in Terra di Lavoro.
Il profilo del M. «meriterebbe maggior attenzione» (Cernigliaro, 1988, p. 270, n. 75), anche in virtú di una produzione a stampa interamente postuma e dai contenuti originali. L’opera più nota è il Tractatus pulcherrimus ac multa revertus eruditione super reprobatione sententiae Pilati (pubblicato nel Tractatus illustrium in utraque tum pontificii, tum caesarei iuris facultate Iurisconsultorum, XIV, Venetiis 1584, cc. 8r-23r) dedicato al conte di Avellino Giacomo Caracciolo. Il testo, elaborato durante un soggiorno a Parigi, si rivolgeva probabilmente a un pubblico di studenti e auditores.
La quaestio disputanda consiste nella fondatezza dei crimina imputati a Cristo dai perfidi Iudaei (art. IV, n. 1, f. 16r). E si conclude nel senso della colpevolezza di Pilato, non giustificabile né dalla predestinazione (in quanto fu lui a strumentalizzare Cristo, e non viceversa) né dal timore per la folla (dal momento che il popolo è docendus, non sequendus dal magistrato (§ Et haec sufficiant, nn. 1-50, ff. 17v-20r). Il comportamento di Pilato fornisce all’autore lo spunto per sferrare un violento attacco contra iudices nostri temporis, che rendono una giustizia contaminata da personalismi, nepotismo, cupidigia e pronta a opprimere i deboli contra veritatem. In una veemente digressione l’invettiva si estende ai chierici, impegnati più a procurarsi cani e falconi da caccia (o addirittura ad agire da venatores puellarum) che alla cura delle anime (§ Et haec sufficiant, nn. 58-60 e 72-7, cc. 20r-21r). Agli ebrei, apostrofati come perfidi ac durae cervicis ed accusati di omicidio e parricidio, il M. nega – sulla scorta dei maestri del Commento – qualsiasi dignitas; invita a trattarli in giudizio con rigore e utilizzando la legum subtilitas. Egli condivide la tesi, sostenuta da Giason del Maino nella lectura patavina di D. 2.11.9, secondo cui i giudei non possono purgare la mora perché non si applica loro l’aequitas. Il giurista siciliano stigmatizza la perfidia ebraica più di quella dei maomettani: tanto che due consilia di Oldrado e di Ludovico Romano avevano ritenuto che l’ebreo convertito all’islamismo, avendo scelto la via meno cattiva, non andasse punito (§ Vos inquam, nn. 1-16, ff. 22r-23r). Il trattato sfiora incidentalmente un punto centrale nel dibattito giuspolitico d’inizio Cinquecento, laddove esalta i meriti, nella difesa della cristianità contro ebrei ed eretici, dei re di Spagna e di Francia, «duo luminaria» liberi dalla soggezione all’Impero (art. IV, n. 3, f. 16r). Il De reprobatione fu citato nell’Apparatus Sacer di Possevino. Il tópos del processo a Pilato fu ripreso da Paolo Francesco Perremuto, Declamationi sacre dell'innocenza di Giesu Christo nel tribunale di Pilato… (Palermo 1670).
Un qualche rilievo ebbero le Annotationes del M. ai Commentari di Pietro de Gregorio sul censo bollare (Ad Bullam Apostolicam Nicolai V et Regiam Pragmaticam Alfonsi de Censibus Annotationes, in P. de Gregorio, Ad Bullam Apostolicam Nicolai V et R. Pragmaticam Alphonsi Regis, De Censibus Commentaria Cum Antiquis et Novissimis * Additionibus Don Garsiae Mastrilli […]. Quibus accesserunt Scholia diversorum Doctorum, numquam antea edita […], Panormi 1609, pp. 311-317). Il sintetico scritto, riproposto, con titolo pressoché identico, nella seconda edizione palermitana dell’opera di De Gregorio (pp. 143-145), si affianca ad altre «brevi chiose» rimaste parimenti inedite sino ad inizio Seicento (La Mantia, p. 75). Muovendo dal presupposto che, causa subsistente, il papa potesse dispensare dall’usura, giacché la bolla di Niccolò V (1452) consentiva d’incassare la decima sui censi, il M. illustrava singoli punti della norma pontificia, con particolare attenzione alle implicazioni contrattuali, ipotecarie e possessorie.
Analoga l’impostazione conferita dal M. alle Apostillae super Ritu Regni Siciliae, confluite in M. Conversano, Commentaria Super Ritu Regni Siciliae scribentium Quae in curiis, Ad Decisionem causarum necessaria, ante manu scripta ab omnibus allegabantur…, Panormi 1614, pp. 135-142 [rectius 137-44]. Le postille si articolano in brevi commenti ai singoli capitoli del rito della Magna Regia Curia emanato da Alfonso d’Aragona nel 1446. Il filo conduttore consiste nell’esecutorietà degli instrumenta, esaminata alla luce della dottrina e talora con rinvii alla prassi (cap. XCIX, p. 135), ovvero mettendo in risalto le incongruenze rispetto al diritto comune (cap. CII, p. 135; cap. CXLV, p. 140).
Altre Annotationes del M. si evincono dalle Aureae Decisiones Regiae Curiae Regni Siciliae di Francesco Milanese (Panormi 1624). Questa raccolta non solo contiene frequenti citazioni, anche letterali, delle note montaltiane alla bolla di Niccolò V, ma richiama anche un commento del M. al capitolo Volentes, laddove aveva sostenuto che la madre potesse liberamente disporre del feudo tra i figli, a meno che non vivesse iure Francorum (Pars I, dec. VIII, nn. 109-110, f. 55v).
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