MONETA, Ludovico
– Nacque a Milano, nella parrocchia di S. Andrea al Muro Rotto, nel 1521, ultimo figlio di Pietro, che apparteneva ai 60 decurioni della città, ed Elisabetta Carcano, figlia del senatore giureconsulto Gerolamo, sposatisi nel 1514.
Le informazioni più attendibili sul M. sono state raccolte nell'anonima Relatione della vita, morte et virtù di mons. L. M. sacerdote e nobile milanese. Si conservano due codici manoscritti: C. Marcora, nel Mons. L. M. collaboratore di san Carlo in una biografia coeva, ha trascritto il primo, tralasciando le pur importanti postille settecentesche del secondo, che risultano a tutt’oggi inedite; il raffronto tra le due versioni lascia ipotizzare l’esistenza di una terzo manoscritto, non reperito. Altre fonti sono gli inediti rogiti notarili di Giovanni Pietro Scotti e Giovanni Stefano Busti.
Insieme con i fratelli Giovanni Ambrogio, Paolo Camillo, Giovanni Battista e Ferrante e le sorelle Francesca e Camilla il M. ebbe una infanzia travagliata dai disagi della guerra che opponeva l'imperatore Carlo V al re di Francia Francesco I per il possesso del Ducato di Milano. Secondo la Relatione, fu sottratto alla famiglia dagli Imperiali e imprigionato in S. Gregorio per ottenere dal padre una taglia; nel 1525 fu trasferito alla corte ducale, allora asserragliata nel Castello, dove Francesco Sforza «si trastullava alle volte con l’acutezza delle risposte di questo figliuolo» (Marcora, 1963, p. 446). Rimasto intanto orfano di madre (1523) e di padre (1527), fu avviato agli studi dalla sorella gemella della madre, Elena Arconati. Nel 1536 frequentò l'ateneo patavino, dove dedicò poco impegno alle lezioni, preferendo allo studio del diritto la pratica delle arti cavalleresche della caccia, del ballo e della musica. Stanco degli otia nobiliari, nel 1541-43 intraprese con il maggiore dei suoi fratelli, Giovanni Ambrogio, un impegnativo viaggio lungo le principali città della penisola, durante il quale maturò un progressivo cammino di conversione religiosa.
Il rientro a Milano fu segnato da un radicale cambiamento di costumi. Il M. e i suoi fratelli Giovanni Ambrogio e Ferrante si ritirarono nella villa di famiglia a Ponte di Seveso, appena fuori le mure cittadine di Porta Nuova, dove vissero per 12 anni da eremiti.
Destinarono un terzo delle loro entrate a un’inesausta pratica caritativa, con l’elargizione settimanale di elemosina ai poveri vergognosi della città e con il ricetto temporaneo di mendicanti forestieri, e coltivarono un’intensa vita spirituale, nutrita da letture devote dei Padri della Chiesa e da «ragionamenti famigliari spirituali» (ibid., p. 450) indirizzati a quanti si avvalevano del loro soccorso materiale. Nel 1557 il M. diede compimento alla propria vocazione religiosa con la consacrazione presbiteriale, da lui vissuta sempre in piena umiltà – si firmò per tutta la vita col solo appellativo di «prete» – e nel rispetto della più antica e migliore disciplina ecclesiastica ambrosiana. Condivise la sua scelta di vita con alcuni sacerdoti della chiesa di S. Sepolcro (per mancanza di documenti non sono chiari i rapporti fra questi consacrati e la confraternita presbiteriale di S. Corona); come loro, indossò un abito clericale di foggia antica, cui mai rinunciò. Solo in ottemperanza ai decreti sinodali di Carlo Borromeo relativi alle vesti per i presbiteri della diocesi, pure ispirati a quel modello, accettò di radersi la barba e di lasciare il mantello.
Nel 1564 Nicolò Ormaneto, pochi mesi dopo la nomina a vicario generale, nell’intraprendere la riforma dei conventi femminili scelse il M. quale confessore delle monache di S. Marta, probabilmente in virtù del rapporto di lunga data che questi aveva con il monastero, dove da anni si recava ogni giorno a officiare gratuitamente la messa e dove nel 1540 si era monacata col nome di Bona Francesca la sorella minore. Il M. resse l’ufficio per 7 anni, stimato dalle monache come «sacerdote di vita santissima» (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Trotti, 210 sup., c. 57) e apprezzato dallo stesso arcivescovo Borromeo, che da allora lo ebbe sempre come «ministro» nella riforma dei monasteri femminili.
Fu questo uno dei molti ambiti in cui il M. prestò la propria opera a servizio del progetto di riforma pastorale di Borromeo, che sin dal 1565 lo chiamò a far parte della corte arcivescovile come maestro di casa e maggiordomo.
Non ha trovato riscontro documentario la qualifica, riportata da Sitoni di Scozia, del M. quale canonico ordinario della Chiesa metropolitana di Milano e non si sono individuate fonti specifiche relative alla sua carriera ecclesiastica, sebbene sia possibile ricostruire i dettagli degli impegni di curia da lui sostenuti attraverso lo spoglio dell’imponente fondo dei notai della Curia arcivescovile presso l’Archivio di Stato di Milano, l’esame delle visite pastorali e dei regesti della corrispondenza della Curia, presso l’Archivio diocesano della curia di Milano, nonché l'analisi del carteggio con i due Borromeo, conservato nella Biblioteca Ambrosiana.
Il M. svolse le sue mansioni al servizio dell'arcivescovo Carlo Borromeo senza mai pretendere alcuna ricompensa, né alcuna prebenda, vivendo sempre parcamente e continuando a destinare in elemosina la gran parte del suo ricco patrimonio familiare. Similmente agirono i suoi fratelli, Ferrante e Giovanni Ambrogio; alla loro morte, il 5 sett. 1570 il M. donò la propria quota di eredità paterna ai fratelli superstiti, Giovanni Battista e Paolo Camillo. Alla prematura scomparsa di quest’ultimo, nel 1576, il M. rinunciò all'ufficio di mastro di casa, per provvedere alla cura dei nipoti, Luigi, Alessandro e Girolamo, che ospitò nella sua casa e avviò agli studi.
Gli oneri familiari non gli impedirono di affiancare validamente Carlo Borromeo nelle sue numerose visite pastorali e apostoliche, sopportando con serenità tutti i disagi di questo incessante peregrinare. Già nel 1566 aveva partecipato alla prima visita della chiesa cattedrale di Milano e nell’agosto 1569 aveva affrontato la protervia dei canonici di S. Maria della Scala, renitenti, per motivi di competenze giurisdizionali, a riconoscere l’autorità di Borromeo, annunciando loro la visita arcivescovile, stante il beneplacito della Curia romana. Nel 1575 accompagnò l’arcivescovo nelle diocesi di Cremona e Bergamo e nel 1578 fu a fianco di mons. Bonomi, visitatore apostolico a Como e a Novara, in rappresentanza dell’arcivescovo, con il quale nel corso del 1583 perlustrò il territorio di Coira. Il santuario di Loreto (1572), l’eremo di Camaldoli (1579), il sacro monte di Varese (1584) e per ben tre volte la Sacra Sindone a Torino (1578, 1581, 1584) furono le mete devote dei pellegrinaggi che condivise con Borromeo, godendo del privilegio, talora esclusivo, di vegliare in preghiera con lui.
Oggetto di venerazione privata, il culto delle reliquie sacre fu proposto, per volere dell’arcivescovo, alla pietà dei fedeli e il M. si distinse per la sua competenza nell’opera di ricognizione e traslazione dei corpi santi (cfr. la ricognizione delle reliquie dei santi Nabore e Felice il 5 sett. 1571 e quella in S. Vincenzo in Galliano del 15 marzo 1584). L’attività rientrava nel più vasto progetto di riqualificazione degli edifici sacri e dei loro arredi liturgici, perseguito strenuamente da Borromeo, che nel 1576 istituì ad hoc l’ufficio del praefectus fabricae Ecclesiae. In quanto «studiosissimus» (Pagano, p. 54) del decoro ecclesiastico, il M. rivestì da subito il nuovo incarico, nel quale riversò saperi e abilità maturati sin dagli anni dell’eremitaggio a Ponte Seveso, dove si era dedicato allo «studio dell’architettura, massime di Vitruvio» e delle «matematiche» (Marcora, 1963, p. 450), dilettandosi della produzione di orologi. Capillare fu la sua presenza sul territorio, in stretta collaborazione con gli architetti, primo fra tutti Pellegrino Tibaldi, e a lui è attribuita «quanto alla sostanza» (ibid., p. 451) la redazione dei due libri delle Instructiones fabbricae et supellectilis ecclesiasticae (Milano, P. Ponzi, 1577), nel 1583 inseriti negli Acta Ecclesiae Mediolanensis quale testo normativo di riferimento per l’architettura sacra controriformata della diocesi di Milano. Similmente contribuì alla fase ideativa delle Instructiones de sacramento ordinis, edite in latino negli Acta, mediante una prima stesura in volgare (Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 330 inf.).
La condotta di vita del M. fu per se stessa specchio esemplare degli ideali riformatori di Borromeo, che in nome della profonda sintonia spirituale con il M. lo volle suo confessore e gli affidò la gestione dei suoi lasciti testamentari. Dopo aver organizzato i funerali dell’arcivescovo nel 1584, il M., nel rispetto della di lui volontà, mise in vendita gli oggetti di pregio dell’eredità – quadri, suppellettili sacre, preziosi – devolvendo in elemosina il ricavato e conservò con geloso riserbo le scritture private a lui affidate, insieme con lo «scrittoio» che le custodiva e che fu tramandato per via ereditaria come reliquia carolina: nel 1677 era ancora conservato nella casa da nobile in contrada di Brera, che il M. progettò e fece costruire fra l’ottavo e il nono decennio del Cinquecento.
Durante l’episcopato di Gaspare Visconti (1584-95) gli impegni pastorali si concentrarono nella cura dei monasteri femminili e nella partecipazione autorevole ad alcune congregazioni di curia, fra cui quella per la riforma del breviario ambrosiano, presieduta da Carlo Bascapè, che nel frattempo attendeva alla redazione della biografia di Borromeo. Il M. sostenne tutte le fasi del lavoro, fornendo a Bascapè in visione lettere e scritture private del Borromeo e patrocinando a sue spese la stampa dell’opera a Ingolstadt nel 1592, d’intesa con Federico Borromeo. Alla morte di Giovan Francesco Bonomi (1587), cui Borromeo aveva assegnato in eredità le proprie prediche manoscritte, il M. recuperò i preziosi codici, destinati alla Biblioteca Ambrosiana. Il rapporto privilegiato con il più giovane Borromeo risaliva almeno al 1580, quando il M. ne aveva incoraggiato la consacrazione presbiteriale; nel 1586-87, poi, lo aveva accompagnato a Roma come membro del suo seguito.
Tornato Federico a Milano in qualità di arcivescovo nel 1595, il M. lo servì come maestro di casa e, nonostante l’età ormai avanzata, lo affiancò nell’opera di riforma pastorale, come già era avvenuto con Carlo. Fu prezioso collaboratore dell’arcivescovo nella gestione di alcuni dei collegi sorti in diocesi per la formazione di chierici e laici: riorganizzò in particolare la gestione economico-amministrativa del Collegio Elvetico, voluto da Carlo, e curò la redazione delle costituzioni del Collegio Borromeo di Pavia, secondo il disegno e l’intenzione del defunto fondatore.
La principes del testo a stampa fu pubblicata solo nel 1652 dalla Stamperia arcivescovile col titolo Constitutiones Almi Collegii Borromaei Ricini quas de mente s. Caroli Borromaei card. et archiep. Mediol. Ludovicus Moneta scripsit approbaruntque summi pontifices Sixtus Quintus et Paulus V anno 1587 et 1610. L’opera contiene il testo delle costituzioni elaborato dal M. e modificato dai decreti federiciani sottoposti ad approvazione papale nel 1610. La complessa elaborazione da parte del M. si ricostruisce sulla scorta del codice ambrosiano L 121 inf., che contiene una prima, ancora incerta, stesura, dalla quale deriva il testo dei manoscritti A e B dell’Archivio del Collegio Borromeo, la cui versione fu inviata in lettura al papa Sisto V per l'approvazione e copiata in un secondo codice ambrosiano segnato F 202 inf., datato al 1585 e sottoscritto dal Moneta.
Incessante fu poi la cura per i monasteri femminili. Ancora nell’estate del 1597 si sobbarcò la reggenza del vicariato delle monache, in sostituzione di mons. Porro, e mai venne meno ai suoi doveri di padre spirituale delle monache di S. Marta – dove nel 1581 aveva preso nel frattempo i voti con il nome di suor Tecla la nipote Giulia, figlia del defunto Paolo Camillo – e delle madri cappuccine di S. Prassede, chiamate in diocesi da Carlo, loro confessore. In un primo testamento del 23 sett. 1586 il M. assegnò loro un legato per una messa quotidiana, lasciando alla sorella suor Bona i due orologi («uno grande da contrapesi et uno da tavola con svegliatore», Arch. di Stato di Milano, Notarile, 14404), costruiti a Ponte Seveso. Nell’ultimo decennio di vita, in ragione anche della vicinanza con la sua abitazione in Porta Nuova, presso la parrocchia di S. Eusebio, intensificò i rapporti con le cappuccine di S. Barbara, pure affidate alla sua direzione spirituale: a loro, nel suo secondo e definitivo testamento, assegnò il legato per una messa quotidiana e a loro donò una croce pendente che, secondo Oltrocchi, sarebbe da identificarsi con quella donata da Carlo Borromeo al Moneta.
Il M. morì a Milano il 25 marzo 1598 e il giorno seguente fu seppellito in S. Maria della Grazie presso il sepolcro di famiglia. Curò le esequie il nipote Luigi, che impiegò per le spese alcune suppellettili sacre d’argento lasciate dal M., e l’anno seguente inviò alcune reliquie caroline, autenticate dal M., a suo fratello Gerolamo, monaco nella certosa napoletana di S. Lorenzo in Padula, e altre ne lasciava poi in eredità al figlio, Ludovico Antonio, che nel 1677 le assegnava allo scurolo del duomo di Milano insieme con lo scrittorio del Borromeo.
Fonti e Bibl.: Milano, Biblioteca Ambrosiana, Trotti, 201 sup.: Relatione della vita, morte et virtù di mons. L. M. sacerdote e nobile milanese, 215; Arch. di Stato di Milano, Notarile, 4391, 4392 (notaio G.P. Scotti); 14404 (testamenti del M., 23 sett. 1586 e 1° sett. 1596); Fondo di religione, 1795 (testamento di Luigi M., 31 ott. 1631, notaio Rocco Pipa); Pio Albergo Trivulzio, Orfanotrofio femminile, Stelle e Ochette, cart. 41 (testamento di Ludovico Antonio M., 13 febbraio 1677, notaio Nicolò Magno), 47, 49; Milano, Arch. dell’Ospedale Maggiore, Testatori, cart. 12/43, 12/43bis; Ibid., Arch. storico civico, Famiglie, cart. 1021, 1598; A. Sala, Documenti circa la vita e le gesta di san Carlo Borromeo, Milano 1857-61, II, p. 149; III, pp. 646 s., 672, 774-777; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese ed altri edifici di Milano, IV, Milano 1890, n. 519; C. Marcora, Mons. L. M. collaboratore di san Carlo in una biografia coeva, in Memorie storiche della diocesi di Milano, X (1963), pp. 445-494; C. Bascapè, Vita e opere di Carlo arcivescovo di Milano, cardinale di Santa Prassede: testo latino e italiano, Milano 1965, pp. 161, 229, 381, 439, 479, 805, 819, 902; Lettere del cardinale Federico Borromeo ai familiari, 1579-1599, a cura di C. Marcora, I, Milano 1971, pp. 81-91, 101 s., 112, 127, 131 s., 161 s., 200-202; II, ibid. 1978, pp. 59 s.; B. Taegio, La villa. Dialogo, Milano 1559, in L’antico regime in villa, a cura di C. Mozzarelli, Roma 2004, p. 99; F. Rivola, Vita di Federico Borromeo, Milano 1656, pp. 34, 115; P.P. Bosca, De origine et progressu Bibliothecae Ambrosianae, Milano 1672, p. 54; G. Sitoni di Scozia, Theatrum genealogicum familiarum illustrium nobilium et civium inclitae urbis Mediolani, Milano 1705, ad vocem; G.P. Giussani, De vita et rebus gestis sancti Caroli Borromei ..., Milano 1751, coll. 84 s.; A. Sala, Biografia di san Carlo Borromeo, a cura di A. Sala, Milano 1858, pp. 40, 168; C. Gorla, I trattati spirituali di san Carlo, in San Carlo Borromeo nel terzo centenario della canonizzazione, 1910, p. 489; G.C. Bascapè, L’eredità di san Carlo Borromeo all’ospedale maggiore di Milano. Contributo alla storia della vita milanese nel secolo XVI, Milano 1936, pp. 24-28, 46 s., 77, 214, 238, 242, 248, 267 s., 274 s.; C. Borromeo, Arte sacra (De fabbrica Ecclesiae), a cura di C. Castiglioni - C. Marcora, Milano 1952, pp. 8 s.; G. Vismara, Le costituzioni del collegio da Carlo a Federico Borromeo, in I quattro secoli del Collegio Borromeo di Pavia. Studi di storia e d’arte pubblicati nel IV centenario della fondazione, 1561-1961, Milano 1961, pp. 57-75; C. Marcora, Nicolò Ormaneto, vicario di san Carlo (giugno 1564-giugno 1566), in Memorie storiche della diocesi di Milano, VIII (1961), pp. 284-289, 562-564; A. Scotti, Architettura e riforma cattolica nella Milano di Carlo Borromeo, in L’Arte, V (1972), p. 66; Id., L’archittettura religiosa di Pellegrno Tibaldi, in Bollettino del Centro internazionale di studi Andrea Palladio, XIX (1977), pp. 237 s.; A. Palestra, Le visite pastorali del card. Borromeo al duomo e alla Veneranda Fabbrica del duomo di Milano, in Il duomo cuore e simbolo di Milano. IV centenario della dedicazione (1577-1977), Milano 1977, pp. 156-230, passim; S. Pagano, La tribolata redazione della «vita» di san Carlo del Bascapè, in Studia Borromaica, VI (1992), p. 42; A. Buratti Mazzotta, L’ufficio per le fabbriche ecclesiastiche e i suoi disegni di progetto e di restauro nella riforma di Carlo e Federico Borromeo, in Studi in onore di mons. Angelo Majo per il suo 70º compleanno, a cura di F. Ruggeri, Milano 1996, pp. 150, 153; Instructionum fabbricae et supellectilis ecclesiasticae libri II Caroli Borromei, a cura di M. Marinelli, Città del Vaticano 2000, p. VII; W. De Boer, La conquista dell'anima. Fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma, Torino 2004, ad ind.; A. Turchini, Monumenta Borromaica, I, L’archivio di un principe della chiesa. Le carte segrete di Carlo Borromeo, Cesena 2006, pp. 9, 12, 76, 95-97, 107, 111-119, 122 s., 125 s., 146, 149, 165, 171-173; F. Repishti, Federico Borromeo e gli architetti milanesi. La «scarseggia che hoggidì si trova di simili [valenti] suggetti», in Studia Borromaica, XXII (2008), a cura di F. Repishti - A. Rovetta, pp. 63, 67, 69, 77, 79.