MANNA, Ludovico (Angelo da Messina)
Nacque probabilmente a Messina nel 1514 da famiglia forse di origine spagnola; non sono noti i nomi dei genitori.
Divenuto domenicano con il nome di Angelo da Messina, nel 1542 era a Napoli, in contatto con alcuni di coloro che erano stati seguaci del mistico spagnolo Juan de Valdés, i quali, oltre a credere alla giustificazione per fede, negavano il valore dei sacramenti e della messa. Il 12 ott. 1542 il M., insieme con altri due domenicani, fu fatto arrestare a Como dal castellano Rodrigo d'Arze per detenzione di libri ereticali. Sottrattosi probabilmente all'arresto con la fuga, si trasferì a Venezia, come risulta dai processi inquisitoriali contro uno dei più convinti seguaci di Valdés, il protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi. Secondo quest'ultimo, fra il 1543 e il 1544 il M. visse sotto la protezione di don Germano Minadois, un benedettino cassinese conosciuto a Napoli, che si trovava a Venezia nel convento di S. Giorgio Maggiore. Carnesecchi fu persuaso da Minadois a tenere presso di sé il M. prima che, nel 1543 o nel 1544, questi andasse a insegnare lettere e grammatica ai novizi del convento camaldolese di S. Michele di Murano. Minadois, inoltre, favorì la conoscenza fra il M. e Pietro Antonio Di Capua, arcivescovo di Otranto e seguace di Valdés, in occasione del passaggio a Venezia del prelato nei primi mesi del 1543, in direzione di Trento per prendere parte al concilio.
Ben presto il M. si recò a Otranto al servizio di Di Capua per esercitare le funzioni di maestro di scuola, dietro raccomandazione di Carnesecchi, il quale sapeva che il M. aveva fama di "sacramentario" di stampo zwingliano-calvinista, ma la giudicava una diceria senza fondamento.
Nel 1544 a Otranto il M. conobbe il domenicano Bernardo de Bartoli, che sarà inquisito a Roma nel luglio 1555. Quest'ultimo lo ricordava "come dottore" (Marcatto, 2003, p. 68), intento a tenere scuola con un prete secolare di origine pugliese, il cui nome era forse Giovan Paolo de Cutrofiano. A sua volta l'uditore dell'arcivescovo Di Capua, Ladislao, era al corrente delle opinioni eretiche del M., che verosimilmente condivideva. Secondo de Bartoli, inoltre, il M. avrebbe letto la Scrittura nella cattedrale di Otranto su preciso incarico di Di Capua, il quale, conoscendone le opinioni, era d'accordo sul fatto che, negli incarichi affidatigli, si attenesse all'interpretazione della giustificazione dei credenti data dai luterani. In conseguenza di queste sue opinioni il M. fu rimosso dai suoi incarichi a Otranto.
Ancora de Bartoli, nel processo subito a Venezia nel 1552, attribuirà al M. l'ostilità verso i dettami della Chiesa sul tema della giustificazione e soprattutto in merito al sacramento eucaristico, l'invocazione dei santi, il purgatorio, i voti dei religiosi, l'adorazione della Croce, la confessione sacramentale, l'astinenza dalle carni e altri cibi proibiti, e le cerimonie ecclesiastiche.
Il M. fu predicatore itinerante con il nome di "Alvigi o Aloisio lo spagnolo", e con i suoi interventi tentava di unire i nuclei del dissenso religioso attivi a Siena e nel territorio senese. Nel 1544 faceva parte, insieme con il veneziano Marcantonio (forse Marcantonio Varotta, esule più tardi religionis causa), di una colta "conventicola" ereticale che si ritrovava a Grosseto presso il medico Achille Benvoglienti, e a Siena frequentava il gruppo riunito intorno al barbiere Basilio Guerrieri insieme con i nobili Lelio Sozzini e Orazio Ragnoni.
Nel 1546, nel corso di una predica a un gruppo di artigiani nel palazzo gentilizio dei Tolomei, il M. fu contraddetto da uno scalpellino che aveva avvertito nella predicazione un passaggio troppo brusco: dalla semplice critica istituzionale alla Chiesa, sulla pratica dei digiuni quaresimali e la venalità dei sacerdoti, al dissenso dogmatico consistente nella recisa negazione della presenza di Cristo nell'eucarestia. Allorché Guerrieri fece interrompere la predica, il M. tornò a criticare la vita degli ecclesiastici e il mercificato culto dei santi.
È possibile, inoltre, identificare il M. con il siciliano "Lodovico Messina", denunciato il 2 nov. 1551 dal sacerdote marchigiano Pietro Manelfi all'inquisitore di Bologna, insieme con molti altri sospetti di eresia dispersi in tutta Italia. Il M., che secondo Manelfi era stato carmelitano e che allora era medico, era ospite a Pisa del mercante fiorentino Bernardo Ricasoli (da Riconsoli), il quale negli stessi anni forniva aiuto a numerosi sfratati provenienti da Pisa e Firenze. Secondo il delatore, il M. aveva contrabbandato a Firenze, fra le mercanzie di Ricasoli, due casse di libri "luterani" e in particolare la Quarta parte delle Prediche di Bernardino Ochino e Le cento e dieci divine considerazioni di Valdés. È quindi verosimile ravvisare nel M. il prete che, secondo Ugolino Grifoni, maestro generale dell'ospedale di S. Iacopo dell'Altopascio e uomo di fiducia del duca di Firenze Cosimo I de' Medici, si dedicava nel 1546 a diffondere il dissenso religioso di stampo calvinista nel territorio pisano, d'accordo con Ricasoli, Cola della Magona e Leonardo de' Medici, sotto la guida di un prete sardo, tal Giovanni Battista, in fama di luterano. Anche Carnesecchi nel 1560 testimoniò che, negli stessi anni, il M. era a Pisa, presso lo Studio.
Non meno importante è un'altra affermazione di Manelfi, secondo cui il M. "fece tradurre di latino in volgare la Nicodominicana [sic] fatta dal Calvino et poi la fece stampare in Fiorenza sotto il titolo o impressione di Basilea" (Ginzburg, p. 39). Nell'opera, nota come "Nicodemiana", è da ravvisare la traduzione italiana di uno scritto di Giovanni Calvino composto contro i "nicodemiti", ovvero, secondo il riformatore ginevrino, i simulatori e dissimulatori della vera fede. La traduzione fu effettuata e data alle stampe a Firenze dal letterato piacentino Ludovico Domenichi nel 1550 (secondo la condanna degli Otto di guardia e di balia del 26 febbr. 1552) o, forse, fra l'autunno del 1550 e l'estate seguente, secondo Garavelli. Egli identifica la "Nicodemiana" con Il Libro del fuggir le superstizioni, stampato nel 1551 con la falsa indicazione di Basilea, conservato a Erlangen nell'unico esemplare fino a oggi conosciuto, e ipotizza che l'antigrafo latino sia pervenuto a Domenichi proprio grazie al Manna.
Certamente a Firenze il M. non era un isolato: nella lista di eretici denunciati da Manelfi, compare accanto ad alcuni artigiani e al prestigioso mercante attivo a Lione, Bartolomeo Panciatichi, membro dell'Accademia fiorentina e influente presso la corte. Il M., inoltre, era in contatto a Firenze nel 1551 con il soldato veronese Rinaldino Turchi Marsili, residente di consueto a Lucca. Questi, nel processo da lui subito del 1554, denunciò insieme con il M., indicato come frate agostiniano, l'ex domenicano Cornelio Donzellini, allora trasferitosi a Firenze da Venezia, e alcuni degli artigiani accusati anche da Manelfi. In una scrittura ufficiale, non datata, dei tre commissari deputati a Firenze sopra l'Inquisizione, relativa al processo ai luterani e agli anabattisti catturati alla fine del 1551, Donzellini figura insieme con il M. accanto ad altre personalità legate al mondo delle lettere e dell'editoria, come gli ex religiosi Lelio Carani di Reggio Emilia e il lucchese Pietro Perna, oltre allo stesso Domenichi.
Sottrattosi alle persecuzioni inquisitoriali con la fuga, il M. emigrò a Ginevra, dove fu registrato nel 1552 fra i membri della Chiesa italiana.
Meno sicura è l'identificazione del M. con un Ludovico o Aluviso francese, che aveva soggiornato a lungo a Ginevra quale allievo di Calvino, e che il soldato Rinaldino incontrò nel 1554 a Lucca, fuggitivo da Genova, in casa del mercante Francesco Cattani, dove svolgeva attiva propaganda filoriformata tra gli esponenti dell'Ecclesia Lucensis, invitandoli alla fuga.
Sicuramente nei primi anni Cinquanta il M. si trasferì a Coira, nei Grigioni, per aprire una spezieria ed esercitare l'attività di medico. Lo affermarono nel corso dei rispettivi processi, fra il 1555 e il 1567, G. Basalù e Carnesecchi, che, prima del 1560, lo aveva incontrato una volta per strada, a Venezia o a Padova. In quest'ultima città il M. era allora certamente in rapporti stretti con l'antitrinitario Giorgio Filalete, detto il Turchetto, e probabilmente con altri esponenti del pensiero eterodosso più radicale. A Carnesecchi, in particolare, il M. aveva negato di volere rientrare in seno alla Chiesa, giustificando il proprio momentaneo ritorno in Italia solo con l'intento di comprare medicamenti da portare a Coira.
Il M., che nel 1560 l'Inquisizione romana riteneva sacramentario, apostata e fuggitivo, nel 1567 risultava a Carnesecchi ancora residente a Coira. Dopo questa data se ne perdono le tracce.
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