MANFREDI, Ludovico
Signore di Marradi, Castiglionchio e altri castelli in Val di Lamone, nacque da Almerico di Giovanni di Alberghettino, di un ramo secondario dei signori di Faenza. Non è nota la data della sua nascita: la notizia che il M. diede aiuto militare al congiunto Gian Galeazzo negli anni 1409-10 lascia supporre che egli fosse nato fra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta del Trecento. Non sappiamo chi fosse la madre.
Messeri parla di una Francesca di cui ignora il casato, seconda moglie di Almerico (la prima era stata Antonia di Ludovico da Barbiano, madre di due figlie andate spose ai fratelli Obizzo e Aldobrandino da Polenta) e madre dei tre figli di lui. Il M. ebbe infatti due fratelli, Giovanni e Jacopo, probabilmente più giovani di lui dal momento che, sinché rimase libero e padrone dei propri mezzi, sembra essere stato lui il capo della casata e il detentore della signoria su Marradi.
Questo ramo dei Manfredi di Faenza derivava da Alberghettino, secondogenito di Francesco il Vecchio, signore di Faenza (con qualche intervallo) tra 1313 e 1341. Alberghettino fu decapitato a Bologna nel 1329 e Giovanni, primogenito di Alberghettino, alla morte del padre si era rifugiato nel possesso avito di Marradi, castello e centro di un certo rilievo alla fine della Val di Lamone, sul crinale appenninico ai confini con il territorio fiorentino. La Comunità di Marradi si era spontaneamente offerta in dedizione a Faenza nel 1312. Marradi era al centro di un piccolo gruppo di centri minori montani, alcuni fortificati (come Bettona e Gattara), di grande importanza strategica. Giovanni si garantì la tutela fiorentina cedendo a Firenze il castello di Bettona e divenendone aderente e raccomandato: da Marradi intrattenne rapporti per lo più conflittuali con i cugini signori di Faenza, in particolare con Giovanni di Ricciardo (contro il quale cospirò nel 1352-54). Giovanni morì, secondo Litta, prima del 1388. Il figlio Almerico rimase sotto la protezione fiorentina, servendo la città come capitano di ventura.
Le prime notizie relativamente certe sul M. lo dicono a fianco del lontano cugino Gian Galeazzo nel 1409-10, durante le operazioni che permisero a quest'ultimo di riconquistare Faenza. Immediatamente dopo, peraltro, i rapporti fra i due si guastarono: Gian Galeazzo si era infatti impadronito del castello di Gattara, nell'alta Val di Lamone, sino ad allora parte della signoria di Marradi. Il M. fece ricorso ai Fiorentini per riottenere il castello: Firenze avanzò formali proteste presso Gian Galeazzo, senza ottenere effetto. Non raggiungendo per via negoziale alcun risultato, il M. ritenne opportuno, per tutelare i propri interessi locali, inserirsi in un conflitto ben più ampio.
La Romagna infatti veniva in quegli anni coinvolta negli ultimi atti della grande crisi che aveva travolto il Papato dopo il ritorno in Italia da Avignone. In particolare, nel 1410 Baldassarre Cossa, già cardinale legato in Romagna, fu eletto papa con il nome di Giovanni XXIII e si contrappose, principalmente in Romagna, al papa di obbedienza romana Gregorio XII (Angelo Correr).
Il M. si schierò a favore di Giovanni XXIII, a fianco del Comune di Bologna, che pure aveva colto l'occasione per ribellarsi all'autorità pontificia. Giovanni XXIII nominò il M. suo capitano e nel 1412 lo investì, con i fratelli Giovanni e Jacopo, dell'intera Val di Lamone, con i castelli e i villaggi di Brisighella, Calamello, San Cassiano, Fernazzano e Montevecchio, cui aggiunse Montemaggiore e Montealbergo nell'Imolese. Nel corso del conflitto fra i cugini, Gregorio XII, dietro precisa richiesta di Gian Galeazzo scorporò la contesa Val di Lamone dal distretto di Faenza e la eresse a contea con centro a Brisighella, concedendone la signoria a Gian Galeazzo e ai suoi discendenti (28 genn. 1413). Nel corso del biennio 1412-13 dunque si affrontarono su due diversi livelli Gregorio XII e Giovanni XXIII, il M. e Gian Galeazzo: per i due Manfredi (in particolare per il M.), la posta in gioco era la Val di Lamone, in questo caso probabile chiave della dominazione su Faenza stessa. Il microconflitto manfrediano si protrasse stancamente ma tenacemente sugli Appennini sino alla morte di Gian Galeazzo il 16 ott. 1417. Ai signori di Faenza rimase il controllo della Val di Lamone; il M. aveva ripreso Gattara.
Con il riaccendersi della guerra fra Firenze e il duca di Milano Filippo Maria Visconti, nel 1423-24, mentre i Manfredi di Faenza si allinearono a quest'ultimo, il M. fu contattato da Firenze. Alla fine delle trattative il M. e Firenze giunsero a un accordo ed egli si decise a militare al soldo di Firenze dopo la battaglia di Zagonara: una clausola prevedeva che, in caso di vittoria, al M. andasse la signoria su Faenza, tolta a Guido Antonio di Gian Galeazzo, che militava sull'altro fronte. I Manfredi di Marradi, con l'intraprendente M., avevano evidentemente ripreso ad accarezzare, dopo due generazioni, l'aspirazione di tornare a essere signori di Faenza.
Le truppe fiorentine sotto il comando di Niccolò Piccinino entrarono quindi in Val di Lamone, forti di 5000 lance. Il M. aveva ai suoi ordini diretti 50 lance, e con lui combatteva almeno uno dei fratelli, Jacopo. Lo scontro con le truppe viscontee, nelle quali militava anche il diciassettenne Guido Antonio Manfredi, avvenne a Brisighella: l'esito della battaglia fu decisamente sfavorevole ai Fiorentini. I Viscontei catturarono Piccinino e, meno importante da un punto di vista generale, ma più rilevante per la storia dei rapporti fra i Manfredi di Marradi e i cugini di Faenza, anche Jacopo da Marradi. I prigionieri vennero affidati proprio a Guido Antonio, che frequentando Piccinino venne gradualmente convinto da quest'ultimo a passare al fronte fiorentino.
Nel 1426, al riaprirsi delle ostilità contro Milano, Guido Antonio fu dunque assoldato da Firenze. Questo brusco cambio di fronte colse alla sprovvista il M., che si trovò sopravanzato nella considerazione fiorentina dal suo principale avversario su scala locale. Il M. dunque, dopo avere protestato con il reggimento fiorentino, iniziò a devastare il contado di Firenze con rapide incursioni. Da Firenze lo invitarono allora a recarsi in città per chiarire la faccenda, ma il M. rifiutò. Cedendo infine alle profferte di Francesco Soderini, egli si recò a Firenze, ma appena giunto in città fu imprigionato e rinchiuso nel carcere delle Stinche.
Nel 1432 si concluse infine la vicenda della piccola signoria di Marradi: Bernardino degli Ubaldini, capitano fiorentino, si sbarazzò infatti dei fratelli del M. e si impadronì della piccola signoria appenninica. Il M. dalle Stinche trattò con il reggimento fiorentino e cedette a Firenze i castelli di Marradi, Castiglionchio e Gattara, probabilmente dietro la promessa di una sua liberazione.
In realtà tale liberazione non venne, e anzi Ubaldini si recò a Faenza, dove fu accolto da Gentile Malatesta, vedova di Gian Galeazzo Manfredi, in assenza dei figli Guido Antonio e Astorgio, in quel momento al soldo della Repubblica fiorentina, e cedette ai Manfredi di Faenza il castello di Gattara, per il cui possesso aveva avuto inizio vent'anni prima la lunga diatriba.
Dei Manfredi di Marradi si perdono le tracce: il radicamento del ramo minore faentino nella piccola signoria appenninica non riuscì: la sopravvivenza non era facile del resto neppure per i più potenti cugini di Faenza, come la fine della signoria manfrediana avrebbe dimostrato dopo una settantina d'anni di lotte.
Quanto al M., non sembra fosse mai più riuscito a guadagnare la libertà: Litta dice che partecipò nel 1440 alla battaglia di Anghiari, ma gli storici locali lo dicono al contrario rinchiuso a vita alle Stinche.
Da qui egli tentò in tutti i modi di uscire, facendo appello a grandi figure del reggimento fiorentino e persino al papa. È rimasta infatti una lettera indirizzata dal M. a Cosimo de' Medici dalle carceri l'11 nov. 1434, in cui il M. allude a capitoli presentati a Cosimo in merito alle condizioni della sua liberazione e a una intercessione da parte di papa Eugenio IV in suo favore. La supplica non ebbe esito: nessun risultato ottennero anche suppliche inviate in altra forma, come l'ottava che nel 1449 il M. indirizzava sempre a Cosimo (cfr. Flamini, Sulla prigionia). In prigionia il M. ebbe evidentemente tempo e modo di dilettarsi di poesia: conosciamo di lui anche un sonetto indirizzato a Eugenio IV (Flamini, La lirica).
Il M. morì in prigione, a detta di taluni nel 1465, probabilmente prima. Non gli si attribuiscono né legami matrimoniali né discendenti, come del resto neppure ai fratelli Giovanni e Jacopo, la cui sorte è ancora più oscura.
Fonti e Bibl.: B. Azzurrini, Cronica breviora, a cura di A. Messeri, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXVIII, 3, pp. 75, 83 s.; Statuta civitatis Faventiae, a cura di G. Ballardini, ibid., 5, p. 72; G.C. Tonduzzi, Historie di Faenza, Faenza 1675, s.v.; G.B. Mittarelli, Ad scriptores rerum Italicarum accessiones, Venetiis 1771, Index septimus, s.v.; F. Flamini, Sulla prigionia di L. da Marradi, Lodi 1891; Id., La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa 1891, pp. 963 s.; P. Zama, I Manfredi signori di Faenza, Faenza 1954, pp. 97, 146-156, 163-165; G. Cattani, Politica e religione, in Faenza nell'età dei Manfredi, Faenza 1990, pp. 18, 22, 26; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, s.v. Manfredi di Faenza, tav. III.