LAZZARELLI, Ludovico
Nacque a San Severino Marche il 4 febbr. 1447 da Alessandro, medico, e da Lorenza Tosti, di nobile famiglia di Campli. La tradizionale data di nascita (1450) è stata recentemente corretta da Tenerelli (pp. 9-12) sulla base di un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni, pp. 114 s.) e della notizia d'archivio riferita da Aleandri (p. 274), secondo cui il padre risulta già morto nel 1448. Il L. stesso amava definirsi "Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei pressi dell'odierna San Severino Marche.
Alla morte del padre, il L. si trasferì con la madre e i cinque fratelli a Campli, presso Teramo, dove ricevette la prima educazione e - stando alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la morte - egli dimostrò precocemente inclinazioni poetiche, tanto da comporre, appena tredicenne, un carme sulla battaglia di San Flaviano, che gli avrebbe meritato le lodi di Alessandro Sforza, signore di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum simia".
L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dall'incerta cronologia, della vita fitta di spostamenti condotta dal L. a partire dalla metà degli anni Sessanta. Fu dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore del figlio del signore della città, Matteo Capuano, dove compose un carme esametrico per la morte della duchessa Caterina Orsini Del Balzo, indirizzato con un'epistola accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che, nella sua biografia, la definirà "sententiis quidem refertam quam optimis ultra eius aetatem" (Vita Lodovici, p. 3). Per due anni fu a Teramo presso Giovanni Antonio Campano, "ut eiusdem Campani fratrem amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior fieret" (Lancellotti, p. 7), dove si applicò allo studio del greco, dell'ebraico, della matematica e dell'astrologia. Il fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un tal Vitale ebreo, che negava la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passò a Venezia, dove perfezionò lo studio del latino e del greco alla scuola di Giorgio Merula. Il componimento esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi svoltisi nel 1468 e nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi erano comparati a personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum, costituito da dieci egloghe di soggetto sacro, dedicate ai principali misteri della vita di Cristo: l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano dell'imperatore Federico III, il 30 nov. 1468, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.
Secondo il racconto del fratello, il L. si sarebbe recato presso l'imperatore, di passaggio nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. Il L. stesso celebrò poco più tardi l'evento nell'egloga Laurea.
Una serie di stampe, del tipo dei tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus, poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb. lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo tra il 14 apr. 1471, data di assunzione del titolo ducale di Ferrara da parte di Borso, e il 19 agosto dello stesso anno, data della sua morte. Anche all'interno del testo il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. 717 è portatore di una seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo ducale di Urbino, quindi posteriore all'agosto 1474. Meloni (pp. 99 s.) ipotizza che si possa riconoscere in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716 vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente occorso al duca nel novembre 1477.
L'originaria dedica a Borso d'Este è perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di "appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte, secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma il L. intende riscattare dall'uso ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che "triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas […] et simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché "invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis asseruere suis" (I, 1, 127-140). Nel primo libro sono presentate e descritte, in successione, le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti, identificati con gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone, Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino.
La vicenda compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno del L. a Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere all'educazione del nipote Fabrizio. Il L. intraprese quindi la stesura di un nuovo ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e astrologici.
La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam, livore atque invidia perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita Lodovici, p. 7). Il L. avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione dell'assistenza divina.
Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda compositiva dei Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms. Vat. lat., 2853, autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle indicazioni cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni: una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda, dedicata al re di Francia Carlo VIII, allestita non prima del 1494 e probabilmente abbandonata dopo il fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in sedici libri, costruito secondo il modello del Fasti ovidiani. Sono descritte e celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro successione nel calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e saltuarie indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio finale.
Il poema ricevette onorata accoglienza da parte dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti (pp. 27, 29), nei quali il poeta è celebrato come una sorta di Ovidio reincarnato. Al Platina sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in morte (21 sett. 1481).
Secondo Foà (p. 784), al 1481 daterebbe la conoscenza con Giovanni da Correggio, alla quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr. 1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse anche incontri con il pontefice e vari prelati.
Gli studi di Kristeller hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus, dove è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito da una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis, mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini, p. 44).
Con lo stesso pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino, integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii (ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L. indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio, nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae sapientiae filius" (Kristeller, 1956, p. 242).
Il L. entrò quindi in rapporto con Francesco Colocci quando questi, avendo con sé il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli Satriano. Secondo Fanelli (p. 16 n.), i Colocci passarono nel Regno di Napoli dopo il 1485: poco prima del 1490 andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis puerum".
La datazione dell'opera è controversa e il più recente editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di Angelo Colocci (il 1474), che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore esemplare ("lege sollicito mea carmina visu", v. 17), vero e proprio filius da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite, terrigenae, bombycum exempla sequuti. / […] / Linquite corporeos sensus, mens candida regnet / […]/ Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum penitus penetrate relicta / […]. / Gignite divinam repetito semine prolem. / Quo pacto id fieri possit, mox forte docebo, / hic gradus aethereo primus statuatur Olympo" (vv. 237, 243-244, 246-247, 253-255).
L'ulteriore opera dedicata al tema della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater Hermetis. Si tratta di un dialogo in prosa, nel quale sono inseriti alcuni componimenti poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai vecchio, ha ceduto il governo dello Stato al primogenito Alfonso II. Queste indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il 1492 e il 1494, data della morte del re.
Il recente editore, Moreschini, ha anche riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. XIII. A. A. 34 della Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata nel 1505 da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella prima, di un terzo interlocutore, Giovanni Pontano, con il ruolo, secondario ma non indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del titolo è in un passo del Corpus Hermeticum (IV, 3-4) in cui si parla di un crater inviato da Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si rende così simile a un dio. Moreschini (1985, pp. 206 s.) osserva come nella seconda redazione il L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo (lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica) nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.
Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati da Lancellotti (p. 10), che invano ne aveva cercato copia presso gli eredi del poeta. Brini (p. 24) ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte da Raimondo Lullo e da altri, presentate dal L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est naturalis magia et […] vocatur astrologia terrestris". In questa scienza dichiara di essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia […] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi anno MCCCCXCV" (ed. Brini, p. 76).
Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità divinatorie attraverso il sogno - "habebat […] somnia, quae potius visiones, sive oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino il 23 giugno 1500, a pochi giorni di distanza da quella del fratello Girolamo.
Delle opere del L. sono a stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY, 1997; Fasti Christianae religionis, a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch [Venezia, s.n., dopo il 1500] (cfr. Indice generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, Roma 1955, pp. 34-50; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova 1960, pp. 251-259; le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e Lodovico Lazzerelli. Contributo alla diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola superiore di Pisa, s. 2, VII (1938), pp. 237-262, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1956, pp. 221-247; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI, 5707), quindi in Bombix. Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina…, a cura di G.F. Lancellotti, Aesii 1765, e ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di H. Rheinfelder - P. Christophorov - E. Müller-Bochat, München 1978, pp. 213-231; Crater Hermetis nel corpus di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano, Parisiis, in officina Henrici Stephani, 1505, quindi, in edizione moderna, parzialmente, a cura di M. Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, cit., pp. 51-74 e, integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di Ludovico Lazzarelli, in Id., Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa 1985, pp. 203-265; Vademecum, a cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, cit., pp. 75-77.
Ampie sillogi di scritti del L., frutto di compilazioni sette-ottocentesche, sono contenute nei mss. 3 e 207 della Biblioteca comunale di San Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel ms. 598 della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in Italia medioevale e umanistica, XXIII [1980], p. 384); il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection, VIII.18; una silloge di carmi di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E. 59 della Biblioteca nazionale di Napoli; gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di Baltimora.
Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss., 3, pp. 1-12, 77-102: due copie di F. Lazzarelli, Vita Lodovici Lazarelli Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii 1765; F. Vecchietti - F. Moro, Biblioteca picena, V, Osimo 1796, pp. 238-244; V. Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano 1893, pp. 219 s.; V.E. Aleandri, La famiglia Lazzarelli di Sanseverino (Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, XXII (1894), pp. 272-279; K. Ohly, Ioannes "Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, II (1938), pp. 133-141; L. Thorndike, A history of magic and experimental science, V, New York 1941, pp. 533 s.; L. Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, LX (1958), pp. 48-129 (vi è riferita, p. 91, la lettura di A. Campana della dedica del ms. Urb. lat., 716); P.O. Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento, e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, in Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche nel 150° della fondazione, a cura di A. Pepponi, Viterbo 1960, pp. 15-37; J. Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia medioevale e umanistica, IX (1966), p. 419; F. Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano 1969, pp. 15 s.; C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Res publica litterarum, VIII (1984), pp. 161-170; S. Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni dell'Istituto nazionale sul Rinascimento meridionale, I (1984), pp. 99-133; N. Tenerelli, L. L. ed il rinascimento filosofico italiano, Bari 1991; M.P. Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma 1999; S. Foà, Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma 2000, pp. 784-786; D.P. Walker, Magia spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino 2000, pp. 88-99; M. Meloni, L. L. umanista settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in Studia picena, LXVI (2001), pp. 91-173; P.O. Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, pp. 159-161.